L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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lunedì 13 febbraio 2012

IL SOVRAFFOLLAMENTO PENITENZIARIO- Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del PD

Forum Giustizia del Partito Democratico- Gruppo PD Camera dei Deputati -Seminario di studio
Camera dei Deputati - Sala del Mappamondo - 10 febbraio 2012
IL SOVRAFFOLLAMENTO PENITENZIARIO
Riforme di sistema e soluzioni urgenti - Il carcere come extrema ratio
Relazione introduttiva di Sandro Favi, Responsabile nazionale carceri del PD


Il nostro seminario di studio non toccherà tutte le problematiche che attengono al carcere, che comunque vanno affrontate e sulle quali c’è fin da ora l’impegno a promuovere altri momenti tematici come quello odierno.
Il sistema penitenziario italiano, pur riformato più volte negli ultimi decenni nell’ordinamento, nell’organizzazione e nelle normative professionali del personale, si è trovato ciclicamente superato da fenomeni criminali e sociali che non era capace di interpretare, se non con cronici ritardi che si sono scaricati sui propri assetti e sulle proprie strutture, configurandosi ogni volta nelle forme dell’emergenza.
Il sovraffollamento delle carceri non si iscrive solo nel lungo capitolo del deficit infrastrutturale
del nostro Paese o della mancata modernizzazione del sistema giustizia e della sicurezza; oppure dei ritardi cronici della politica ad interpretare le trasformazioni sociali che impattano nella dimensione del processo e della esecuzione penale.
Il sovraffollamento penitenziario ci interroga in modo pressante sul rispetto dei valori fondanti del Patto costituente della nostra convivenza civile: sulla tutela dei diritti inviolabili dell’uomo e sui doveri di solidarietà a cui è richiamata la nostra organizzazione sociale, economica e politica; sulla pari dignità e sulla eguaglianza delle persone davanti alla legge; sul senso di umanità che deve presiedere alla esecuzione delle pene; sulla efficace protezione della salute di ogni individuo; sull’impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della persona e sulle effettive opportunità di partecipazione o reintegrazione alla vita sociale; sull’obbligo di motivazione dei provvedimenti restrittivi della
libertà personale e sui principi del giusto processo.
Per questo il Partito Democratico ha voluto affermare, senza retorica e senza incertezze, che il suo programma fondamentale per la giustizia si chiama Costituzione.
E’ il programma di un riformismo forte e rigoroso, impegnato a comprendere la realtà concreta che si manifesta nelle nostre comunità; un riformismo determinato a costruire solide architetture di sistema, come pure a proporre soluzioni al passo con le trasformazioni dei nostri tempi, con i fenomeni sociali e con i problemi che denunciano la possibile degenerazione delle strutture che reggono le nostre istituzioni, facendone perdere la coerenza e l’armonia col disegno voluto dai Costituenti.
Non ci sfugge che non sia un’impresa politica facile quella di riformare il carcere, a fronte dell’insicurezza individuale e collettiva. Ciclicamente ricerche e sondaggi ci dicono che la sicurezza è una delle prime preoccupazioni dei cittadini. Una società è sicura se è solidale: sei i più poveri, i più deboli, gli ultimi non vengono lasciati soli a se stessi o in preda alla criminalità organizzata e se si creano nuove occasioni di lavoro e di impegno. Una società solidale è la condizione che i cittadini si sentano a casa loro anche in strada e nei luoghi di lavoro. E la società è solidale se è sicura: se l’usura, lo spaccio della droga, lo sfruttamento della prostituzione, il racket vengono repressi; se nei quartieri delle nostre città c’è la Polizia e se la giustizia funziona.
