L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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mercoledì 22 febbraio 2012

Più pene alternative, meno carcerazione… e costruire nuovi istituti non serve

di Antonella Loi -Tiscali Notizie, 22 febbraio 2012

Alessandro Gallelli aveva 22 anni. Era detenuto in una cella del carcere di San Vittore, a Milano, piccoli reati, in attesa di giudizio. La sua vita si è interrotta nella notte tra sabato e domenica scorsa: si è tolto la vita impiccandosi con una felpa annodata alle sbarre della cella.
“Doveva uscire tra 20 giorni per andare in comunità - sono le parole del fratello Vincenzo - perché si sarebbe dovuto uccidere?”.

I familiari non si danno pace, ma il medico legale che ha eseguito l’autopsia conferma l’ipotesi del suicidio. La storia di Alessandro è quella di tanti altri detenuti - il più delle volte molto giovani - che al carcere non son riusciti a sopravvivere. Si chiamano Michele, Antonio, Aurel: hanno una media di 37,8 anni di età e molti di loro attendevano ancora di avere un processo.
La macabra conta dei morti dietro le sbarre corre veloce: delle 24 vittime dall’inizio dell’anno ben dieci si sono tolte la vita mentre altrettante sono morte in circostanze ancora da chiarire. Ma è il 2011 a darci la misura della drammaticità del fenomeno: 186 morti in totale, di cui 66 suicidi.
Per impiccagione soprattutto: è fin troppo semplice servirsi di un lenzuolo o di un qualsiasi altro indumento, un jeans o una maglia. Secondo i rapporti ufficiali i suicidi avvengono anche per avvelenamento, soffocamento o inalazione del gas dalla bomboletta usata per cucinare i pasti. Carceri esentate non ce ne sono: da Torino a Poggioreale (Napoli), all’Ucciardone di Palermo passando per Sassari e Cagliari le strutture hanno il loro bel da fare per prevenire morti troppo spesso “inevitabili”.
Perché in un Paese dove il tasso di affollamento supera il 164 per cento - che significa 20mila detenuti in eccesso - la morte per suicidio è una voce passiva messa a bilancio. E non riguarda solo i detenuti, ma anche chi sta dall’altra parte: negli ultimi dodici anni, secondo i dati del Sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe), sono 100 gli agenti che si sono tolti la vita, a cui si aggiunge un direttore di istituto e un dirigente regionale.
“È un disastro e la situazione peggiora”, ci spiega Ornella Favero, direttrice di Ristretti Orizzonti, il periodico scritto interamente da detenuti che da 15 anni informa sulle condizioni di vita carceraria. “Il caso del ragazzo morto a San Vittore alla sua prima carcerazione deve far pensare: significa che non si è stati in grado di intercettare il suo disagio psichico”.
Il 22enne, accusato di molestie sessuali e di altri reati minori, forse in carcere non ci sarebbe mai dovuto entrare. “È una categoria di persone sempre più presente nei penitenziari: le carceri sono diventate delle discariche sociali per persone che creano problemi - spiega Favero - invece di dare loro gli strumenti per riabilitarsi e reinserirsi vengono parcheggiate nelle celle”.
E questo è tanto più drammatico se avviene in un contesto di sovraffollamento dove le “persone sono costrette a dormire in letti a castello di quattro piani e celle dove si può stare in piedi solo uno alla volta”, aggiunge, a fronte di un organico destinato all’assistenza psicologica e all’educazione ridotto al minimo. “In Italia c’è un educatore ogni 150 detenuti e ogni psicologo può dedicare a ciascun paziente solo 10 minuti all’anno”.
Una situazione ormai incancrenita che sopravvive grazie ai paradossi. “Il primo è che gli agenti penitenziari si trovano nelle condizioni di fare da educatori, psicologi e cappellani”, ci spiega Donato Capece, segretario generale del Sappe. “Noi siamo sotto organico di almeno 7mila unità rispetto a quanto stabilito nel 2001: come può un agente da solo controllare circa 100 detenuti? Infatti facciamo i miracoli - dice -, tutti i giorni sediamo aggressioni, tentativi di suicidio, ribellioni contro lo Stato e contro le guardie”. E l’estrema negativa conseguenza è che “tutto questo stress noi poliziotti ce lo portiamo dietro per tutta la giornata, in famiglia, nelle case, nella nostra vita”.
Le soluzioni vanno trovate con urgenza. “Cominciamo ad assumere più personale invece di costruire nuove carceri e magari ammoderniamo quelle già esistenti che in molti casi sono fatiscenti e apriamo gli 8 padiglioni realizzati durante l’epoca Mastella ancora chiusi. I soldi per fare tutto questo ci sono - dice - stanziati dalla legge 199: non serve costruire nuove carceri”. Ma soprattutto - Capece ne è sicuro - “va riformato il sistema sanzionatorio, che significa meno carcere e più territorio”.
Con il decreto “svuota-carceri” si va nella direzione giusta? “Non chiamiamolo svuota-carceri perché l’unica cosa certa è che le celle saranno ancora piene”. Bisognerebbe concentrarsi piuttosto sui reati di lieve entità, spiega Capece, “vanno tenuti sul territorio attraverso misure alternative alla detenzione, quali lavori di pubblica utilità, semidetenzione domiciliare, applicazione del braccialetto elettronico e così via. Si renda più operativo il fatidico Uepe, l’Ufficio esecuzioni penali esterne”. Perché all’interno delle strutture, per il sindacato della polizia penitenziaria, non ci dovrebbero stare più di 40-50mila detenuti, cioè coloro che, condannati a pene definitive, creano allarme sociale. “Purché la pena non sia semplicemente punitiva, ma descriva un percorso riabilitativo che non sottragga la dignità delle persone”.
Dello stesso parere è la direttrice di Ristretti Orizzonti per la quale la carcerazione domiciliare per gli ultimi 18 mesi di reclusione e la possibilità di far uscire tremila detenuti dalle celle - così stabilisce il decreto varato dal ministro della Giustizia Severino - è già un inizio. In soldoni servono pene alternative e percorsi di reinserimento sociale, che significa sostanzialmente un percorso lavorativo. “La pena più terribile per chi sta in carcere è il non avere nulla da fare: è pericoloso e dannoso perché queste situazioni di degrado annullano la dignità delle persone e si arriva al paradosso che chi esce dal carcere è peggiorato rispetto a quando ci è entrato”, dice Favero.
E poi la popolazione carceraria sta cambiando. “Guardo dentro la mia redazione e vedo sempre meno persone con una scelta di vita criminale e sempre più uomini e donne che vengono da una vita regolare: la droga porta in cella tanti ragazzi. Pensiamo poi a chi ha compiuto reati in famiglia, un medico, un dirigente di banca. Famiglie dove c’è incapacità di risolvere i conflitti”. Gente “normale” insomma che le sbarre non le ha mai messe in conto. “E questo - conclude - ci deve far riflettere sul fatto che il carcere non riguarda solo i criminali ma tutti noi. Ecco perché bisogna parlarne”.