L'Unità
Se la realtà supera l’immaginazione
di Marco Travaglio
23 gennaio 2008
Nella scena finale de "Il Caimano", Nanni Moretti nei panni di Berlusconi esce dal Tribunale che l’ha condannato fra il tripudio della folla che lancia molotov contro i giudici e dà alle fiamme il tribunale. A due anni dall’uscita del film, quella profezia si sta avverando. Con una variazione sul tema: il protagonista della jacquerie non è più soltanto Berlusconi. È un’intera classe dirigente, anzi digerente, stretta intorno ora a Mastella e signora, ora a Cuffaro, ora a Contrada, prossimamente a Dell’Utri.
Nemmeno la fertile fantasia di Moretti poteva immaginare la scena della detenuta lady Mastella che arriva in tribunale per l’interrogatorio a bordo dell’auto blu con tanto di scorta (che, di passaggio, investe un cameraman), saluta e bacia la folla festante dei fans che lanciano petali di rosa manco fosse Evita Peròn, mentre il marito l’aspetta a casa dando del "farabutto", "macchietta da rinchiudere in un istituto" al procuratore di S. Maria Capua Vetere, e mentre l’Udeur concute il governo per strappare una mozione di fiducia alla famiglia Mastella.
Il fatto poi che, nello stesso giorno, il Csm unanime sanzioni con censura e trasferimento il pm Luigi De Magistris, colpevole di aver scoperchiato un’immonda ruberia trasversale in Calabria e una fogna di toghe sporche in Lucania, diventa un messaggio vagamente mafioso a tutti i magistrati: se vi capita tra le mani uno scandalo che coinvolga politici, peggio ancora se di destra e di sinistra insieme, voltatevi dall’altra parte. Oppure fatevi furbi e trovate una scappatoia agli imputati eccellenti, salvando le apparenze.
Fate come la magistratura pre-1992 che - come scrive Giuseppe Di Lello, già membro del pool di Falcone e Borsellino - mostrava "grande scaltrezza nel riconoscere in teoria la pericolosità della mafia per le sue connessioni col potere politico ed economico e, al momento di passare alle prassi giudiziarie, nel perseguire costantemente l’ala militare dell’alleanza,tenendo fuori dal campo d’azione l’altro corno del problema". Insomma imparate da quelli che Alfredo Morvillo, procuratore aggiunto a Palermo e cognato di Falcone, chiama i "professionisti delle carte a posto". La sentenza Cuffaro è esemplare: 5 anni per favoreggiamento di alcuni mafiosi, ma non per favoreggiamento della mafia.
Così tutti cantano vittoria: i pm per il bicchiere mezzo pieno (la condanna), l’imputato per il bicchiere mezzo vuoto (niente aggravante mafiosa). Visto quel che ha combinato e quel che gli poteva capitare, ha ragione Totò. La pena, senza l’aggravante mafiosa, rientra nell’indulto e scende da 5 anni a 2: niente carcere, nemmeno se diventasse definitiva. Ma non lo diventerà, perché il reato si prescrive entro un paio d’anni, prima che si concluda il processo d’appello. Il Tribunale ha sparato un colpo a salve e il fuciletto a tappo gliel’ha fornito la Procura quattro anni fa, quando Piero Grasso e i fedelissimi Pignatone, De Lucia e Prestipino fecero archiviare il reato più grave, il concorso esterno in associazione mafiosa, lasciando le briciole: due episodi di favoreggiamento e rivelazione di segreti. Il pm che aveva avviato l’inchiesta, Gaetano Paci si oppose, sostenuto da un bel numero di sostituti e aggiunti.
Ma finì in minoranza e fu estromesso dalle indagini. Così come il pm Nino Di Matteo, l’anno scorso. Sostenevano, i "dissidenti" dalla linea morbida, che dimostrare il favoreggiamento mafioso è difficile: molto più logico che il governatore abbia fatto avvertire il boss Guttadauro delle cimici in casa sua per evitare che parlasse di lui e dei suoi fedelissimi, anziché per favorire l’intera Cosa Nostra.
Molto più facile dimostrare che Cuffaro è da 17 anni al servizio della mafia, visti i racconti di numerosi pentiti a cominciare da Siino, a cui Totò chiese i voti nel ‘91 per entrare in Regione. Il Tribunale ha confermato che avevano ragione i dissidenti. E ora persino Grasso dichiara al Corriere: per il favoreggiamento mafioso occorreva "una prova diabolica, complicata da trovare". Bella scoperta: Paci, Di Matteo, Scarpinato, Lo Forte, Morvillo, Ingroia e altri pm da lui emarginati lo dicono inascoltati dal 2004.
Grasso ribatte che, col concorso esterno, sarebbe andata anche peggio. Ma manca la controprova. Anzi, c’è la prova del contrario: fior di sentenze di giudici di Palermo riconoscono la colpevolezza di personaggi più potenti di Cuffaro (da Andreotti a Contrada, da Mannino a Dell’Utri) per concorso esterno. Non per favoreggiamento mafioso. E concorso esterno, quando ci sono le prove, funziona. O forse è proprio questo il problema?
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