L'Unità
La cronaca di una paura immaginaria...
di Andrea Boraschi e Luigi Manconi (Associazione A Buon Diritto)
3 gennaio 2008
Alcuni quotidiani, nelle loro pagine online, hanno chiesto ai lettori di indicare la parola che più di altre descrive o riassume il senso dell’anno che sta per finire. Ed ecco saltar fuori il "bamboccioni" di Padoa Schioppa, la "casta" di Stella e Rizzo; e poi "mutui", "clima", "Rom", "carovita" e altre ancora. Tentati dal giochino, con fini però poco ludici, crediamo che una parola che ben descrive i primi anni di questo millennio, nelle democrazie occidentali, possa essere "insicurezza".
Un termine questo che per molti aspetti include la maggior parte delle indicazioni venute dai frequentatori di quei siti; che per altri, ben più complessi, rimanda a questioni esistenziali e antropologiche; e che, sopra ogni cosa, spiega, e al contempo reclama interpretazione, di questo tempo fatto di ansie, minacce percepite, incertezze sull’oggi e sul domani. L’insicurezza, come cifra emotiva di interpretazione della vita e della realtà, evidentemente, è sempre esistita: ha a che fare con la nostra condizione di finitezza.
Oggi, su quella condizione, si addensano paure motivate e inconsistenti, si accumula un capitale personale e sociale di stress, così che la precarietà della condizione umana finisce per essere percepita più come minaccia immanente e forse imminente - proveniente dall’esterno - che come dato naturale. Facile, d’altronde, se i fattori ansiogeni, di minaccia (presunta o effettiva), naturali non sono.
Una recente ricerca, "Indagine sul sentimento e sul significato di sicurezza in Italia", realizzata dalla Demos e curata da Ilvo Diamanti, sottolinea una serie di dati interessanti: di come le nostre paure vengano sempre più frequentemente proiettate su fattori al di fuori della portata di controllo e intervento dell’individuo. E di come, parallelamente, si sia spaventati tanto da dinamiche globali quanto da minacce a noi potenzialmente molto prossime. Emerge che la distruzione dell’ambiente rappresenta l’angoscia maggiore per quasi il 60% degli italiani; e risulta come la paura per il futuro dei propri figli (46% degli intervistati) e la paura di attentati terroristici (quasi il 40%) siano poi gli altri principali fattori di insicurezza.
A seguire, la paura della povertà e della malattia; e preoccupazioni, variegate per frequenza nelle diverse fasce anagrafiche e nei distinti gruppi sociali, come poter un giorno percepire una pensione. E la paura della criminalità? Non è scomparsa, anzi. Crescono la paura di furti, rapine, borseggi; nove persone su dieci pensano che la criminalità in Italia sia aumentata (ma solo cinque su dieci che ciò sia avvenuto anche a livello locale, nel loro luogo di vita).
Insomma; cresce la percezione di paura, nel suo complesso, e si nutre di preoccupazione per i cambiamenti globali in corso (maggiormente sentiti nell’elettorato di centrosinistra) e per fattori di ordine economico e riguardanti l’incolumità fisica (questi ultimi più presenti nell’elettorato di centrodestra). La ricerca in questione mette in luce alcuni comportamenti e orientamenti che sembrano direttamente correlati a tali percezioni. Ecco dunque che il 44% degli italiani ha già blindato porte e finestre della propria abitazione, e che un altro 10% conta di farlo presto; ecco che un italiano su tre difende la propria casa con sistemi di allarme (anche qui, un restante 14% vorrebbe installarne uno prossimamente); l’8% degli intervistati, poi, dichiara di possedere un’arma e un altro 4% vorrebbe acquistarla.
E molti, più in generale, chiedono un maggior controllo delle città e del territorio: l’89% degli intervistati sarebbe d’accordo ad "aumentare la presenza della polizia nelle strade e nei quartieri"; l’86% è favorevole "all’aumento di sorveglianza degli spazi pubblici attraverso telecamere", che emergono come lo strumento di controllo più apprezzato.
E sale la paura dello straniero: il 47% degli italiani (è il dato più alto registrato in tal senso negli ultimi 10 anni) vede negli immigrati una minaccia; il 55% guarda con favore alle ordinanze dei sindaci contro lavavetri e venditori abusivi; un italiano su quattro ritiene che i campi rom vadano "sgomberati e basta" (ovvero, evacuati senza bisogno di misure ulteriori di collocamento delle persone sfollate). Siamo un Paese spaventato, dunque.
