Social news
Detenzione, estrema ratio
Social News 25.1.007
Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, anche attraverso un catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione
Nel dibattito sulla pena nel nostro Paese si fa strada l’idea che la carcerazione rappresenti oggi la risposta più facile ed al tempo stesso meno adeguata per fronteggiare le forme di devianza sociale. Tale affermazione è spesso accompagnata da una diretta critica al sistema delle misure alternative sia quanto alle previsioni normative che ne limitano la concreta operatività, sia per quanto concerne l’applicazione delle stesse da parte della magistratura di sorveglianza. È stato espresso di recente, da parte della massima carica dello Stato, l’auspicio che, attraverso opportuni interventi di riforma del sistema penale e penitenziario, si giunga a considerare la pena detentiva come extrema ratio, come sanzione da applicare solo relativamente ai reati che producono maggiore allarme sociale. Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo, che si svolge nell’ambito dei lavori della Commissione di riforma del Codice penale (Commissione Pisapia), persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, affiancando alla tradizionale pena detentiva (unica in concreto applicata) un nuovo catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione, già previste dall’Ordinamento penitenziario, per dotare la magistratura di sorveglianza di strumenti sempre più efficaci per favorire il reinserimento sociale dei condannati (proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario redatta dal Presidente Margara). L’eccessivo ricorso alla carcerazione nel nostro sistema penale è il dato di partenza di ogni riflessione. E, tuttavia, l’osservazione della realtà degli istituti penitenziari e delle presenze che si registrano al loro interno evidenzia come tale affermazione trovi ampio e positivo riscontro, in particolare, durante la fase delle indagini preliminari e del successivo accertamento delle responsabilità (primo e secondo grado del processo di merito), potendosi constatare un consistente ricorso da parte dei giudici alla misura della custodia cautelare in carcere. Le statistiche dei detenuti presenti alla data del 31 dicembre 2006 negli istituti penitenziari della Regione Lazio informano che su un totale di 3.900 detenuti, circa il 60% è in attesa della condanna definitiva e, quindi, ancora in stato di custodia cautelare.
Non può sfuggire che il basso dato percentuale concernente i condannati definitivi trae origine da una stratificazione normativa disordinata e spesso schizofrenica degli interventi di riforma predisposti per la fase esecutiva, a volte caratterizzati da una esasperata tendenza a rinviare il momento della esecuzione (attraverso forme di sospensione più o meno automatica), ovvero, da improvvisi inasprimenti sollecitati da campagne di stampa che producono allarme nella opinione pubblica (dalle preclusioni previste per i reati di cui all’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, alla nuova disciplina della recidiva). Nella fase esecutiva, dunque, la carcerazione, pur rappresentando l’unica risposta sanzionatoria, risente di una serie di impulsi (legati anche alla eccessiva dilatazione dei tempi del processo) che la rendono in qualche modo inevitabile, ma che spesso ne comportano una concreta applicazione a distanza di molti anni dal reato commesso. Una carcerazione che intervenga a sanzionare con la privazione della libertà personale un individuo per un reato commesso dieci o anche quindici anni prima non è degna di un Paese civile, in quanto si pone essa stessa di ostacolo a processi di risocializzazione eventualmente già avviati. Se il carcere rappresenta, quindi, l’unica risposta che l’ordinamento è in grado di offrire ai problemi della devianza, si deve sottolineare, d’altra parte, come per chi sia entrato nel circuito carcerario risulti sempre più difficile accedere alle misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario. Gli ostacoli sono molteplici, ma per lo più riconducibili alle seguenti situazioni. Spesso le pene detentive di breve durata (entro un anno) vengono espiate integralmente in carcere da chi sia sottoposto a custodia cautelare, a causa della insufficienza dei tempi per avviare una effettiva osservazione penitenziaria e predisporre, quindi, un programma di trattamento adeguato alle caratteristiche individuali