lETTERA APERTA AL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA
Al Sig. Ministro della Giustizia
e, p. c. Al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Economia
Al Sig. Ministro dell’Interno
Al Sig. Ministro per le Pari Opportunità Roma
Alla Redazione dei Quotidiani e siti internet antigone.it cercasiunfine.it lavoce.info libera.it nessunotocchicaino.it ristretti.it santegidio.org sbilanciamoci.it vita.it
Oggetto: Sistema carcerario, pena rieducativa, economia. Una ragionevole proposta.
La questione è nota: la capacità ricettiva del nostro sistema carcerario è oltre modo compromessa.
In spazi spesso obsoleti e fisicamente degradati/fatiscenti, una moltitudine di persone (detenuti, polizia penitenziaria, educatori, ecc.) vive compressa, nella negazione dei principi costituzionali, dei trattati internazionali e – fatto di per sé paradossale – delle norme fondamentali dello stesso ordinamento!
Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva diramato una nota (“Miglioramento della dignità detentiva”) che invitava ad adottare misure minime per “rendere meno afflittiva la detenzione”. Molto più efficaci appaiono gli effetti delle norme da Lei tempestivamente adottate, che consentono un alleggerimento del sovraffollamento, vera e propria “pena supplementare” (Benedetto XVI) inflitta ai detenuti, condannati o, spesso, semplicemente persone in attesa di giudizio.
Ricorrenti rivolte, tentativi quotidiani di suicidio e frequenti suicidi (anche di agenti della polizia penitenziaria) dimostrano tuttavia che si deve (e si può) fare molto di più. Anche perché occorre rendere strutturali misure che tendano a garantire la rieducazione del condannato, senza inseguire o tamponare sempre l’emergenza con “cerotti” o “pezze” di carattere provvisorio.
Guardando al nostro ordinamento – e, quindi, senza inseguire utopie – è possibile individuare due ipotesi che possono costituire fonti di ispirazione per una riforma strutturale del sistema penitenziario:
le norme sul processo minorile (l. 448/88), che hanno reso residuale il ricorso alla detenzione dei soggetti minori d’età; il Testo Unico in materia di dipendenze patologiche (DPR 309/90), che prevede – quale alternativa al carcere – l’affidamento di soggetti tossicodipendenti/alcooldipendenti condannati ai Servizi Sociosanitari o a comunità terapeutiche accreditate (artt. 89-96).
Certo, anche l’applicazione di tali norme non è priva di problemi e criticità ma, nel loro complesso, le esperienze realizzate in oltre due decenni dimostrano la possibilità di gestire situazioni difficili uscendo dalla (o riducendo gli effetti della) logica del carcere. Fermo restando, quindi, le esigenze di tutela sociale, per le quali il carcere costituisce un rimedio indispensabile di garanzia di sicurezza – ovvero nei casi inderogabili per categorie di reati/condanne che non appaiono conciliabili con misure alternative (si pensi ai casi di associazione ad organizzazioni criminali e/o alla recidività, qualora le misure alternative vengano strumentalizzate al mero scopo di perseverare in scelte/comportamenti devianti) – il ricorso alla detenzione dovrebbe e potrebbe essere considerato, come per i minorenni o i soggetti in condizione di dipendenze patologiche, l’estrema ratio di una condanna.
Perché?
Sicuramente per le già richiamate ragioni umanitarie, di civiltà e di rispetto delle norme: un sistema incapace di osservare le regole minime non può pretendere di educare alla legalità!
Ma anche per motivi economici. Nel decennio 2001-2010, il costo medio giornaliero per detenuto ammonta a circa 139 euro.