Comunque, finché il carcere sarà comunemente inteso come una discarica sociale del sistema istituzionale, come un luogo in cui possano accadere e si possano tollerare violenze ed illegalità, nell’errata convinzione le illegalità “dentro” siano funzionali a garantire la legalità e la pace “fuori”, il carcere rimarrà dimenticato ed estraneo alla vita civile. In Italia il dibattito si polarizza continuamente tra estrema repressione ed indistinta indulgenza. Si promuovono leggi che rincorrono una presunta deterrenza con l’aumento delle pene detentive; si configurano nuove fattispecie di reato e poi le conseguenze di queste scelte politiche, fanno risorgere l’eterno rimedio di amnistie ed indulti. Ma finché prevarrà questo modo di legiferare, le distorsioni del sistema inevitabilmente, si avviteranno su se stesse. Perciò a noi non interessa né l’indulgenza né il rigore: ci interessa una pena civile in un sistema giudiziario giusto ed efficiente.
Per questo, immaginare che il carcere possa essere extrema ratio - sia nelle forme della cautela giudiziaria e della tutela della sicurezza dei cittadini, sia come modalità di esecuzione delle pene - non si colloca in un orizzonte utopico e senza prospettiva politica; ma è l’impegno di un riformismo ambizioso, capace di attingere alla coscienza civile ed alla piena consapevolezza dei cittadini, ai quali chiedere un consenso maturo, offrendo certezza, sicurezza ed efficienza del servizio giustizia.
E’ con questa convinzione ed è in questo quadro che il Partito Democratico ha elaborato le proprie proposte per fronteggiare l’esplosione del sovraffollamento penitenziario, nel fecondo confronto con il mondo dell’associazionismo impegnato in questo settore, con il volontariato come con l’avvocatura e la magistratura, con il sindacato e con le diverse rappresentanze degli operatori, con sensibilità e disponibilità all’ascolto della voce sofferente che giunge da chi vive questa condizione e, per riflesso, dei loro familiari.
Si tratta di una serie di proposte, che in larga parte sono confluite attraverso i nostri gruppi parlamentari in progetti e disegni di legge, in risoluzioni e mozioni discusse e votate dal Parlamento ed infine negli emendamenti al recente decreto-legge presentato dal Ministro Severino, che ci predisponiamo a riproporre nel contesto dell’ulteriore disegno di legge-delega, approvato dal Consiglio dei Ministri di fine dicembre in materia di depenalizzazione; sospensione del procedimento per gli irreperibili; della messa alla prova; delle pene detentive non carcerarie.
Il decreto-legge che tra breve verrà approvato definitivamente dal Parlamento, ha l’indubbio merito di avere spostato l’asse giuridico e culturale che vede come ineluttabile l’ingresso in carcere delle persone che siano imputate di un reato di presunto allarme sociale. E la conferma di avere invertito veramente la rotta si avrà solo se seguiranno ulteriori coerenti misure, che evitino la risposta carceraria come unica opzione per una sicurezza efficace ed una giustizia efficiente.
1. La prima proposta riguarda la revisione delle misure cautelari e pre-cautelari in carcere, che va oltre al perverso meccanismo delle cosiddette “porte-girevoli” su cui è intervenuto il decreto-legge n. 211 dello scorso dicembre; ma, come ha rilevato il Presidente della Cassazione nella recente inaugurazione dell’anno giudiziario, per guardare alla necessità di rivedere e ridurre l’elenco dei reati per i quali è imposta la custodia in carcere.
Obbligo che ha fondamento, come affermato dalla Corte Costituzionale, per le associazioni di stampo mafioso (per le loro intrinseche capacità di condizionamento e modus operandi criminale), ma che dovrebbe anche essere considerata responsabilmente come forma di cautela processuale necessaria per contrastare la piaga dei reati di violenza sessuale contro le donne, in cui la vittima è spesso destinataria di ricatti, minacce e pressioni da parte dei suoi carnefici, se non da un inaccettabile residuo di sottoculture presenti nella società che ancora indulgono a giustificare i comportamenti predatori, a sminuire la gravità della violenza sulla donna o a considerare la stessa libertà sessuale della donna un’ipocrita attenuante anche nelle ipotesi più abiette di sopraffazione.