Impegnativo, e tuttavia necessario, comprendere il perché. Certo esistono fattori concreti e tangibili, dalla precarietà nel mondo del lavoro al peggioramento della qualità ambientale, dal caro prezzi alla disoccupazione. Ma ci sono anche altre spiegazioni, che hanno a che fare con un intreccio perverso di informazione tutta giocata sui registri del noir (per così dire) e sull’azione, irruenta e costante, di una politica che fa della paura collettiva una risorsa elettorale, proprio come il mercato dei beni di consumo ne fa una risorsa economica. Comprensibile, ad esempio, che il pensiero del terrorismo spaventi.
Più difficile credere che questa paura sia giustificata in un paese in cui l’eversione nazionale è poca cosa; e in cui il terrorismo internazionale non ha mai colpito. Perché gli italiani non temono le morti sul luogo di lavoro o le morti da incidenti stradali, assai più prossime, possibili e ingenti, di qualsivoglia attentato?
Cosa sta cambiando in un paese che si dice disposto persino a essere spiato, ripreso costantemente da telecamere in ogni dove, pur di sentirsi al sicuro? E perché si continua a vedere nella criminalità una marea montante e una minaccia sempre più diffusa? Basterebbe analizzare i dati presentati dall’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza per comprendere che in Italia certi allarmi sono ingiustificati (ancorché, certamente, il numero dei reati registrati annualmente meriti di essere abbattuto).
Basterebbe pensare a come si vadano divaricando i dati relativi ai reati commessi e la percezione collettiva dei fattori di rischio che vengono dal crimine per imporre una discussione non superficiale sui dati di questa e di altre ricerche. Nel 2006, ad esempio, gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro Paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in Paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne hanno in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio.
L’elenco potrebbe continuare, lungo e forse sorprendente. Pure, il dato centrale è che dai primi anni 90 ad oggi va aumentando la percentuale di italiani che si sentono quotidianamente minacciati da una pluralità di fattori di allarme. Alcuni reali, altri remoti, taluni quasi immaginari. Un buona politica e una buona cultura sono quelle che riescono a ridurre al minimo almeno quest’ultima categoria.
di Andrea Boraschi e Luigi Manconi (Associazione A Buon Diritto)
3 gennaio 2008
Alcuni quotidiani, nelle loro pagine online, hanno chiesto ai lettori di indicare la parola che più di altre descrive o riassume il senso dell’anno che sta per finire. Ed ecco saltar fuori il "bamboccioni" di Padoa Schioppa, la "casta" di Stella e Rizzo; e poi "mutui", "clima", "Rom", "carovita" e altre ancora. Tentati dal giochino, con fini però poco ludici, crediamo che una parola che ben descrive i primi anni di questo millennio, nelle democrazie occidentali, possa essere "insicurezza".
Un termine questo che per molti aspetti include la maggior parte delle indicazioni venute dai frequentatori di quei siti; che per altri, ben più complessi, rimanda a questioni esistenziali e antropologiche; e che, sopra ogni cosa, spiega, e al contempo reclama interpretazione, di questo tempo fatto di ansie, minacce percepite, incertezze sull’oggi e sul domani. L’insicurezza, come cifra emotiva di interpretazione della vita e della realtà, evidentemente, è sempre esistita: ha a che fare con la nostra condizione di finitezza.
Oggi, su quella condizione, si addensano paure motivate e inconsistenti, si accumula un capitale personale e sociale di stress, così che la precarietà della condizione umana finisce per essere percepita più come minaccia immanente e forse imminente - proveniente dall’esterno - che come dato naturale. Facile, d’altronde, se i fattori ansiogeni, di minaccia (presunta o effettiva), naturali non sono.
Una recente ricerca, "Indagine sul sentimento e sul significato di sicurezza in Italia", realizzata dalla Demos e curata da Ilvo Diamanti, sottolinea una serie di dati interessanti: di come le nostre paure vengano sempre più frequentemente proiettate su fattori al di fuori della portata di controllo e intervento dell’individuo. E di come, parallelamente, si sia spaventati tanto da dinamiche globali quanto da minacce a noi potenzialmente molto prossime. Emerge che la distruzione dell’ambiente rappresenta l’angoscia maggiore per quasi il 60% degli italiani; e risulta come la paura per il futuro dei propri figli (46% degli intervistati) e la paura di attentati terroristici (quasi il 40%) siano poi gli altri principali fattori di insicurezza.