della persona condannata. In molti casi, persone che hanno alle spalle una devianza non marginale e che hanno riportato negli anni diverse condanne, si trovano, in occasione del più recente episodio criminoso, a dover subire l’adozione da parte del pubblico ministero di un provvedimento di cumulo (con frequente revoca di benefici in precedenza concessi) che finisce per determinare una quota di pena incompatibile con alcuno dei benefici penitenziari previsti. La difficoltà di accesso alle misure alternative è normativamente imposta, per altro verso, nei confronti delle persone condannate per reati ricompresi nella previsione dell’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, per una parte dei quali ogni misura esterna è preclusa per legge, salvo che non sussista una attività di collaborazione con la giustizia. Vengono prese in considerazione per ultime (ma rappresentano un numero sempre più rilevante) le persone condannate che si inquadrano nella cosiddetta marginalità sociale (extracomunitari, tossicodipendenti di lunga data, disagiati psichici e psichiatrici), nei confronti delle quali il ricorso alle misure esterne è reso particolarmente difficoltoso dalla assenza di idonei riferimenti in grado di sostenere praticabili percorsi di inclusione sociale. L’incremento che negli ultimi anni si è registrato nella applicazione di misure alternative alla detenzione riguarda soprattutto il settore degli interventi realizzati nei confronti di condannati liberi che si sono presentati davanti ai vari Tribunali di sorveglianza dopo i provvedimenti sospensivi previsti dalla legge Simeone (legge n. 165 del 1998).
Il sistema descritto in questa breve premessa non si dimostra, tuttavia, sempre in grado di assicurare l’efficacia degli interventi sia in chiave di reinserimento sociale dei condannati, sia a livello di tutela da possibili e, purtroppo, frequenti forme di recidiva. Credo possa essere utile presentare un caso concreto, relativo ad una persona attualmente detenuta in un istituto detentivo a Roma, per verificare il livello di funzionalità degli interventi messi in atto nei suoi confronti e valutare, poi, se la riforma del Codice penale con i suoi contenuti sanzionatori, prevalentemente prescrittivi e non detentivi, sia in grado di produrre migliori risultati in termini di reinserimento sociale. Si tratta di una persona detenuta perché, in un lungo arco di tempo, ha commesso oltre dieci reati ed ha subito perciò una serie di condanne che nel corso degli anni (10 anni) non lo ha mai costretto ad un periodo di carcerazione di durata significativa. Dopo aver subito dei brevissimi periodi di carcerazione preventiva (quasi mai superiori a tre o quattro giorni), riusciva, infatti, a beneficiare della misura della sospensione condizionale della pena, che gli è stata concessa per ben sei volte. Continuando a commettere reati (prevalentemente contro il patrimonio, ma anche relativi alla detenzione al fine di spaccio di stupefacenti) senza che nessun servizio o istituzione pubblica l’abbia mai preso in carico, si è trovato nel 2005 a commettere un ultimo furto, un furto banale, di entità modesta, per il quale è stato condannato ad una pena detentiva di breve durata. Approfittando del suo stato detentivo, la competente Procura della Repubblica ha inteso verificare la complessiva situazione giudiziaria e penale di tale persona, provvedendo alla emanazione di un cumulo che ha portato la pena complessiva ad oltre 9 anni di carcere. L’aspetto più sorprendente di tale vicenda non è tanto il numero di anni che si sono sommati arrivando fino a nove, quanto il verificare che, a fronte di una serie di reati ripetuti nel tempo a breve distanza l’uno dall’altro, questa persona aveva scontato solo tre anni circa di carcerazione preventiva, trovandosi, quindi, a dovere espiare, una volta formato il cumulo, una pena detentiva residua di oltre 6 anni di carcere. L’entità della pena residua rendeva, pertanto, impossibile qualunque ipotesi di misura alternativa, senza considerare che le prospettive di recupero del giovane (già tossicodipendente da molti anni) si erano nel frattempo assai complicate, a causa del progressivo deterioramento delle condizioni personali, anche rispetto all’abuso delle sostanze, ed alla perdita quasi totale di riferimenti affettivi e familiari in grado di supportare un eventuale percorso terapeutico. Solo il recente provvedimento di indulto del luglio scorso