L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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venerdì 30 novembre 2007

DIRITTO E GIUSTIZIA

Giustizia: certezza della pena e diritti umani
di Alberto Marcheselli (Magistrato di Sorveglianza)
Certezza della pena e diritti umani: il miraggio pericoloso delle riforme a "costo zero".
Ciclicamente, in occasione di ogni campagna elettorale o di qualche fatto di cronaca eclatante, si torna a parlare di sicurezza dei cittadini, efficacia della giustizia, disumanità della vita nelle carceri. Problemi che sono abitualmente affrontati con un approccio in cui tendono a prevalere atteggiamenti emotivi, più ancora che fattori ideologici. Resta latitante, almeno nel dibattito pubblico, qualsivoglia traccia di analisi dei dati obiettivi.

Certezza e flessibilità della pena


Sono del tutto ignorate le interrelazioni dei vari fenomeni, né è compresa la loro rilevanza sulla qualità della vita quotidiana dei cittadini e i pesanti costi sociali correlati.
L’opinione pubblica è informata delle questioni e delle riforme concernenti la giustizia nella dimensione del processo penale, ma un cono d’ombra sembra avvolgere il mondo della esecuzione della pena.
Si tratta di una realtà tutt’altro che di nicchia: non solo coinvolge mediamente gli oltre 70 mila condannati (valore medio di persone in esecuzione di pena in Italia al lordo e a monte dei provvedimenti di indulto), ma anche le migliaia di persone vittime di reati. Più in generale, la percezione del rischio criminale determina atteggiamenti e comportamenti concreti di tutti noi (dall’acquisto di porte blindate al non circolare in certi quartieri la sera): non è difficile immaginare l’entità dei costi sociali connessi al fenomeno della microcriminalità, anche se sarebbe arduo misurarli esattamente.
Eppure, quando si parla di efficacia della giustizia e di lotta alla criminalità, non si sfugge dalla contrapposizione, che ha sapore di slogan, tra certezza e flessibilità della pena. Sostanzialmente, la certezza della pena (meglio, la sua rigidità) garantirebbe la sicurezza dei cittadini, ma porrebbe a rischio l’umanità della sua esecuzione, mentre la sua flessibilità si tradurrebbe in una forma di impunità criminogena, pur essendo meglio compatibile con una attuazione umanitaria e costituzionalmente orientata della sanzione.