Fonte: http://www.ristretti.it/commenti/2011/aprile/pdf/costo_carceri.pdf Elaborazione su dati del Ministero della Giustizia
Strutture qualificate ed accreditate, sia pubbliche che di Terzo Settore – Aziende di Servizio alla Persona, cooperative sociali, comunità terapeutiche, ecc. – sarebbero in grado di accogliere, con tale cifra pro die, più di una persona, formulando programmi personalizzati di recupero e rieducazione fondati sul lavoro e la formazione, d’intesa con la Magistratura di Sorveglianza, i Servizi Sociali della Giustizia e del territorio, le Associazioni di promozione sociale e del volontariato. Supponendo che detto importo consenta di stimare l’accoglienza in 1,2 – 1,5 persone condannate per reati che non costituiscano motivo di grave allarme sociale, il 2 – 3% del costo giornaliero ora sostenuto dal sistema carcerario, consentirebbe di alleggerire l’affollamento del 2,4 – 3,6% (nell’ipotesi minima). Ovvero del 3 – 4,5% (secondo una valutazione più ottimistica, non lontana dal totale dei detenuti collocati/da collocare agli arresti domiciliari – poco più di 3000 – che il recente decreto di alleggerimento del sovraffollamento ipotizza). Poiché la quota prevalente del bilancio della Giustizia è assorbita dal personale in servizio, non è immaginabile che possano esservi – nel breve periodo – spostamenti consistenti di risorse finanziarie verso un “settore extracarcerario” (in parte già esistente e qualificato, in parte da costruire con tutte le necessarie garanzie di serietà ed affidabilità richieste). Tuttavia, insieme ad un processo di revisione delle norme che consenta una progressiva riorganizzazione del sistema, è possibile ipotizzare una inversione di tendenza: inizialmente minima (l’1 – 2% per anno), anche attingendo a risorse finanziarie diverse (come i beni ed i capitali sequestrati alle organizzazioni criminali), ma con effetti positivi nel tempo e di carattere sistemico sul piano del contenimento dell’affollamento. Probabilmente, nel medio-lungo periodo, anche positivi sul piano dell’occupazione di figure qualificate (educatori, assistenti sociali, psicologi, ecc.) nell’extracarcerario. Per quanto lento, tale processo di riduzione del sovraffollamento, si prospetta di sicuro più rapido ed economico (se si considera la spesa per il personale) di ogni ipotesi di costruzione di nuovi istituti penitenziari – sia pure necessari per sostituire immobili ormai irrecuperabili sul piano fisico/strutturale.
Per motivi di efficacia. Tutte le sperimentazioni in atto, nei pochi istituti penali che lo consentono o grazie alle norme sulle misure alternative, documentano che la ricaduta e la recidività costituiscono l’eccezione e non la regola: chi esce dal carcere per lavorare o imparare un mestiere o studiare, svolgere compiti, funzioni o servizi di pubblica utilità, partecipa alla propria rieducazione e, spesso, contribuisce al sostentamento proprio e dei familiari.
Per ragioni di “responsabilità sociale”. L’universo manicomiale e quello carcerario, cioè le istituzioni totali – come dimostrato magistralmente dagli studi e dalle esperienze di Foucault, Goffman, Basaglia ed altri – nascondono l’illusione della società di “occultare” a se stessa quella parte considerata malata o deviante e, quindi, pericolosa. Si tratta – invece – di un pezzo di umanità che appartiene alla stessa società e che non può essere espulsa o negata senza ulteriori effetti disastrosi. La “sicurezza” costruita con meccanismi di espulsione, cioè in assenza di coesione e cooperazione sociale, si rivela sempre fragile e fallace.
Esiste nello stesso sito del Suo Ministero una pagina dedicata al tema “Misure alternative o di comunità”( http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_3_2.wp?previsiousPage=mg_14_7 http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_3_2.wp?previsiousPage=mg_14_7): è una strada già tracciata, quindi, che deve essere percorsa per dare dignità a quella parte di umanità che la comunità ha interesse a riconoscere come “propria”.