ha riportato la situazione in limiti accettabili, con la rideterminazione di una pena detentiva inferiore ai quattro anni, dalla quale ripartire verso possibili forme di cura e riabilitazione. Il punto critico della situazione (che è assolutamente frequente negli istituti penitenziari) si scorge ove si consideri che questa persona, tossicodipendente nel 1991 e che commetteva reati per procurarsi la dose di sostanza necessaria, per oltre un decennio non è stata presa in carico da nessuno. Mi chiedo, cos’è che ha spinto l’ordinamento (lo Stato nel suo insieme) a mostrare questa faccia così clemente, così indulgente nei confronti del condannato tanto da fargli scontare, a fronte di nove anni di pena complessiva, solo tre anni di pena? L’idea riabilitativa o risocializzante della sanzione? Non credo si possa sostenere che la concessione per sei volte della sospensione condizionale della pena (con implicito invito a proseguire nella propria condotta deviante, vista l’assenza di reazione da parte dell’ordinamento) faccia parte di un programma di intervento razionale volto a favorire il superamento delle problematiche evidenziate dal giovane. Piuttosto, mi sembra di scorgere nell’atteggiamento dell’ordinamento una palese indifferenza verso le sorti del condannato, che si è consumata attraverso una forma di totale disinteresse nei confronti di chi si era reso responsabile di reati che trovavano la loro origine in una forma di disagio sociale aggravata dall’abuso di sostanze stupefacenti.
Con quale autorevolezza lo Stato, finora assente, si presenta oggi al condannato ricordandogli che il debito contratto con l’amministrazione della giustizia è, per così dire, lievitato nel tempo a causa di una mancata tempestiva risposta degli organi competenti? La fallimentare politica penale della mera sospensione condizionale della pena, ripetuta illegittimamente nel tempo, senza il contestuale avvio di un progetto di recupero in favore del giovane autore di reati, ha prodotto solo un incremento di reati e di conseguente carcerazione, tanto più grave perché la privazione della libertà personale si concretizza, per un periodo di tempo medio lungo, a distanza di oltre dieci anni dall’inizio della devianza, in presenza di una situazione particolarmente aggravata sul piano personale, rispetto a 10 anni fa, e complicata dall’insorgere di gravi problemi psichici. Occorre domandarsi, in proposito, se le soluzioni normative ipotizzate dalla Commissione di riforma del Codice penale, ove applicate al caso in esame, avrebbero determinato un risultato diverso e più attento alle istanze risocializzanti del condannato. La tipologia degli interventi auspicati con il ricorso a sanzioni principali diverse da quella detentiva avrebbe potuto mutare sensibilmente il quadro di riferimenti del condannato ed avviarlo verso un progetto di recupero già durante la fase di uno dei tanti processi conclusi con la sospensione condizionale della pena? Credo che una risposta positiva possa essere data solo ove si immagini che le pene alternative irrogate con la sentenza di condanna siano accompagnate da una previsione di immediata operatività, nel senso che le misure di sostegno e di controllo che le caratterizzano possano essere attivate fin dal momento della emissione della sentenza di condanna di primo grado. Tale precisazione si rende indispensabile, in quanto le sanzioni irrogate in sostituzione della pena detentiva, per risultare efficaci, non possono attendere i tempi necessari per la definitività della sentenza, in quanto del tutto imprevedibili e, soprattutto, non coordinati con le reali necessità di recupero del soggetto. Occorre sottolineare con forza, in questa sede, come la presa in carico di una persona da parte di servizi o istituzioni pubbliche o private (gli U.E.P.E., i Ser.T., le Comunità terapeutiche…), ai fini dello svolgimento di una prova o di una misura prescrittiva, non possa essere rinviata nel tempo in attesa della irrevocabilità della sentenza, pena il suo sostanziale fallimento. Ritengo che gli approfondimenti ancora in corso nell’ambito dei lavori della Commissione per la riforma del Codice penale debbano farsi carico di questa problematica, perché si dovrà realizzare un sistema che consenta al giudice del processo di disporre, prima della irrogazione della pena non detentiva, di tutta una serie di informazioni (acquisibili anche attraverso l’indagine affidata agli U.E.P.E.) che potranno