Giustizia- Manconi: clima sereno, per fare riforme condivise
Il Riformista, 14 aprile 2008
Luigi Manconi è stato Sottosegretario alla Giustizia del Governo Prodi II. A lui chiediamo di misurare lo stato di salute del sistema-giustizia italiano, valutare quanto di buono può essere valorizzato e quanto di nuovo deve essere messo in campo.
Nel parlare di giustizia in Italia sembra d’obbligo prendere le mosse dalla travagliata riforma dell’ordinamento giudiziario: secondo lei questo settore cruciale dell’organizzazione giudiziaria richiede ulteriori interventi riformatori?
Intanto partirei proprio dalla riforma approvata nel luglio 2007. Si è trattato di un grosso sforzo da parte del governo e del Parlamento per introdurre i necessari correttivi sia al vecchio sistema, sia alla riforma approvata nel 2005 e, successivamente, sospesa. La legge è intervenuta in una serie di snodi essenziali rispondendo positivamente, a mio avviso, alle esigenze di modernizzazione dell’organizzazione giudiziaria.
Nel rispetto del dettato costituzionale, che sancisce il principio dell’indipendenza della magistratura e l’esclusiva soggezione del giudice alla legge, si è cercato di realizzare un sistema in cui la progressione in carriera dei magistrati, nonché l’attribuzione degli incarichi direttivi, possano basarsi su una stringente e periodica attività di valutazione che tenga in debito conto sia la preparazione teorica, sia la concreta esperienza professionale acquisita. Ciò allo scopo di valorizzare il merito e l’impegno di ogni singolo magistrato. Inoltre, per quanto riguarda l’accesso alle carriere, non solo è stato superato il sistema di reclutamento che risaliva al 1946, ma si è proceduto alla creazione di una Scuola superiore della magistratura in linea con le esigenze di formazione iniziale e permanente comuni a tutti i paesi europei. Per tornare alla domanda, quindi, il problema non è quello di ulteriori interventi riformatori - anche se correttivi, come in tutte le cose umane, potranno essere necessari ma piuttosto la concreta realizzazione della riforma, in un clima politico generale in cui tale materia è ancora terreno di un scontro che spesso impedisce una serena valutazione dei problemi esistenti e delle risposte possibili.
In particolare, è ancora decisiva la tematica della separazione delle carriere tra magistratura giudicante ed inquirente?
La riforma ha teso a preservare l’unicità della carriera dei magistrati, ma ha introdotto una rigorosa ed equilibrata distinzione delle funzioni che si basa sulla formazione, su un giudizio di idoneità specifica e su precisi limiti di incompatibilità. La distinzione di funzioni tra giudice e pubblico ministero, nella conservazione del principio d’unità della magistratura, costituisce un deciso rafforzamento del principio di terzietà del giudice. Se possibile, sarebbe utile fermarci qui, senza riprendere una contesa ideologica sulla separazione delle carriere che rischia solo di far passare in secondo piano le esigenze concrete della giustizia.
Per l’opinione comune "amministrazione della giustizia" equivale ad "inefficienza": quali concrete e praticabili riforme possono dare in tempi brevi maggiore efficienza alla macchina giudiziaria?
Mi collego a quanto detto in precedenza a proposito della riforma dell’ordinamento giudiziario e sulla necessità di un quadro più ampio di riforme strutturali. La prematura conclusione della legislatura ha impedito, ad esempio, che giungessero a compimento alcune iniziative del governo in tema di riduzione dei tempi dei processi e di recupero di efficienza del sistema nel suo complesso.
Mi riferisco ai Ddl sull’accelerazione del processo civile e penale, la cui approvazione in Parlamento avrebbe consentito importanti innovazioni in grado di assicurare un migliore e più rapido funzionamento della giustizia. Ma faccio riferimento anche a progetti di modifica legislativa molto più ambiziosi quanto necessari e che, a questo punto, dovremo aspettare ancora molto tempo per veder realizzati, come la riforma del codice penale avviata dalla commissione Pisapia e quella del codice di procedura penale ad opera della commissione Riccio. In particolare, la mancata riforma del codice penale costituisce un chiaro esempio di quali difficoltà esistano nel riformare profondamente il sistema della giustizia proprio a partire dai suoi cardini.
Non vi è dubbio, infatti, che un diritto penale minimo, equo ed efficace che individui una gerarchia di beni fondamentali da proteggere e per i quali irrogare, in via esclusiva, la sanzione del carcere, possa contribuire a allentare l’enorme pressione sul sistema penale e penitenziario, offrendo al contempo maggiore sicurezza alla collettività e la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita.
