Giustizia: Alfano; la "riforma delle riforme" non può aspettare
Il Foglio, 2 settembre 2008
Il ministro Angelino Alfano ci spiega la riforma delle riforme, ricorda al Pd lo spirito della Bicamerale, ma dice che stavolta il processo riformatore non si fermerà.
"La riforma della giustizia sarà uno degli interventi attraverso cui la storia giudicherà l’esperienza politica di Silvio Berlusconi, è assolutamente centrale all’interno del processo riformatore del governo". E dunque separazione delle carriere, corte disciplinare per i magistrati estrapolata dal Csm, riforma radicale del Consiglio superiore, revisione della procedura penale e del processo civile, superamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale, e infine anche un nuovo sistema carcerario. È la riforma "ab imis" promessa dal Cav. "con coerenza dal 1994 - dice il ministro - Adesso è venuto il momento di mettere tutto in pratica, fino in fondo, e segnare un solco profondo tra noi e un passato fatto di lentezze processuali, inefficienze, e dunque ingiustizie". Pasciuto nella De di Agrigento, e voluto avvocato dal papà consigliere comunale della sinistra democristiana, il Guardasigilli Angelino Alfano si è guadagnato la laurea alla Cattolica e altri allori a Palermo (un dottorato), ma soprattutto non ha niente a che vedere con quel costume democristiano (e siciliano), quel linguaggio arcivescovile che ispirarono a Leonardo Sciascia "Todo Modo" e "Il contesto"; quell’afasia evasiva che veniva dalle sacrestie, dall’interloquire solitario tra il demone e il santo: "Noi la riforma la facciamo - dice - prenderemo in mano la procedura penale per ammodernarla".
E dev’essere l’energia dei suoi trentott’anni vissuti nel rimestio tragico della politica italiana del dopo Tangentopoli. Giovane promettente della De in Sicilia, dopo la tempesta di Mani pulite a venticinque anni era già deputato dell’Assemblea regionale, dentro Forza Italia, "dalla fondazione", racconta. Dieci anni dopo ne sarebbe divenuto il coordinatore. Adesso è il designato per affrontare il grande rimosso giudiziario del paese, con spirito bicamerale ma non troppo.
"Intendiamo dialogare, ma intendiamo dialogare e decidere alla fine. L’infinito chiacchiericcio non appartiene alla nostra cultura di governo, è l’esatto contrario della richiesta del paese. Se a cento giorni dall’avvio del suo mandato i sondaggi premiano Berlusconi è perché questo governo ha finora saputo interpretare il disperato bisogno di decisioni che il paese ha espresso con il voto alle politiche".
Ma i sondaggi non premiano soltanto il governo nel suo complesso. Lo stesso Alfano, a tre mesi dalla nomina a Via Arenula, è tra i ministri che riscuotono maggiore fiducia e apprezzamento. Un evento raro per un ministero come quello della Giustizia che, di solito, ha offuscato e sbalzato nelle polemiche quasi sempre (e quasi subito) il titolare di turno.
Non è così per Alfano, il Guardasigilli che gli antipatizzanti definivano una "mera protesi" di Berlusconi alla Giustizia oggi ha il merito riconosciuto d’aver posto di fronte all’opinione pubblica, con successo, garbo e fermezza, le questioni dirimenti del rimosso giudiziario. Anche l’Anni, pur negli ultimi, duri, attacchi rivolti al governo, ha sempre usato cautela e attenzione nei confronti del ministro che disse loro al Congresso nazionale: "Il mio programma è il vostro programma".
Perché nella dottrina Alfano "il dialogo viene prima di tutto ma poi devono seguire le scelte anche impopolari, purché utili e necessarie". Mercoledì scorso Giulio Tremonti, applauditissimo al Meeting di Rimini, ha detto che "fare delle scelte non significa tornare al fascismo, ma compiere un dovere istituzionale".
Il Guardasigilli è d’accordo, "ma una decisione senza dialogo assomiglia troppo a una unilaterale dichiarazione di guerra. Per questo noi chiediamo alla parte più ragionevole dell’opposizione di condividere con noi le scelte che riguardano l’assetto e il futuro del nostro paese. Del resto se si fece la Bicamerale, e se la Bicamerale arrivò a un determinato punto, il motivo fu proprio questo. Cioè la necessità che alcune regole di funzionamento nell’ambito del sistema giustizia si riscrivessero insieme".