supportare la decisione così da costruire un percorso che vada concretamente nella direzione di un tentativo di possibile risocializzazione del condannato. In tale prospettiva, si dovrebbe partire ricercando la condivisione, da parte della persona sottoposta a processo, di un meccanismo di anticipazione della presa in carico, funzionale al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, che potrebbe trovare la sua sede naturale in una sorta di accordo tra le parti, reso ufficiale dall’intervento del giudice, per l’applicazione di una pena prescrittiva, di tipo non detentivo, che non intervenga sul quantum di pena, ma sulla modalità di applicazione della pena stessa. Per quanto concerne, infine, l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, pure previsto nell’ipotesi di riforma del Codice penale, ritengo che la misura possa e debba trovare ingresso nel diritto penale degli adulti, con le stesse modalità già previste per i minori autori di reato e, quindi, senza limiti di pena o esclusioni collegate alla tipologia del reato commesso o alla personalità del condannato. Immaginare che questa particolare misura di probation possa, nel mondo degli adulti, essere applicata con ristretti limiti di pena (si parla di reati puniti, in astratto, con pene non superiori a tre anni), dimostra una mancata consapevolezza dei meccanismi che presiedono l’applicazione del sistema penale nel suo complesso ed apre la strada ad una prevedibile impossibilità di applicazione dell’istituto, senza contribuire a risolvere alcuna delle esigenze prospettate all’inizio.
Atti della Giornata di Studi Nazionale, Persone, non reati che camminano. Ripensare la pena.
Venerdì 25 maggio 2007 - Casa di Reclusione di Padova (www.ristretti.it/)
Paolo Canevelli
magistrato di sorveglianza di roma
Social News 25.1.007
Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, anche attraverso un catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione
Nel dibattito sulla pena nel nostro Paese si fa strada l’idea che la carcerazione rappresenti oggi la risposta più facile ed al tempo stesso meno adeguata per fronteggiare le forme di devianza sociale. Tale affermazione è spesso accompagnata da una diretta critica al sistema delle misure alternative sia quanto alle previsioni normative che ne limitano la concreta operatività, sia per quanto concerne l’applicazione delle stesse da parte della magistratura di sorveglianza. È stato espresso di recente, da parte della massima carica dello Stato, l’auspicio che, attraverso opportuni interventi di riforma del sistema penale e penitenziario, si giunga a considerare la pena detentiva come extrema ratio, come sanzione da applicare solo relativamente ai reati che producono maggiore allarme sociale. Per ridurre drasticamente il ricorso alla pena detentiva, sono in fase di elaborazione e di studio due diversi percorsi di riforma. Il primo, che si svolge nell’ambito dei lavori della Commissione di riforma del Codice penale (Commissione Pisapia), persegue l’obiettivo di ampliare il ventaglio delle sanzioni principali, affiancando alla tradizionale pena detentiva (unica in concreto applicata) un nuovo catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere. Una seconda linea di tendenza si propone di estendere l’area di operatività delle attuali misure alternative alla detenzione, già previste dall’Ordinamento penitenziario, per dotare la magistratura di sorveglianza di strumenti sempre più efficaci per favorire il reinserimento sociale dei condannati (proposta di riforma dell’Ordinamento penitenziario redatta dal Presidente Margara). L’eccessivo ricorso alla carcerazione nel nostro sistema penale è il dato di partenza di ogni riflessione. E, tuttavia, l’osservazione della realtà degli istituti penitenziari e delle presenze che si registrano al loro interno evidenzia come tale affermazione trovi ampio e positivo riscontro, in particolare, durante la fase delle indagini preliminari e del successivo accertamento delle responsabilità (primo e secondo grado del processo di merito), potendosi constatare un consistente ricorso da parte dei giudici alla misura della custodia cautelare in carcere. Le statistiche dei detenuti presenti alla data del 31 dicembre 2006 negli istituti penitenziari della Regione Lazio informano che su un totale di 3.900 detenuti, circa il 60% è in attesa della condanna definitiva e, quindi, ancora in stato di custodia cautelare.
