Carcere/Giustizia: Presentata in commissione giustizia il DDL sull'abolizione dei benefici penitenziari
Liberazione- Arriva la legge che cancella la Gozzini
“Vogliamo la certezza della pena. Aboliremo la Gozzini”. Prima di salire sullo scranno più alto della camera Gianfranco Fini l’aveva ribadito più volte. Ora che la destra ha in mano le briglie del governo e in parlamento è scomparsa ogni opposizione, il disegno restauratore sembra inarrestabile e si avvia a dare sostanza alla nuova costituzione materiale del Paese prima di portare l’attacco a quella legale. Dopo le leggi speciali per la Campania, il pacchetto sicurezza che prevede la moltiplicazione e la trasformazione dei cpt in carceri-lager, l’aggravante penale per gli immigrati irregolari, gli sgomberi, le schedature, le retate contro i nomadi e l’esercito nelle strade, il giro di vite securitario colpisceanche le carceri.
In Senato è stato depositato il disegno di legge 623, riguardante le “Modifiche alla legge 26 luglio 1975, n. 354, e al codice di procedura penale, in materia di permessi premio e di misure alternative alla detenzione”. Primo firmatario Filippo Berselli, presidente della commissione giustizia del senato con un profilo sicuritario di prim’ordine: già deputato missino poi senatore di An e oggi esponente del Pdl. La proposta di legge prevede la soppressione della liberazione anticipata, cioè lo sconto di pena di 45 giorni per ogni semestre concesso in caso di buona condotta e partecipazione positiva del detenuto al percorso rieducativo. Intenzione che difficilmente troverà l’avvallo della stessa polizia penitenziaria. Chi lavora quotidianamente nei penitenziari sa bene che questo è uno degli istituti che ha maggiormente contribuito a “pacificare” le prigioni, disinnescando rivolte, proteste e confronti violenti. Tra l’altro la riduzione della pena per buona condotta vede l’Italia in posizione di fanalino di coda rispetto agli altri paesi europei dove questa misura può arrivare, con modalità diverse, fino alla metà della pena e non ad appena un quarto come previsto dal testo di legge attualmente in vigore, approvato dal parlamento nel 1986. Le misure messe in cantiere colpiscono duramente gli ergastolani che vedono raddoppiati i tempi per ottenere i permessi: dagli attuali dieci anni di pena espiata ad un minimo di venti, «sul presupposto che dopo venti anni i rischi per la collettività siano ridotti a zero o quasi». Per loro viene anche completamente abolita la possibilità di accedere alla semilibertà, oggi prevista dopo venti anni di reclusione.
Per i detenuti con pene temporanee, invece, l’entrata in semilibertà (lavoro esterno diurno e pernottamento in cella) passa dall’attuale metà a due terzi della pena per i reati meno gravi e dai due terzi ai tre quarti per le categorie ritenute più pericolose. L’affidamento in prova ai servizi sociali non coprirà più gli ultimi tre anni di condanna ma soltanto l’ultimo, e chi è in libertà dovrà obbligatoriamente essere reincarcerato se vorrà ottenere il beneficio.
Il che vuol dire che ne resterà automaticamente escluso visti i tempi di lavoro prolungati che contraddistinguono i tribunali di sorveglianza.
E’ poi prevista una riduzione della metà della detenzione domiciliare speciale che passerà dagli attuali quattro anni a due, mentre, «in considerazione del lieto allungarsi della vita umana» questo beneficio non potrà più essere concesso agli ultra-settantenni ma sarà riservato unicamente agli ultra-settantacinquenni, se riusciranno a sopravvivere in cella. Dopo aver messo fuori Cesare Previti i suoi amici sono tornati a considerare il carcere per le persone anziane un fatto umanamente ammissibile. Le modifiche del codice di procedura riguardano invece l’impossibilità di concordare la pena (art. 444) senza un previo accordo e adeguato risarcimento con la parte offesa. Mentre l’istituto della sospensione della pena (art. 666) viene ridotto da tre ad un anno, per renderlo compatibile con la contemporanea modifica dell’affidamento in prova ai servizi sociali.