Cordialmente Antonio Nappi*
*Assistente Sociale, Nucleo Operativo Tossicodipendenze, Prefettura di Bari Docente a contratto, Università di Bari, Corso dl Laurea in Scienze del Servizio Sociale
e, p. c. Al Sig. Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro dell’Economia
Al Sig. Ministro dell’Interno
Al Sig. Ministro per le Pari Opportunità Roma
Alla Redazione dei Quotidiani e siti internet antigone.it cercasiunfine.it lavoce.info libera.it nessunotocchicaino.it ristretti.it santegidio.org sbilanciamoci.it vita.it
Oggetto: Sistema carcerario, pena rieducativa, economia. Una ragionevole proposta.
La questione è nota: la capacità ricettiva del nostro sistema carcerario è oltre modo compromessa.
In spazi spesso obsoleti e fisicamente degradati/fatiscenti, una moltitudine di persone (detenuti, polizia penitenziaria, educatori, ecc.) vive compressa, nella negazione dei principi costituzionali, dei trattati internazionali e – fatto di per sé paradossale – delle norme fondamentali dello stesso ordinamento!
Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria aveva diramato una nota (“Miglioramento della dignità detentiva”) che invitava ad adottare misure minime per “rendere meno afflittiva la detenzione”. Molto più efficaci appaiono gli effetti delle norme da Lei tempestivamente adottate, che consentono un alleggerimento del sovraffollamento, vera e propria “pena supplementare” (Benedetto XVI) inflitta ai detenuti, condannati o, spesso, semplicemente persone in attesa di giudizio.
Ricorrenti rivolte, tentativi quotidiani di suicidio e frequenti suicidi (anche di agenti della polizia penitenziaria) dimostrano tuttavia che si deve (e si può) fare molto di più. Anche perché occorre rendere strutturali misure che tendano a garantire la rieducazione del condannato, senza inseguire o tamponare sempre l’emergenza con “cerotti” o “pezze” di carattere provvisorio.
Guardando al nostro ordinamento – e, quindi, senza inseguire utopie – è possibile individuare due ipotesi che possono costituire fonti di ispirazione per una riforma strutturale del sistema penitenziario:
le norme sul processo minorile (l. 448/88), che hanno reso residuale il ricorso alla detenzione dei soggetti minori d’età; il Testo Unico in materia di dipendenze patologiche (DPR 309/90), che prevede – quale alternativa al carcere – l’affidamento di soggetti tossicodipendenti/alcooldipendenti condannati ai Servizi Sociosanitari o a comunità terapeutiche accreditate (artt. 89-96).
Certo, anche l’applicazione di tali norme non è priva di problemi e criticità ma, nel loro complesso, le esperienze realizzate in oltre due decenni dimostrano la possibilità di gestire situazioni difficili uscendo dalla (o riducendo gli effetti della) logica del carcere. Fermo restando, quindi, le esigenze di tutela sociale, per le quali il carcere costituisce un rimedio indispensabile di garanzia di sicurezza – ovvero nei casi inderogabili per categorie di reati/condanne che non appaiono conciliabili con misure alternative (si pensi ai casi di associazione ad organizzazioni criminali e/o alla recidività, qualora le misure alternative vengano strumentalizzate al mero scopo di perseverare in scelte/comportamenti devianti) – il ricorso alla detenzione dovrebbe e potrebbe essere considerato, come per i minorenni o i soggetti in condizione di dipendenze patologiche, l’estrema ratio di una condanna.
Perché?
Sicuramente per le già richiamate ragioni umanitarie, di civiltà e di rispetto delle norme: un sistema incapace di osservare le regole minime non può pretendere di educare alla legalità!
Ma anche per motivi economici. Nel decennio 2001-2010, il costo medio giornaliero per detenuto ammonta a circa 139 euro.