Non può sfuggire che il basso dato percentuale concernente i condannati definitivi trae origine da una stratificazione normativa disordinata e spesso schizofrenica degli interventi di riforma predisposti per la fase esecutiva, a volte caratterizzati da una esasperata tendenza a rinviare il momento della esecuzione (attraverso forme di sospensione più o meno automatica), ovvero, da improvvisi inasprimenti sollecitati da campagne di stampa che producono allarme nella opinione pubblica (dalle preclusioni previste per i reati di cui all’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, alla nuova disciplina della recidiva). Nella fase esecutiva, dunque, la carcerazione, pur rappresentando l’unica risposta sanzionatoria, risente di una serie di impulsi (legati anche alla eccessiva dilatazione dei tempi del processo) che la rendono in qualche modo inevitabile, ma che spesso ne comportano una concreta applicazione a distanza di molti anni dal reato commesso. Una carcerazione che intervenga a sanzionare con la privazione della libertà personale un individuo per un reato commesso dieci o anche quindici anni prima non è degna di un Paese civile, in quanto si pone essa stessa di ostacolo a processi di risocializzazione eventualmente già avviati. Se il carcere rappresenta, quindi, l’unica risposta che l’ordinamento è in grado di offrire ai problemi della devianza, si deve sottolineare, d’altra parte, come per chi sia entrato nel circuito carcerario risulti sempre più difficile accedere alle misure alternative previste dall’Ordinamento penitenziario. Gli ostacoli sono molteplici, ma per lo più riconducibili alle seguenti situazioni. Spesso le pene detentive di breve durata (entro un anno) vengono espiate integralmente in carcere da chi sia sottoposto a custodia cautelare, a causa della insufficienza dei tempi per avviare una effettiva osservazione penitenziaria e predisporre, quindi, un programma di trattamento adeguato alle caratteristiche individuali della persona condannata. In molti casi, persone che hanno alle spalle una devianza non marginale e che hanno riportato negli anni diverse condanne, si trovano, in occasione del più recente episodio criminoso, a dover subire l’adozione da parte del pubblico ministero di un provvedimento di cumulo (con frequente revoca di benefici in precedenza concessi) che finisce per determinare una quota di pena incompatibile con alcuno dei benefici penitenziari previsti. La difficoltà di accesso alle misure alternative è normativamente imposta, per altro verso, nei confronti delle persone condannate per reati ricompresi nella previsione dell’art. 4 bis Ordinamento penitenziario, per una parte dei quali ogni misura esterna è preclusa per legge, salvo che non sussista una attività di collaborazione con la giustizia. Vengono prese in considerazione per ultime (ma rappresentano un numero sempre più rilevante) le persone condannate che si inquadrano nella cosiddetta marginalità sociale (extracomunitari, tossicodipendenti di lunga data, disagiati psichici e psichiatrici), nei confronti delle quali il ricorso alle misure esterne è reso particolarmente difficoltoso dalla assenza di idonei riferimenti in grado di sostenere praticabili percorsi di inclusione sociale. L’incremento che negli ultimi anni si è registrato nella applicazione di misure alternative alla detenzione riguarda soprattutto il settore degli interventi realizzati nei confronti di condannati liberi che si sono presentati davanti ai vari Tribunali di sorveglianza dopo i provvedimenti sospensivi previsti dalla legge Simeone (legge n. 165 del 1998).