In generale, tuttavia, si tratta di assumere davvero il criterio dell’extrema ratio della custodia in carcere alla luce delle reiterate sentenze della Corte costituzionale che hanno dichiarato l’illegittimità delle norme che impongono la misura restrittiva della libertà personale per specifiche fattispecie di reato, senza consentirne la graduazione attraverso misure cautelari meno restrittive, ma pure idonee a preservare le esigenze processuali e di sicurezza sociale.
A ben vedere, si tratta di disinnescare quella perniciosa tendenza che attraversa certa parte di opinione pubblica, come certa pubblicistica, che traspone le cautele a garanzia del successivo giudizio, in una domanda di anticipata esecuzione della condanna, della quale si fa interprete un certo populismo politico nostrano; pronto a reclamare, poi, i garantismi più capziosi per i poteri protetti, invocando al contrario che nessuno - dei propri pari – debba andare in carcere senza una condanna definitiva.
Guardando, con sana laicità, agli strumenti rispetto ai problemi, bisogna puntare alla prontezza del giudizio e, quindi, alla efficienza della giustizia per conseguire, contestualmente, maggiore sicurezza ed economicità della machina giudiziaria; piuttosto che inseguire le facili suggestioni emotive di un’opinione pubblica pervasa da allarmi securitari, diffusi a gran voce come strumenti di lotta politica e, nello stesso tempo, disorientata dalle denuncie della crisi e dai tempi lunghi del servizio giustizia.
2. La riforma strutturale principe auspicata dal Pd sta nel superamento del cosiddetto pan-penalismo che affatica quel sistema giustizia e che, con i suoi ritardi ed inefficienze, determina ricadute su un carcere-contenitore di persone poste in una attesa ingiustificata e spesso ingiusta, a cui segue - spesso a lunga distanza temporale - uno stillicidio di esecuzioni in carcere per periodi brevi.
Esecuzioni di pena che non hanno più una effettiva valenza retributiva e di rieducazione, quando ricadono su condannati cambiati rispetto alle persone su cui è stato formulato il giudizio e che sovente hanno già superato la fase deviante della loro esperienza di vita, ma per le quali non c’è tempo di applicare sanzioni diverse dal carcere. Sebbene l’attuale Governo non possa mettere nel proprio orizzonte una riforma organica dei codici che pure attende da troppi anni e sulla quale esiste una amplissima e precisa elaborazione, si può comunque pensare a depenalizzare i reati minori, all’introduzione dell’istituto del non luogo a procedere per irrilevanza penale del fatto o la tenuità dell’offesa; a prevedere sanzioni differenziate in ragione della gravità del reato secondo i principi di sussidiarietà, offensività e responsabilità.
Questi sono alcuni esempi di interventi possibili che il PD ha presentato al Senato e alla Camera, sui quali si può verificare l’esistenza di un ampio consenso. Pochi giorni fa lo stesso Presidente della Cassazione Ernesto Lupo ha invocato come prospettiva realistica che ci affianchi alle legislazioni più evolute, che realizzano più sicurezza pur con minor ricorso al carcere.
3. L’aggravio del trattamento sanzionatorio e del regime penitenziario per i condannati recidivi è stato individuato come la maggiore causa dell’iperbolico aumento dei detenuti e quindi dell’attuale condizione di sovraffollamento delle carceri. Ma al di là dell’evidenza empirica raccontata dagli operatori della giustizia e verificata dagli studi che smentiscono il reclamato effetto di deterrenza sul rischio di reiterazione dei reati da parte dei pluri-condannati, la legge ex-Cirielli segna l’inconcludenza e l’inefficacia delle politiche della paura perseguite negli ultimi anni, che hanno invece innescato una torsione delle politiche della sicurezza nelle nostre città, orientandole contro i soggetti che popolano il degrado e le marginalità metropolitane. E’ saggio e opportuno ristabilire l’equilibrio e restituire al giudice di merito la determinazione delle pene per le responsabilità accertate ed in relazione alla diagnosi fondata su obiettivi elementi circa la pericolosità del condannato recidivo, evitando apodittiche etichettature e presunzioni di rischio criminale. Così come è intelligente ed utile restituire le opportunità di accesso ai benefici penitenziari ed alle misure alternative, sulla base dell’evoluzione della persona e di una prognosi di responsabile reinserimento nella società.