A seguire, la paura della povertà e della malattia; e preoccupazioni, variegate per frequenza nelle diverse fasce anagrafiche e nei distinti gruppi sociali, come poter un giorno percepire una pensione. E la paura della criminalità? Non è scomparsa, anzi. Crescono la paura di furti, rapine, borseggi; nove persone su dieci pensano che la criminalità in Italia sia aumentata (ma solo cinque su dieci che ciò sia avvenuto anche a livello locale, nel loro luogo di vita).
Insomma; cresce la percezione di paura, nel suo complesso, e si nutre di preoccupazione per i cambiamenti globali in corso (maggiormente sentiti nell’elettorato di centrosinistra) e per fattori di ordine economico e riguardanti l’incolumità fisica (questi ultimi più presenti nell’elettorato di centrodestra). La ricerca in questione mette in luce alcuni comportamenti e orientamenti che sembrano direttamente correlati a tali percezioni. Ecco dunque che il 44% degli italiani ha già blindato porte e finestre della propria abitazione, e che un altro 10% conta di farlo presto; ecco che un italiano su tre difende la propria casa con sistemi di allarme (anche qui, un restante 14% vorrebbe installarne uno prossimamente); l’8% degli intervistati, poi, dichiara di possedere un’arma e un altro 4% vorrebbe acquistarla.
E molti, più in generale, chiedono un maggior controllo delle città e del territorio: l’89% degli intervistati sarebbe d’accordo ad "aumentare la presenza della polizia nelle strade e nei quartieri"; l’86% è favorevole "all’aumento di sorveglianza degli spazi pubblici attraverso telecamere", che emergono come lo strumento di controllo più apprezzato.
E sale la paura dello straniero: il 47% degli italiani (è il dato più alto registrato in tal senso negli ultimi 10 anni) vede negli immigrati una minaccia; il 55% guarda con favore alle ordinanze dei sindaci contro lavavetri e venditori abusivi; un italiano su quattro ritiene che i campi rom vadano "sgomberati e basta" (ovvero, evacuati senza bisogno di misure ulteriori di collocamento delle persone sfollate). Siamo un Paese spaventato, dunque.
Impegnativo, e tuttavia necessario, comprendere il perché. Certo esistono fattori concreti e tangibili, dalla precarietà nel mondo del lavoro al peggioramento della qualità ambientale, dal caro prezzi alla disoccupazione. Ma ci sono anche altre spiegazioni, che hanno a che fare con un intreccio perverso di informazione tutta giocata sui registri del noir (per così dire) e sull’azione, irruenta e costante, di una politica che fa della paura collettiva una risorsa elettorale, proprio come il mercato dei beni di consumo ne fa una risorsa economica. Comprensibile, ad esempio, che il pensiero del terrorismo spaventi.
Più difficile credere che questa paura sia giustificata in un paese in cui l’eversione nazionale è poca cosa; e in cui il terrorismo internazionale non ha mai colpito. Perché gli italiani non temono le morti sul luogo di lavoro o le morti da incidenti stradali, assai più prossime, possibili e ingenti, di qualsivoglia attentato?
Cosa sta cambiando in un paese che si dice disposto persino a essere spiato, ripreso costantemente da telecamere in ogni dove, pur di sentirsi al sicuro? E perché si continua a vedere nella criminalità una marea montante e una minaccia sempre più diffusa? Basterebbe analizzare i dati presentati dall’ultimo rapporto del Viminale sulla sicurezza per comprendere che in Italia certi allarmi sono ingiustificati (ancorché, certamente, il numero dei reati registrati annualmente meriti di essere abbattuto).
Basterebbe pensare a come si vadano divaricando i dati relativi ai reati commessi e la percezione collettiva dei fattori di rischio che vengono dal crimine per imporre una discussione non superficiale sui dati di questa e di altre ricerche. Nel 2006, ad esempio, gli omicidi commessi nel paese sono stati 621, mentre nel 1991 erano 1901; il tasso di omicidi nel nostro Paese, oggi, è sensibilmente più basso di quello registrato in Paesi come la Finlandia o l’Olanda; parimenti, in Italia si rubano meno veicoli a motore di quanti se ne rubino in Francia, Danimarca Svezia e Inghilterra; si registrano meno furti in appartamento di quanti se ne hanno in Svizzera, Danimarca, Francia, Belgio.
L’elenco potrebbe continuare, lungo e forse sorprendente. Pure, il dato centrale è che dai primi anni 90 ad oggi va aumentando la percentuale di italiani che si sentono quotidianamente minacciati da una pluralità di fattori di allarme. Alcuni reali, altri remoti, taluni quasi immaginari. Un buona politica e una buona cultura sono quelle che riescono a ridurre al minimo almeno quest’ultima categoria.
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