Questa è la sostanza delle modifiche previste. Le intenzioni dei promotori sono evidenti: vanificare il contenuto dell’articolo 27 della costituzione che stabilisce il carattere rieducativo della pena. Non si tratta di una riforma mirante a restringere il ricorso ai benefici ma di una brutale abolizione di un istituto legislativo, va detto, già largamente disatteso. Dalla sua prima stesura, infatti, la legge Gozzini (non esente da rilievi per il suo impianto premialistico e la sua “etica redentrice”) ha subito nel tempo continue e ripetute limitazioni. In particolare con l’introduzione di norme (come l’art. 4bis) che ne hanno drasticamente ridotto o vietato l’applicazione a fasce sempre più estese di reati.
Già oggi, contrariamente a quanto viene detto dai promotori della sua abolizione, l’accesso ai benefici avviene con notevole difficoltà ed è pressoché irraggiungibile per i reati più gravi. Alcune di questi, come le infrazioni di natura mafiosa, di terrorismo o rapimento a scopo d’estorsione, possono beneficiare di permessi e semilibertà soltanto in caso di collaborazione con la giustizia, altrimenti restano esclusi. Per l’omicidio o il traffico internazionale di stupefacenti, già dagli anni 90 l’accesso ai permessi è possibile solo dopo aver scontato metà della pena e dai due terzi per la semilibertà. Inoltre, una volta raggiunti i termini minimi di legge per depositare la domanda, non vi è alcun automatismo, ma inizia un lungo e complicato percorso di osservazione penitenziaria, contrassegnato da sistematici rinvii e rigetti che rendono l’approdo ai benefici un vero percorso da “combattente”. I criteri richiesti per l’accesso sono poi estremamente selettivi e richiedono oltre ai requisiti di tipo soggettivo, soggettivo, documentati dall’osservazione penitenziaria interna al carcere, anche requisiti oggettivi come un lavoro, una residenza. Elementi che escludono di fatto gli stranieri che rappresentano ormai oltre un terzo dei reclusi. Insomma l’ossessione sicuritaria che denuncia a tamburo battente il permissivismo carcerario, grazie al sostegno del suo potente apparato mediatico, non dice la verità. Fomenta piuttosto una ideologia di bassa lega che solletica gli istinti più torbidi dell’animo umano.
Alla fine del 2007 il numero dei permessi concessi (dati del Dap) ammontava appena a 7.749, con una percentuale di non rientri o infrazioni largamente inferiore all’1%. Non essendo disaggregato il dato indicato non ci consente di conoscere il numero reale dei detenuti “permessanti”. Ma si può facilmente convenire che poiché ogni permesso deve distanziarsi di almeno quarantacinque giorni dal precedente, i magistrati di sorveglianza possono erogare per ogni detenuto non più di 8 permessi l’anno. In questo modo il numero di quanto ottengono il beneficio si aggira approssimativamente attorno ai mille l’anno, su una popolazione carceraria con titolo di pena definitivo di circa 20 mila persone sulle 51 mila incarcerate al febbraio 2008. (dati Antigone).
Il totale nazionale dei semiliberi è ancora più derisorio: solo 727 alla fine del 2007.
Non sorprende allora se alcuni mesi fa lo stesso direttore del Dap, Ettore Ferrara, sulla base di una relazione che attirava l’attenzione sul bilancio positivo ricavato dai risultati offerti dall’applicazione dei benefici carcerari, soprattutto in termini di riduzione della propensione alla recidiva, sottolineava il comportamento eccessivamente restrittivo dei tribunali di sorveglianza invitandoli ad avere un atteggiamento più coraggioso nella concessione delle misure alternative.
La necessità di recuperare «certezza ed effettività della pena», l’esigenza di arrestare il «ridimensionamento del carattere custodiale del carcere» è dunque un mito nefasto agitato considerevolmente dai fautori della società disciplinare. Quando la cultura illuminista introdusse tra le sue rivendicazioni la “pena certa”, l’obbiettivo era quello di stabilire regole che definissero con esattezza le sue modalità, in un’epoca in cui la pena era semplicemente un tempo d’attesa senza misura che precedeva il supplizio. Il concetto di certezza non era disgiunto da quello di mitezza e proporzionalità. Con l’abolizione dei benefici penitenziari, la pena torna ad essere quel supplizio purgativo con cui la società si illude di espellere il male da se stessa.
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