Il sistema descritto in questa breve premessa non si dimostra, tuttavia, sempre in grado di assicurare l’efficacia degli interventi sia in chiave di reinserimento sociale dei condannati, sia a livello di tutela da possibili e, purtroppo, frequenti forme di recidiva. Credo possa essere utile presentare un caso concreto, relativo ad una persona attualmente detenuta in un istituto detentivo a Roma, per verificare il livello di funzionalità degli interventi messi in atto nei suoi confronti e valutare, poi, se la riforma del Codice penale con i suoi contenuti sanzionatori, prevalentemente prescrittivi e non detentivi, sia in grado di produrre migliori risultati in termini di reinserimento sociale. Si tratta di una persona detenuta perché, in un lungo arco di tempo, ha commesso oltre dieci reati ed ha subito perciò una serie di condanne che nel corso degli anni (10 anni) non lo ha mai costretto ad un periodo di carcerazione di durata significativa. Dopo aver subito dei brevissimi periodi di carcerazione preventiva (quasi mai superiori a tre o quattro giorni), riusciva, infatti, a beneficiare della misura della sospensione condizionale della pena, che gli è stata concessa per ben sei volte. Continuando a commettere reati (prevalentemente contro il patrimonio, ma anche relativi alla detenzione al fine di spaccio di stupefacenti) senza che nessun servizio o istituzione pubblica l’abbia mai preso in carico, si è trovato nel 2005 a commettere un ultimo furto, un furto banale, di entità modesta, per il quale è stato condannato ad una pena detentiva di breve durata. Approfittando del suo stato detentivo, la competente Procura della Repubblica ha inteso verificare la complessiva situazione giudiziaria e penale di tale persona, provvedendo alla emanazione di un cumulo che ha portato la pena complessiva ad oltre 9 anni di carcere. L’aspetto più sorprendente di tale vicenda non è tanto il numero di anni che si sono sommati arrivando fino a nove, quanto il verificare che, a fronte di una serie di reati ripetuti nel tempo a breve distanza l’uno dall’altro, questa persona aveva scontato solo tre anni circa di carcerazione preventiva, trovandosi, quindi, a dovere espiare, una volta formato il cumulo, una pena detentiva residua di oltre 6 anni di carcere. L’entità della pena residua rendeva, pertanto, impossibile qualunque ipotesi di misura alternativa, senza considerare che le prospettive di recupero del giovane (già tossicodipendente da molti anni) si erano nel frattempo assai complicate, a causa del progressivo deterioramento delle condizioni personali, anche rispetto all’abuso delle sostanze, ed alla perdita quasi totale di riferimenti affettivi e familiari in grado di supportare un eventuale percorso terapeutico. Solo il recente provvedimento di indulto del luglio scorso ha riportato la situazione in limiti accettabili, con la rideterminazione di una pena detentiva inferiore ai quattro anni, dalla quale ripartire verso possibili forme di cura e riabilitazione. Il punto critico della situazione (che è assolutamente frequente negli istituti penitenziari) si scorge ove si consideri che questa persona, tossicodipendente nel 1991 e che commetteva reati per procurarsi la dose di sostanza necessaria, per oltre un decennio non è stata presa in carico da nessuno. Mi chiedo, cos’è che ha spinto l’ordinamento (lo Stato nel suo insieme) a mostrare questa faccia così clemente, così indulgente nei confronti del condannato tanto da fargli scontare, a fronte di nove anni di pena complessiva, solo tre anni di pena? L’idea riabilitativa o risocializzante della sanzione? Non credo si possa sostenere che la concessione per sei volte della sospensione condizionale della pena (con implicito invito a proseguire nella propria condotta deviante, vista l’assenza di reazione da parte dell’ordinamento) faccia parte di un programma di intervento razionale volto a favorire il superamento delle problematiche evidenziate dal giovane. Piuttosto, mi sembra di scorgere nell’atteggiamento dell’ordinamento una palese indifferenza verso le sorti del condannato, che si è consumata attraverso una forma di totale disinteresse nei confronti di chi si era reso responsabile di reati che trovavano la loro origine in una forma di disagio sociale aggravata dall’abuso di sostanze stupefacenti.