Si ha l’impressione che per affrontare in modo adeguato i problemi della giustizia sia necessario scegliere con coraggio tra esigenze spesso contrastanti (ad es. certezza della pena o istituti che potremmo genericamente chiamare "clemenziali"): è un’impressione giusta? Quali sono le esigenze alle quali è necessario dare oggi la preminenza per una reale riforma della giustizia?
Vorrei sviluppare il ragionamento sulla necessità di riforma del codice penale. In questi anni si è assistito ad una crescita progressiva dell’incidenza delle norme di diritto penale che ha dato luogo a una vera e propria ipertrofia del sistema. Bisogna ricordare che le politiche penali sono molto costose e, perché abbiano una reale efficacia, vanno riservate solo ai comportamenti socialmente pericolosi. Invece, si è proceduto nella direzione opposta, tanto è vero che, oggi, la popolazione penitenziaria è composta da una larga quota di detenzione sociale, immigrati e tossicodipendenti, per i quali la permanenza in carcere, spesso per periodi brevissimi e intermittenti, è destinata ad aggravare il problema piuttosto che a risolverlo.
La scarsità di politiche pubbliche e sociali, in particolare, non può essere colmata attraverso l’irrogazione ad ampio spettro di sanzioni penali.
Ciò è dannoso e non produttivo sul piano della stessa sicurezza. Faccio un esempio: i migliori risultati in termini di prevenzione della recidiva li abbiamo ottenuti proprio da coloro che hanno potuto usufruire di misure alternative alla detenzione. Non è una questione di "buonismo", quanto di valutare attentamente la radice dei problemi fornendo la soluzione migliore. L’ossessione della penalità e del carcere produce risultati fallimentari, basti pensare alla legge Bossi - Fini sull’immigrazione o alla Fini - Giovanardi sulle tossicodipendenze.
La crisi dell’amministrazione della giustizia in Italia non sembra però solo crisi di efficienza: non le sembra che alla base di essa vi sia anche la perdita dell’evidenza di un senso di giustizia condiviso dal corpo sociale e che questo spieghi le scelte spesso così contraddittorie o di parte dei giudici?
Non c’è dubbio che i problemi della giustizia possano e debbano essere anche ricollegati ai problemi più generali della società e delle sue trasformazioni. A me pare che il corpo sociale sia caratterizzato da sempre più profondi processi di individualizzazione, che portano ad una perdita progressiva dei valori di solidarietà sociale. Anche se, contemporaneamente, si registra, ormai da molti anni, il moltiplicarsi di iniziative e di forme associative spontanee che fanno del volontariato la loro ragion d’essere. Anzi, spesso in mancanza di forme di intervento da parte dello Stato, sono proprio esse a sostituirsi, o meglio a colmare lacune profonde. Si pensi, ad esempio, al tema dell’accoglienza e dell’inclusione degli immigrati. Si tratta di sostenere tali risorse stabilendo forme di regolazione e fornendo risorse. La mancanza di un senso di giustizia condiviso è forse collegato proprio a quelle tensioni sociali che devono trovare un terreno di risoluzione diverso da quello giudiziario. E qui torno a ribadire quanto già detto. Non si deve caricare il sistema della giustizia di responsabilità eccessive oltre quelle che può effettivamente assumersi. In caso contrario rischiamo il collasso del sistema.
Cosa le suggerisce il richiamo di Benedetto XVI, nel discorso preparato per la visita all’Università della Sapienza di Roma, alla necessità della riscoperta della sensibilità per la verità?
Non da giurista, che non sono, ma da sociologo dico che il discorso di Benedetto XVI pone alcune questioni fondamentali; questioni che richiamano tutti, credenti e non, a una riflessione profonda. In primo luogo, l’affermazione che il diritto è il presupposto della libertà e non il suo antagonista e che, quindi, il problema risiede nell’individuazione di quei criteri di giustizia che si traducono in ordinamenti in grado di garantire la libertà, la dignità umana e i diritti della persona. In secondo luogo trovo importante, ai fini del nostro discorso, le riflessioni circa la continua tensione tra sensibilità per la verità e sensibilità per gli interessi. I secondi quasi sempre hanno la meglio sui primi. Ma, come dice Benedetto XVI - richiamando un pensatore laico come Jurgen Habermas - i responsabili della formazione della volontà politica devono modellare le loro prassi su processi argomentativi sensibili alla verità, ovvero orientati al bene della collettività e non a quello di gruppi particolaristici.