4. Il rilancio delle misure alternative al carcere per l’esecuzione delle pene è ritenuto non solo una leva per alleggerire le generali condizioni di sovraffollamento, ma soprattutto un potenziale agente per restituire speranza ai condannati e quindi far scendere conseguentemente le tensioni della detenzione. Occorre, tuttavia, rendere praticabili tali percorsi supportandoli di risorse professionali e materiali che accompagnino il reinserimento, soprattutto per l’amplia platea di persone condannate che non dispongono di appoggi socio-familiari ed opportunità di lavoro. In questa direzione il Pd ha avanzato proposte per nuove tipologie di misure alternative, professionalmente strutturate e orientate, quale il Patto di reinserimento sociale, che non vuole fornire solo una risposta al drammatico sovraffollamento attraverso un riequilibrio delle pene eseguite in stato di detenzione e quelle in esecuzione penale esterna, ma propone un nuovo approccio al tema del reinserimento sociale delle persone sottoposte a sanzione penale, che siano prive dell’aiuto socio-familiare, di opportunità di accesso al lavoro ovvero di una efficace supporto legale per l’ammissione alle misure alternative già previste dall’ordinamento penitenziario, che sono tarate per condannati a pene detentive brevi, in particolari situazioni socio familiari (per età o per le detenute madri) ovvero in condizioni di salute che richiedono cure e percorsi di riabilitazione (tossicodipendenti o affetti da malattie particolarmente gravi). Inoltre, riteniamo indifferibile il potenziamento degli incentivi per l’offerta di lavoro ai detenuti in carcere o in misura alternativa già previsti dalla legge Smuraglia, con la proposta sostenuta dai nostri parlamentari che approda ora all’esame dell’Aula di Montecitorio.
Certamente, questo non basta a riequilibrare la dimensione con gli analoghi istituti di esecuzione penale esterna previsti nei Paesi europei nostri omologhi. Ma riteniamo che l’inversione di una tendenza che fino a ieri ha penalizzato le opportunità di accesso alle misure alternative alla detenzione, possa riaprire il ragionamento ed il terreno di un confronto per fare delle attuali esperienze del trattamento penitenziario in ambito esterno al carcere, sanzioni penali principali erogabili dal giudice di cognizione.
A questo proposito è necessario potenziare le strutture ed i servizi territoriali degli Uffici dell’esecuzione penale esterna, invertendo le politiche degli ultimi anni che ne hanno depotenziato la funzione, svilito le ricchezze professionali maturate sul campo, mortificato il ruolo e gli investimenti in un settore di importanza strategica per le prospettive del sistema penitenziario.
5. Su questo stesso piano, che richiede di attivare più efficaci opportunità di recupero e di riabilitazione della persona, si muove la proposta di revisione delle norme sul trattamento penale dei tossicodipendenti autori di reato; valorizzando quelle esperienze che prevedono l’intervento dei servizi territoriali del Servizio sanitario nazionale fin dal momento in cui il tossicodipendente compare davanti al giudice e possa, quindi, coadiuvarlo ad individuare progetti o strutture terapeutiche, che evitino la peggiore delle soluzioni, quale è il carcere. Occorre perciò modificare la legge Fini-Giovanardi, laddove pone eccessivi limiti e condizioni ai percorsi terapeutici alternativi alla detenzione. Condizioni e limiti che obiettivamente confliggono con le storie dolorose delle più ostinate dipendenze da sostanze, frutto della disputa ideologica sulle terapie di riduzione del danno. Vanno messe in opera, invece, interventi e risorse per sfruttare meglio le opportunità alternative che la stessa normativa si proponeva di estendere, laddove ampliava i limiti di pena per l’accesso ai benefici e così, di fatto, riconoscendo nel carcere il danno maggiore a qualsiasi chance di recupero.