Fonte: http://www.ristretti.it/commenti/2011/aprile/pdf/costo_carceri.pdf Elaborazione su dati del Ministero della Giustizia
Strutture qualificate ed accreditate, sia pubbliche che di Terzo Settore – Aziende di Servizio alla Persona, cooperative sociali, comunità terapeutiche, ecc. – sarebbero in grado di accogliere, con tale cifra pro die, più di una persona, formulando programmi personalizzati di recupero e rieducazione fondati sul lavoro e la formazione, d’intesa con la Magistratura di Sorveglianza, i Servizi Sociali della Giustizia e del territorio, le Associazioni di promozione sociale e del volontariato. Supponendo che detto importo consenta di stimare l’accoglienza in 1,2 – 1,5 persone condannate per reati che non costituiscano motivo di grave allarme sociale, il 2 – 3% del costo giornaliero ora sostenuto dal sistema carcerario, consentirebbe di alleggerire l’affollamento del 2,4 – 3,6% (nell’ipotesi minima). Ovvero del 3 – 4,5% (secondo una valutazione più ottimistica, non lontana dal totale dei detenuti collocati/da collocare agli arresti domiciliari – poco più di 3000 – che il recente decreto di alleggerimento del sovraffollamento ipotizza). Poiché la quota prevalente del bilancio della Giustizia è assorbita dal personale in servizio, non è immaginabile che possano esservi – nel breve periodo – spostamenti consistenti di risorse finanziarie verso un “settore extracarcerario” (in parte già esistente e qualificato, in parte da costruire con tutte le necessarie garanzie di serietà ed affidabilità richieste). Tuttavia, insieme ad un processo di revisione delle norme che consenta una progressiva riorganizzazione del sistema, è possibile ipotizzare una inversione di tendenza: inizialmente minima (l’1 – 2% per anno), anche attingendo a risorse finanziarie diverse (come i beni ed i capitali sequestrati alle organizzazioni criminali), ma con effetti positivi nel tempo e di carattere sistemico sul piano del contenimento dell’affollamento. Probabilmente, nel medio-lungo periodo, anche positivi sul piano dell’occupazione di figure qualificate (educatori, assistenti sociali, psicologi, ecc.) nell’extracarcerario. Per quanto lento, tale processo di riduzione del sovraffollamento, si prospetta di sicuro più rapido ed economico (se si considera la spesa per il personale) di ogni ipotesi di costruzione di nuovi istituti penitenziari – sia pure necessari per sostituire immobili ormai irrecuperabili sul piano fisico/strutturale.
Per motivi di efficacia. Tutte le sperimentazioni in atto, nei pochi istituti penali che lo consentono o grazie alle norme sulle misure alternative, documentano che la ricaduta e la recidività costituiscono l’eccezione e non la regola: chi esce dal carcere per lavorare o imparare un mestiere o studiare, svolgere compiti, funzioni o servizi di pubblica utilità, partecipa alla propria rieducazione e, spesso, contribuisce al sostentamento proprio e dei familiari.
Per ragioni di “responsabilità sociale”. L’universo manicomiale e quello carcerario, cioè le istituzioni totali – come dimostrato magistralmente dagli studi e dalle esperienze di Foucault, Goffman, Basaglia ed altri – nascondono l’illusione della società di “occultare” a se stessa quella parte considerata malata o deviante e, quindi, pericolosa. Si tratta – invece – di un pezzo di umanità che appartiene alla stessa società e che non può essere espulsa o negata senza ulteriori effetti disastrosi. La “sicurezza” costruita con meccanismi di espulsione, cioè in assenza di coesione e cooperazione sociale, si rivela sempre fragile e fallace.
Esiste nello stesso sito del Suo Ministero una pagina dedicata al tema “Misure alternative o di comunità”( http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_3_2.wp?previsiousPage=mg_14_7 http://www.giustizia.it/giustizia/it/mg_2_3_2.wp?previsiousPage=mg_14_7): è una strada già tracciata, quindi, che deve essere percorsa per dare dignità a quella parte di umanità che la comunità ha interesse a riconoscere come “propria”.
Cordialmente Antonio Nappi*
*Assistente Sociale, Nucleo Operativo Tossicodipendenze, Prefettura di Bari Docente a contratto, Università di Bari, Corso dl Laurea in Scienze del Servizio Sociale
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