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Luigi Manconi è stato Sottosegretario alla Giustizia del Governo Prodi II. A lui chiediamo di misurare lo stato di salute del sistema-giustizia italiano, valutare quanto di buono può essere valorizzato e quanto di nuovo deve essere messo in campo.
Nel parlare di giustizia in Italia sembra d’obbligo prendere le mosse dalla travagliata riforma dell’ordinamento giudiziario: secondo lei questo settore cruciale dell’organizzazione giudiziaria richiede ulteriori interventi riformatori?
Intanto partirei proprio dalla riforma approvata nel luglio 2007. Si è trattato di un grosso sforzo da parte del governo e del Parlamento per introdurre i necessari correttivi sia al vecchio sistema, sia alla riforma approvata nel 2005 e, successivamente, sospesa. La legge è intervenuta in una serie di snodi essenziali rispondendo positivamente, a mio avviso, alle esigenze di modernizzazione dell’organizzazione giudiziaria.
Nel rispetto del dettato costituzionale, che sancisce il principio dell’indipendenza della magistratura e l’esclusiva soggezione del giudice alla legge, si è cercato di realizzare un sistema in cui la progressione in carriera dei magistrati, nonché l’attribuzione degli incarichi direttivi, possano basarsi su una stringente e periodica attività di valutazione che tenga in debito conto sia la preparazione teorica, sia la concreta esperienza professionale acquisita. Ciò allo scopo di valorizzare il merito e l’impegno di ogni singolo magistrato. Inoltre, per quanto riguarda l’accesso alle carriere, non solo è stato superato il sistema di reclutamento che risaliva al 1946, ma si è proceduto alla creazione di una Scuola superiore della magistratura in linea con le esigenze di formazione iniziale e permanente comuni a tutti i paesi europei. Per tornare alla domanda, quindi, il problema non è quello di ulteriori interventi riformatori - anche se correttivi, come in tutte le cose umane, potranno essere necessari ma piuttosto la concreta realizzazione della riforma, in un clima politico generale in cui tale materia è ancora terreno di un scontro che spesso impedisce una serena valutazione dei problemi esistenti e delle risposte possibili.
In particolare, è ancora decisiva la tematica della separazione delle carriere tra magistratura giudicante ed inquirente?
La riforma ha teso a preservare l’unicità della carriera dei magistrati, ma ha introdotto una rigorosa ed equilibrata distinzione delle funzioni che si basa sulla formazione, su un giudizio di idoneità specifica e su precisi limiti di incompatibilità. La distinzione di funzioni tra giudice e pubblico ministero, nella conservazione del principio d’unità della magistratura, costituisce un deciso rafforzamento del principio di terzietà del giudice. Se possibile, sarebbe utile fermarci qui, senza riprendere una contesa ideologica sulla separazione delle carriere che rischia solo di far passare in secondo piano le esigenze concrete della giustizia.
Per l’opinione comune "amministrazione della giustizia" equivale ad "inefficienza": quali concrete e praticabili riforme possono dare in tempi brevi maggiore efficienza alla macchina giudiziaria?
Mi collego a quanto detto in precedenza a proposito della riforma dell’ordinamento giudiziario e sulla necessità di un quadro più ampio di riforme strutturali. La prematura conclusione della legislatura ha impedito, ad esempio, che giungessero a compimento alcune iniziative del governo in tema di riduzione dei tempi dei processi e di recupero di efficienza del sistema nel suo complesso.
Mi riferisco ai Ddl sull’accelerazione del processo civile e penale, la cui approvazione in Parlamento avrebbe consentito importanti innovazioni in grado di assicurare un migliore e più rapido funzionamento della giustizia. Ma faccio riferimento anche a progetti di modifica legislativa molto più ambiziosi quanto necessari e che, a questo punto, dovremo aspettare ancora molto tempo per veder realizzati, come la riforma del codice penale avviata dalla commissione Pisapia e quella del codice di procedura penale ad opera della commissione Riccio. In particolare, la mancata riforma del codice penale costituisce un chiaro esempio di quali difficoltà esistano nel riformare profondamente il sistema della giustizia proprio a partire dai suoi cardini.
Non vi è dubbio, infatti, che un diritto penale minimo, equo ed efficace che individui una gerarchia di beni fondamentali da proteggere e per i quali irrogare, in via esclusiva, la sanzione del carcere, possa contribuire a allentare l’enorme pressione sul sistema penale e penitenziario, offrendo al contempo maggiore sicurezza alla collettività e la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita.