6. Anche per i condannati stranieri è necessario superare il trattamento discriminatorio in campo penale e penitenziario che, di fatto, ha pervaso la legislazione degli ultimi anni. Dopo la dichiarazione di illegittimità della previsione dell’aggravante per i reati commessi dai detenuti stranieri, che ha già significativamente contribuito ad attenuare il sovraffollamento carcerario, occorre recuperare la migliore tradizione giuridica del nostro Paese, seguendo quanto affermato dalla Corte di Cassazione in diverse occasioni e cioè che deve essere negata la possibilità di introdurre discriminazioni tra cittadini (e stranieri muniti di permesso di soggiorno) e stranieri in condizione di clandestinità, per la decisiva ragione che le relative disposizioni di legge sono dettate a tutela della dignità della persona umana, in sé considerata e protetta indipendentemente dalla circostanza della liceità o meno della permanenza nel territorio italiano” e, “che non esiste incompatibilità tra espulsione da eseguire a pena espiata e misura alternativa volta a favorire il reinserimento del condannato nella società, posto che non è possibile distinguere tra società italiana e società estera” e “che la risocializzazione non può assumere connotati nazionalistici, ma va rapportata alla collaborazione fra gli Stati nel settore della giurisdizione”.
7. Per quanto attiene all’istituto della sospensione del procedimento con la messa alla prova dell’imputato crediamo che potrà risultare particolarmente efficace nei confronti dei più giovani adulti autori di reato, ancora primari nell’esperienza dell’illegalità, soprattutto per la sua consolidata sperimentazione nel settore minorile e ci auguriamo, quindi, che possa essere esaminata e approvata celermente dal Parlamento. Si darebbe, così, continuità ed omogeneità alla azione di contrasto ai fenomeni di cosiddetto bullismo, della micro-violenza urbana o da stadio che si producono nell’area minorile contigua, prevenendo la loro evoluzione verso manifestazioni criminali più pericolose o l’attrazione in circuiti di illegalità di maggior allarme sociale, che può generarsi nella condizione di disagio giovanile in questi tempi di crisi economica.
8. Per poter efficacemente agire su queste misure deflative e, ancor più, per far fronte alle sofferenze ed ai problemi del sovraffollamento delle strutture penitenziarie, abbiamo indicato la necessità di aumentare il personale per le professioni di cura alla persona (quali educatori, assistenti sociali, psicologi) e di adeguare gli organici della Polizia penitenziaria. E per questo sollecitiamo il Governo a presentare il piano di assunzioni necessarie a risolvere i problemi del disagio lavorativo che proviene dalla maggior parte delle strutture sul territorio.
Le risorse delle professioni penitenziarie sono essenziali, per ricostruire la giusta tensione del sistema verso i propri obiettivi di fondo, soprattutto allorquando queste professioni sviluppano capacità nel lavoro di rete, sia con i servizi e le istituzioni del territorio, orientato alla presa in carico dei bisogni di cura e di assistenza delle persone, sia con i presidi della prevenzione e della sicurezza, affinché si recidano col carcere i poteri ed i collegamenti con le organizzazioni criminali più pericolose e pervasive.
Ma a queste professionalità dobbiamo riconoscere soprattutto dignità, identità definita e motivazioni per l’esercizio dei loro difficili compiti; a partire dal superamento dell’assurdo blocco al contratto della dirigenza penitenziaria e da un efficace riallineamento ordinamentale ed operativo della Polizia penitenziaria, per giungere alla valorizzazione delle migliori, qualificate competenze e conoscenze dei diversi profili professionali (assistenti sociali, educatori, psicologi, operatori amministrativi e tecnici), con il tangibile riconoscimento del particolare impegno richiesto e con la protezione dal rischio di stress eccessivo nelle più difficili ed esposte condizioni di lavoro.