La Bicamerale doveva essere il Tempio della trasformazione italiana, lì dentro il verme-crisalide doveva diventare farfalla e il serpente mutare la pelle. "Non fu così", ammette Alfano. Allora tutti si convinsero che sarebbero passati alla storia, ma fu una storia fatta di carte, bozze, contro bozze, aerei di carta, poesiole d’occasione, ghirigori, arabeschi, trappole insidiose, nervosismi e disfunzioni ormonali: "Questa volta non ci saranno perdite di tempo - dice - la riforma della Giustizia sarà la linea di demarcazione più attuale tra riformatori e riformisti, fra coloro i quali vogliono lasciare le cose così come sono e chi vuole cambiare.
Per come la vedo io, si ha tutto il diritto di essere conservatori, a condizione però - aggiunge - che i cittadini sappiano cosa si intende conservare: tempi del processo inaccettabili, un sistema delle carceri che non funziona, un complesso di distorsioni ingiustificabili che rende poco competitivo il nostro paese anche sulla scena internazionale".
La strada è piena di ostacoli. Il dialogo va cercato con l’opposizione, con il Partito democratico, ma anche con i magistrati che di separazione delle carriere, riforma del Csm e revisione del principio di obbligatorietà dell’azione penale proprio non vogliono sentir parlare. Il segretario dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Cascini, ha definito "modello fascista" l’idea di riequilibrare la composizione, tra laici e togati, all’interno del Consiglio superiore.
Mentre il presidente dell’Anm, Luca Palamara, ha spiegato che l’abolizione dell’obbligatorietà "sarebbe un incentivo a delinquere", tanto che, contro l’ipotesi di una riforma l’Anm resta in "vigile attesa", senza escludere il ricorso a uno sciopero. Non c’è il rischio che la riforma della Giustizia blocchi, in un pantano di veti e contestazioni, il processo riformatore del governo tout court?
"La Giustizia è il cardine del processo riformatore del governo e non si può fermare - spiega Alfano -. Ai giudici voglio dire che, in riferimento a ogni singola questione, intendiamo entrare nel merito e valutare con serietà la posizione di ciascuno. Infine, per quanto riguarda Palamara e Cascini, mi pregerò di regalare loro un bel libro di Alessandro Pizzorno (studioso che non si può certo definire fascista) dal titolo "Il potere dei giudici, stato democratico e controllo della virtù".
L’obbligatorietà dell’azione penale non è un dogma. E poi - aggiunge - la declinazione pratica di questo principio costituzionale ci ha consegnato nel tempo una cosa un po’ diversa rispetto a quella che era immaginata dai padri costituenti. L’obbligatorietà si è tradotta in una sostanziale discrezionalità. Se ne sono accorti in molti, a sinistra e nella magistratura, tant’è che numerosi uffici giudiziari nel tempo si sono organizzati per assicurare l’efficienza attraverso un sistema basato su priorità ben ordinate, che offrano un indirizzo preciso e una certa razionalità negli interventi".
Come la circolare di Marcello Maddalena, il procuratore di Torino amico di Giancarlo Caselli. "Il governo si è già incamminato su questa strada quando abbiamo approvato il pacchetto sicurezza. È il percorso che affronteremo fino in fondo, con il decreto sicurezza abbiamo agito per via legislativa affidando poi le modalità ai singoli uffici giudiziari, adesso è arrivato il momento di far sedimentare quelle scelte attraverso un intervento costituzionale".
Ma le toghe non criticano solo questo, sostengono il retro-pensiero che la riforma, nel suo complesso, abbia una volontà punitiva nei loro confronti. "Non vi è nessuna volontà di ritorsione, al centro della riforma non ci sono tanto i magistrati, quanto una serie di misure che nel loro insieme saranno orientate a rendere efficiente il sistema dei processi. Abbiamo anche trovato il sistema di ovviare ai tagli imposti dalla Finanziaria al comparto giustizia attraverso l’utilizzo dei fondi confiscati alla criminalità organizzata".