Si ha l’impressione che per affrontare in modo adeguato i problemi della giustizia sia necessario scegliere con coraggio tra esigenze spesso contrastanti (ad es. certezza della pena o istituti che potremmo genericamente chiamare "clemenziali"): è un’impressione giusta? Quali sono le esigenze alle quali è necessario dare oggi la preminenza per una reale riforma della giustizia?
Vorrei sviluppare il ragionamento sulla necessità di riforma del codice penale. In questi anni si è assistito ad una crescita progressiva dell’incidenza delle norme di diritto penale che ha dato luogo a una vera e propria ipertrofia del sistema. Bisogna ricordare che le politiche penali sono molto costose e, perché abbiano una reale efficacia, vanno riservate solo ai comportamenti socialmente pericolosi. Invece, si è proceduto nella direzione opposta, tanto è vero che, oggi, la popolazione penitenziaria è composta da una larga quota di detenzione sociale, immigrati e tossicodipendenti, per i quali la permanenza in carcere, spesso per periodi brevissimi e intermittenti, è destinata ad aggravare il problema piuttosto che a risolverlo.
La scarsità di politiche pubbliche e sociali, in particolare, non può essere colmata attraverso l’irrogazione ad ampio spettro di sanzioni penali.
Ciò è dannoso e non produttivo sul piano della stessa sicurezza. Faccio un esempio: i migliori risultati in termini di prevenzione della recidiva li abbiamo ottenuti proprio da coloro che hanno potuto usufruire di misure alternative alla detenzione. Non è una questione di "buonismo", quanto di valutare attentamente la radice dei problemi fornendo la soluzione migliore. L’ossessione della penalità e del carcere produce risultati fallimentari, basti pensare alla legge Bossi - Fini sull’immigrazione o alla Fini - Giovanardi sulle tossicodipendenze.
La crisi dell’amministrazione della giustizia in Italia non sembra però solo crisi di efficienza: non le sembra che alla base di essa vi sia anche la perdita dell’evidenza di un senso di giustizia condiviso dal corpo sociale e che questo spieghi le scelte spesso così contraddittorie o di parte dei giudici?
Non c’è dubbio che i problemi della giustizia possano e debbano essere anche ricollegati ai problemi più generali della società e delle sue trasformazioni. A me pare che il corpo sociale sia caratterizzato da sempre più profondi processi di individualizzazione, che portano ad una perdita progressiva dei valori di solidarietà sociale. Anche se, contemporaneamente, si registra, ormai da molti anni, il moltiplicarsi di iniziative e di forme associative spontanee che fanno del volontariato la loro ragion d’essere. Anzi, spesso in mancanza di forme di intervento da parte dello Stato, sono proprio esse a sostituirsi, o meglio a colmare lacune profonde. Si pensi, ad esempio, al tema dell’accoglienza e dell’inclusione degli immigrati. Si tratta di sostenere tali risorse stabilendo forme di regolazione e fornendo risorse. La mancanza di un senso di giustizia condiviso è forse collegato proprio a quelle tensioni sociali che devono trovare un terreno di risoluzione diverso da quello giudiziario. E qui torno a ribadire quanto già detto. Non si deve caricare il sistema della giustizia di responsabilità eccessive oltre quelle che può effettivamente assumersi. In caso contrario rischiamo il collasso del sistema.
Cosa le suggerisce il richiamo di Benedetto XVI, nel discorso preparato per la visita all’Università della Sapienza di Roma, alla necessità della riscoperta della sensibilità per la verità?
Non da giurista, che non sono, ma da sociologo dico che il discorso di Benedetto XVI pone alcune questioni fondamentali; questioni che richiamano tutti, credenti e non, a una riflessione profonda. In primo luogo, l’affermazione che il diritto è il presupposto della libertà e non il suo antagonista e che, quindi, il problema risiede nell’individuazione di quei criteri di giustizia che si traducono in ordinamenti in grado di garantire la libertà, la dignità umana e i diritti della persona. In secondo luogo trovo importante, ai fini del nostro discorso, le riflessioni circa la continua tensione tra sensibilità per la verità e sensibilità per gli interessi. I secondi quasi sempre hanno la meglio sui primi. Ma, come dice Benedetto XVI - richiamando un pensatore laico come Jurgen Habermas - i responsabili della formazione della volontà politica devono modellare le loro prassi su processi argomentativi sensibili alla verità, ovvero orientati al bene della collettività e non a quello di gruppi particolaristici.
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