9. Poniamo la questione della revisione delle misure di sicurezza, divenute pressoché indistinguibili dalla pena carceraria, lascito di un codice penale di epoca fascista, e di classificazioni di pericolosità sociale ormai superate. Oggi le Case Lavoro o le Colonie Agricole non offrono concretamente quel lavoro utile a proporre un cambiamento degli stili di vita e a contrastare la tendenza a delinquere. Gli internati per misura di sicurezza concorrono al sovraffollamento e spesso sono associati in sezioni di carcere, prolungando così solo una pena restrittiva, con scarse opportunità rieducative e risocializzanti e con minime possibilità di accedere a misure da eseguire nella società libera.
Il progetto di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari sta, invece, finalmente per concretizzarsi ed è il paradigma di quel riformismo coraggioso e tenace, di una intelligenza politica e di un impegno capace di tracciare percorsi, individuare risorse, coinvolgere responsabilità ampie e condivise, di orientare le sinergie necessarie e quindi di trovare credibilità e consenso ampio e trasversale fra i diversi schieramenti politici. Certamente è una riforma che auspichiamo possa arricchirsi nel suo sviluppo sul campo; spostando progressivamente l’attenzione e l’impegno dei presidi sanitari territoriali sui progetti terapeutici individuali per i malati psichiatrici che siano stati autori di reato, piuttosto che sulla mera gestione delle strutture di contenimento, dove inizialmente dovranno essere allocati gli internati per l’esecuzione della misura di sicurezza irrogata, ma che sempre più dovranno diventare centri di riferimento di un’ampia rete di servizi che supportano la riabilitazione dei malati psichiatrici sul territorio.
Questo è il riformismo al quale ci vogliamo ispirare.
Proposte che assumono i valori fondanti della civiltà e dello stato di diritto, per guardare alla prospettiva di sistema, ma che tengono al centro le persone: la loro dignità, i loro diritti, i vincoli di solidarietà, per generare impegno, opportunità concrete, sicurezza e fiducia nel futuro.
Il riformismo costruito sullo stato di eccezione e dell’emergenza, spesso riproduce, solo amplificandole, le forme e le condizioni dell’esistente, rende croniche le distorsioni e rinuncia all’ambizione di immaginare e perseguire il cambiamento.
Questo è stato il limite del fantomatico “Piano carceri” sbandierato continuamente quale unico modello da seguire per risolvere i problemi: progettare solo un sistema carcere sempre uguale a se stesso. Anzi peggiore: senza le persone, senza la speranza che la loro vita alienata possa cambiare, senza l’impegno convinto di chi vi opera, senza la solidarietà delle comunità e senza la partecipazione delle altre istituzioni ed i servizi del territorio. Insomma, il carcere come ratio assoluta ed immodificabile, che riproduce ed alimenta la domanda incontrollata di segregazione.
In questo segno sta la nostra richiesta di superare ogni resistenza e difficoltà per l’istituzione del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e per l’introduzione nel nostro ordinamento del delitto di tortura previsto come obbligo giuridico internazionale dalla Convenzione delle Nazioni Unite.
C’è anche un riformismo più debole, quando non è capace di coinvolgere tutti gli attori impegnati, la responsabilità dei soggetti istituzionali, che non trova le forme concretedell’agire il cambiamento, non si cala, con sano e laico pragmatismo, nei problemi veri delle persone. Penso alla travagliata vicenda del trasferimento della sanità penitenziaria al Servizio sanitario nazionale. Il Partito Democratico è impegnato, in Parlamento come nelle Amministrazioni sul territorio, a riattivare un circolo virtuoso per l’attuazione di quella riforma, ridandole energia e riaprendo quel confronto fra tutti, che anche magari solo in parte è mancato, ma che ha determinato inaccettabili ritardi ed evidenti cadute sui livelli indispensabili di prestazioni per la tutela della salute delle persone detenute ed internate.
E’ con questo spirito che il Partito Democratico offre alla discussione le proprie proposte attorno al tema del sovraffollamento penitenziario, aperto ai contributi come alle riflessioni critiche di questo seminario, così prestigiosamente qualificato.