Con quale autorevolezza lo Stato, finora assente, si presenta oggi al condannato ricordandogli che il debito contratto con l’amministrazione della giustizia è, per così dire, lievitato nel tempo a causa di una mancata tempestiva risposta degli organi competenti? La fallimentare politica penale della mera sospensione condizionale della pena, ripetuta illegittimamente nel tempo, senza il contestuale avvio di un progetto di recupero in favore del giovane autore di reati, ha prodotto solo un incremento di reati e di conseguente carcerazione, tanto più grave perché la privazione della libertà personale si concretizza, per un periodo di tempo medio lungo, a distanza di oltre dieci anni dall’inizio della devianza, in presenza di una situazione particolarmente aggravata sul piano personale, rispetto a 10 anni fa, e complicata dall’insorgere di gravi problemi psichici. Occorre domandarsi, in proposito, se le soluzioni normative ipotizzate dalla Commissione di riforma del Codice penale, ove applicate al caso in esame, avrebbero determinato un risultato diverso e più attento alle istanze risocializzanti del condannato. La tipologia degli interventi auspicati con il ricorso a sanzioni principali diverse da quella detentiva avrebbe potuto mutare sensibilmente il quadro di riferimenti del condannato ed avviarlo verso un progetto di recupero già durante la fase di uno dei tanti processi conclusi con la sospensione condizionale della pena? Credo che una risposta positiva possa essere data solo ove si immagini che le pene alternative irrogate con la sentenza di condanna siano accompagnate da una previsione di immediata operatività, nel senso che le misure di sostegno e di controllo che le caratterizzano possano essere attivate fin dal momento della emissione della sentenza di condanna di primo grado. Tale precisazione si rende indispensabile, in quanto le sanzioni irrogate in sostituzione della pena detentiva, per risultare efficaci, non possono attendere i tempi necessari per la definitività della sentenza, in quanto del tutto imprevedibili e, soprattutto, non coordinati con le reali necessità di recupero del soggetto. Occorre sottolineare con forza, in questa sede, come la presa in carico di una persona da parte di servizi o istituzioni pubbliche o private (gli U.E.P.E., i Ser.T., le Comunità terapeutiche…), ai fini dello svolgimento di una prova o di una misura prescrittiva, non possa essere rinviata nel tempo in attesa della irrevocabilità della sentenza, pena il suo sostanziale fallimento. Ritengo che gli approfondimenti ancora in corso nell’ambito dei lavori della Commissione per la riforma del Codice penale debbano farsi carico di questa problematica, perché si dovrà realizzare un sistema che consenta al giudice del processo di disporre, prima della irrogazione della pena non detentiva, di tutta una serie di informazioni (acquisibili anche attraverso l’indagine affidata agli U.E.P.E.) che potranno supportare la decisione così da costruire un percorso che vada concretamente nella direzione di un tentativo di possibile risocializzazione del condannato. In tale prospettiva, si dovrebbe partire ricercando la condivisione, da parte della persona sottoposta a processo, di un meccanismo di anticipazione della presa in carico, funzionale al raggiungimento degli obiettivi perseguiti, che potrebbe trovare la sua sede naturale in una sorta di accordo tra le parti, reso ufficiale dall’intervento del giudice, per l’applicazione di una pena prescrittiva, di tipo non detentivo, che non intervenga sul quantum di pena, ma sulla modalità di applicazione della pena stessa. Per quanto concerne, infine, l’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, pure previsto nell’ipotesi di riforma del Codice penale, ritengo che la misura possa e debba trovare ingresso nel diritto penale degli adulti, con le stesse modalità già previste per i minori autori di reato e, quindi, senza limiti di pena o esclusioni collegate alla tipologia del reato commesso o alla personalità del condannato. Immaginare che questa particolare misura di probation possa, nel mondo degli adulti, essere applicata con ristretti limiti di pena (si parla di reati puniti, in astratto, con pene non superiori a tre anni), dimostra una mancata consapevolezza dei meccanismi che presiedono l’applicazione del sistema penale nel suo complesso ed apre la strada ad una prevedibile impossibilità di applicazione dell’istituto, senza contribuire a risolvere alcuna delle esigenze prospettate all’inizio.
Atti della Giornata di Studi Nazionale, Persone, non reati che camminano. Ripensare la pena.
Venerdì 25 maggio 2007 - Casa di Reclusione di Padova (www.ristretti.it/)
Paolo Canevelli
magistrato di sorveglianza di roma
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