Giustizia/Carcere : braccialetto elettronico, "flop" da 11 mln € l’anno
di Marco Ludovico
Il Sole 24 Ore, 4 settembre 2008
Braccialetti d’oro, quelli elettronici. Nel senso che allo Stato costano carissimi: i 400 utilizzati - finora con scarso successo - hanno gravato sulle casse dello Stato per 11 milioni di euro l’anno, fin dal 2003, con un contratto stipulato con la Telecom che scade nel 2011.
Peccato che dal 2005 l’utilizzo di questi dispositivi è stato interrotto. Nessuno ci crede, insomma. Anche ora che il Guardasigilli Angiolino Alfano, d’intesa con il Ministro dell’Interno Roberto Maroni, rilancia il progetto per ridurre l’inarrestabile aumento della popolazione carceraria.
La storia del braccialetto in Italia, del resto, è una sequenza di bocciature e fallimenti che risale a sette anni fa, quando fu istituito con la legge n° 4 del 2001. È bastato un anno e mezzo e già sono partite le richieste di sospensione: si è capito subito che la spesa non valeva l’impresa. Non si abbassava in modo significativo la presenza dei detenuti in galera, non si conteneva l’impiego delle forze dell’ordine, né si convincevano i magistrati, scettici i più sull’uso di questo strumento.
Il Viminale ha tentato diverse volte, in questi anni, di coinvolgere il Dap, dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del dicastero della Giustizia e, di conseguenza, la polizia penitenziaria. Fino a pochi mesi fa, però, il risultato è stato negativo.
L’anno scorso, peraltro, c’è stato un certo movimento di ripresa rispetto a un progetto fermo ormai su un binario morto. Il Viminale ha rimesso sul tavolo il tema del trasferimento al Dap della gestione del sistema e il dipartimento dell’amministrazione carceraria ha dato la sua disponibilità a dialogare con il ministero dell’Interno. Il problema principale, tuttavia, rimane sempre lo stesso: il costo elevato. Si segnala, tra l’altro, che degli 11 milioni di oneri annuali oltre sei riguardino le sole spese di gestione.
La sperimentazione tecnologica, peraltro, non ha offerto risultati entusiasmanti. Anzi. Il braccialetto può essere rilevato da una centralina posta nell’arco di 100-200 metri; quest’ultima - messa magari in casa del detenuto agli arresti domiciliari - è a sua volta collegata con il nucleo delle forze dell’ordine presente in una struttura della Polizia di Stato o dell’Arma dei Carabinieri. Le competenze sono delle questure e dei comandi provinciali dell’Arma.
Un agente deve controllare se il detenuto esce o no dall’arco dei 200 metri, cioè del campo d’azione del braccialetto. Il problema però sorge quando lo strumento non dà segnali: se, per esempio, l’interessato va nella cantina della sua abitazione. Il rischio è di finire nel ridicolo se scatta una caccia all’uomo senza motivo.
Prima ancora dell’input di Maroni e Alfano, in realtà proprio nel marzo di quest’anno si sono svolte una serie di riunioni al Viminale e con il Dap: quest’ultimo era disponibile a farsi gradualmente carico del progetto. Ma lo scetticismo regna sovrano. Anche ora che, sulla carta, occorre dare un’accelerazione.
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