Verifiche e investimenti

Ma una simile impostazione regge a una verifica operata con criteri scientifici, almeno in senso lato? La efficienza del sistema è, evidentemente, correlata alla sua idoneità allo scopo, che per la sanzione penale è evitare la recidiva del condannato e la istigazione a delinquere per i terzi. È per questo che si dovrebbe preferire parlare, come già fatto in queste colonne, di pena adeguata, uscendo dal loop ossessivo di pena certa - pena flessibile.
Un discorso serio e obiettivo sulla materia, comunque, non dovrebbe quindi prescindere da criteri di misurazione di tali fattori. Nonostante le apparenze, non è una rilevazione difficile.
Si tratta di assumere come base di elaborazione il numero di persone che hanno completato una pena espiata in forma alternativa alla detenzione (pena flessibile) in un periodo dato, verificare se e quante di queste persone ricadano nel delitto durante o dopo la misura. Il dato va confrontato con quello ottenuto da un campione di persone che nello stesso periodo abbiano espiato una pena solo carceraria (pena rigida). Il confronto tra i due dati mostra quale sia il risultato dei due sistemi, al di là di ogni preconcetto ideologico.
È stupefacente come un approccio del genere sia per lungo tempo mancato nella cultura giuridica e politica italiana (per un interessante lavoro in tale direzione si veda Tucci R., Santoro E., Rapporto conclusivo Progetto Misura sulla recidiva, Firenze, 2004). E come, peraltro, alla effettuazione di tali primi tentativi di misurazione non sempre si accompagnino considerazioni sicuramente fondate sul piano scientifico.
Tale appare ad esempio la diffusa affermazione secondo la quale, ammesso che il tasso di recidiva successivo alla misura alternativa sarebbe minore di quello che risulta dopo la carcerazione, se ne dovrebbe desumere non un giudizio di buon andamento del sistema delle misure alternative (che ne è la conseguenza logica e dovrebbe essere la base di partenza di una dialettica ragionevole) ma la conclusione che le misure alternative dovrebbero trovare una generalizzata applicazione e una applicazione in via automatica.
Questo, ad esempio, è stato affermato in occasione di riflessioni sulla riforma del codice penale, laddove si tende ad affermare che il ricorso alla misura alternativa andrebbe direttamente previsto nella legge incriminatrice. Questa conclusione appare frutto di un cattivo sillogismo sotto almeno due profili. Il primo, già sottolineato in altro intervento su queste colonne, laddove collega la sanzione al solo fatto e non alla personalità del colpevole: anche ad ammettere, ad esempio, che una misura alternativa sia adeguata alla commissione del primo delitto di ricettazione, la stessa valutazione regge per chi commetta la trentesima ricettazione della sua vita? E, inversamente, ammesso che una rapina sia, di norma, un fatto grave, è proprio sicuro che tutti i rapinatori meritino il carcere?
Il secondo errore si annida laddove si trae un rafforzamento alla soluzione dell’automatismo delle misure alternative dal fatto che la recidiva dopo di esse sarebbe minore che dopo la carcerazione. Ebbene, ammesso il dato - obiettivo - della minor recidiva dopo le misure alternative, quanto dipende dalla maggiore efficacia in sé delle misure alternative e quanto dal fatto che alla misura alternativa sono ammesse le persone che sono valutate più meritevoli, quindi risocializzabili e quindi meno propense alla recidiva? Le misure alternative sono, insomma, oggettivamente più idonee o, più semplicemente, sono applicate ai soggetti che sono più facilmente risocializzabili?
Desumere dalla minore recidiva dopo le misure alternative che esse dovrebbero essere applicate a tutti contiene un errore logico: si confronta la recidiva di persone diverse, non solo dopo misure diverse.
E contiene una altrettanto grossolana trascuratezza circa il fatto che, tra la inflizione della pena e la sua concreta applicazione o trasformazione si trova la Magistratura di Sorveglianza, che stabilisce il tipo di pena applicabile in concreto.
Parlare di automatismo delle misure alternative equivale insomma, per usare una metafora, a dire che dato che dopo l’introduzione dei semafori gli incidenti agli incroci stradali sono statisticamente diminuiti, ormai si possono... eliminare i semafori.
In tale quadro di generale confusione concettuale, le cui responsabilità appaiono principalmente imputabili alla scarsissima cultura penitenziaria diffusa, non stupisce che, nel giro di tre anni, si succedano strumenti scoordinati e di segno sostanzialmente opposto come il cosiddetto indultino del 2003, la legge ex Cirielli del 2005 e l’indulto nel 2006: il primo volto a un automatico svuotamento degli istituti penitenziari senza alcun serio intervento di supporto, sostegno e controllo delle persone scarcerate, la seconda pensata per escludere l’espiazione della pena fuori dal carcere per i soggetti recidivi nel delitto, la terza ispirata nuovamente alla finalità di alleviare la gravità della situazione penitenziaria e la tensione sul principio del rispetto dei diritti umani, determinata dalla condizione di obiettivo degrado e sovraffollamento delle strutture. Su tali interventi normativi, poi, non solo è mancata, spesso, una adeguata analisi progettuale preliminare, ma, anche e soprattutto, il necessario follow up nella attuazione concreta.
Continua infatti a sfuggire, se non nella cerchia degli operatori del settore, che la scelta verso una pena flessibile richiede investimenti cospicui in termini di strutture di supporto, sostegno e controllo. Mentre la scelta opposta comporta o condizioni di vita disumane all’interno degli istituti penitenziari o la necessità di onerosissimi interventi sulla edilizia penitenziaria e in genere sui mezzi personali e materiali.
Per rendersene conto, basta riflettere sul fatto che, dati ufficiali alla mano, prima dell’indulto erano 37mila le persone che espiavano la pena fuori dal carcere: un numero elevatissimo e esattamente pari a quello di chi scontava la condanna in carcere. (Dati ufficiali ministero della Giustizia I semestre 2005). 37mila vicende criminali che necessitano di supporto e controlli (e quindi, investimenti), e alle quali si può ragionevolmente ricollegare una grossa parte del disagio personale e sociale di grandi aree del paese.
D’altra parte, la pena rigida, in parte attuata dal legislatore della legge ex Cirielli, andrebbe adottata solo una volta constatata l’inadeguatezza dell’altra, che al momento non risulta affatto, anzi. E in ogni caso questa scelta imporrebbe di reperire strutture penitenziarie adeguate. Ipotizzando l’esecuzione penitenziaria per solo la metà delle persone che scontavano la pena all’esterno, si dovrebbero trovare 18.500 posti in carcere. Si tratterebbe dunque di progettare la costruzione di trentasette nuovi istituti di medio - grandi dimensioni (da 500 posti), per un costo verosimile di svariate centinaia di milioni di euro. Ciò per tacere dei mezzi finanziari necessari al reperimento del personale da destinare a tali istituti e di quelli necessari all’adeguamento delle strutture esistenti a standard di umanità.
Si tratta di somme incomparabilmente superiori a quelle necessarie al potenziamento dei supporti al sistema delle misure alternative e, probabilmente e altrettanto significativamente, non più produttive di risultati in termini di sicurezza sociale.
Continuare a procedere in modo episodico e scoordinato, dal punto di vista concettuale, e senza adeguati investimenti, sul piano materiale, comporta, di fatto, scegliere tra la seguente alternativa: tra il rischio di un carcere disumano che calpesta i più elementari diritti delle persone, da un lato, o una pena esterna al carcere senza che ai condannati siano garantiti supporti e controlli idonei, dall’altro.
Non si tratta dunque di riforme a costo zero, come normalmente si dice, per giustificarne più o meno esplicitamente la adozione, ma di riforme a costo occulto, un costo enorme, traslato nel primo caso sulle persone detenute, conculcate nella loro sfera individuale e umana più sacra, ovvero sulle vittime dei reati, che spesso sono, come i detenuti, i soggetti socialmente più deboli. Un quadro non confortante per un paese civile nel terzo millennio.