Eppure c’è chi, come Antonio Di Pietro, ma anche nel Partito democratico, sostiene che in fondo si tratti sempre e comunque di azioni dettate dalla necessità di preservare il presidente del Consiglio dai suoi, personali, problemi giudiziari. Walter Veltroni, il 20 agosto, ha presentato la festa del Partito democratico partendo con un affondo contro il governo e il suo capo: "I destini del paese - ha detto - sono confusi con i destini giudiziari di un solo uomo".
Un’idea diffusa, che tra gli osservatori ha avuto per corollario la convinzione che una volta approvato il lodo sulle immunità e messo al riparo il premier dagli attacchi delle procure, il processo riformatore tanto sbandierato dal governo, in realtà, non avrebbe avuto nessun seguito. "Si tratta di un ragionamento capzioso, nonché sbagliato - dice Alfano - Anzi è proprio il contrario. È grazie al Lodo che adesso, finalmente, riteniamo non possano più esserci fraintendimenti".
Perché fino a ieri, ogni volta che si è arrivati al dunque, regolarmente e affannosamente la politica se l’è data a gambe, intimidita inseguita e spernacchiata dai migliori, i sacerdoti della Verità e della Giustizia, le stelle fisse che brillavano nel cielo milanese di Mani pulite. E il dibattito sulla riforma della Giustizia è degradato inevitabilmente a un pro e contro Berlusconi, alla stucchevole contesa sull’imprenditore - imputato - deputato.
"Quella stagione è finita - dice Alfano - In virtù dell’immunità approvata dal Parlamento viene meno il principale dei pretesti utilizzati da chi intende conservare lo stato della giustizia. Non credo che nessuno più possa giocare in malafede con questo ritornello, la litania nasale di chi crede che ogni intervento sulla giustizia nasconda, in fondo, l’interesse occulto di Berlusconi".
L’eterno ritorno alla rivoluzione italiana del forcaiolismo dipietrista, a quella vicenda di energia popolare e di strumentalizzazione, di vitalità morale e di focoso moralismo, con il suo carico di emergenza, esagerazione, esagitazione. "La vera questione - continua Alfano -non è se la maggioranza si sia liberata dall’accusa di fare leggi per il premier, ma se il Pd riesce a tirarsi fuori dal bivio tra l’antiberlusconismo giustizialista e la via delle riforme. È il Partito democratico ad avere qualcosa da dimostrare, dovrà scegliere una volta per tutte se imboccare finalmente la strada del progresso, oppure no. Se non sarà capace - conclude - e nutrirà ancora di antiberlusconismo i suoi gruppi dirigenti, allora avrà abbandonato ogni prospettiva riformista e forse abiurato la sua vocazione. Insisto: c’è un’occasione storica per fare una riforma condivisa e non ce la lasceremo scappare".
Questo paese - spiega il ministro -"ha un urgente bisogno di riforme, specie nella giustizia. Il sistema carcerario dev’essere ristrutturato, ne va della dignità umana dei detenuti, della civiltà giuridica della nostra comunità. Davvero ci si può rifiutare di collaborare, su un tema così importante, che ha ricadute sulla pelle di altri esseri umani? Non credo". Che cosa farà il governo? "Cerchiamo un’altra via, tra quella dei giustizialisti e i teorici del farla franca".
L’indulto è fallito perché i detenuti "tornano a delinquere se non hanno un lavoro", spiega il ministro. Eppure Alfano l’indulto, da parlamentare, lo ha votato, "Ma è stato un fallimento. Un errore da non ripetere - dice - i detenuti sono usciti senza che vi fosse stata un’operazione di recupero" che evitasse loro di tornare a delinquere.
D’altra parte è questo il vero scopo sociale del carcere, secondo la dottrina del governo Berlusconi quarto: "In carcere ci si salva solo grazie a un incontro, a una buona compagnia - spiega il ministro - La funzione delle istituzioni deve essere questa: aiutare l’incontro. Indurre, costringere a tirare fuori il meglio di sé". Così l’idea di introdurre il braccialetto elettronico, "affinché i detenuti possano lavorare e tentare di recuperare un loro posto al mondo". Un progetto che in Francia ha funzionato, "come mi ha raccontato Rachida Dati", il ministro della Giustizia di Nicolas Sarkozy.
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