L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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mercoledì 16 luglio 2008

Carcere: Un problema politico e culturale non piccolo

di Pasquale Martino (Assessore al Comune di Bari)

Liberazione, 16 luglio 2008

La legge Gozzini è un buona legge e va applicata. Se un condannato matura il diritto alla semilibertà, e trova una occasione di lavoro, sarebbe immorale negargliela.

La pena non può essere commisurata al dolore di chi ha subito il crimine: indulgere a ciò alimenterebbe un giustizialismo forcaiolo. Detto ciò, rimane un problema politico e culturale non piccolo, a cui non possiamo sottrarci. L’elaborazione della memoria degli anni Settanta sta producendo diversi processi culturali interessanti, e fra l’altro sta dando vitalità e forza a un soggetto prima disperso e sommerso: i familiari delle vittime di stragi e terrorismo.

Questo soggetto multiforme ambisce a domandare alla cultura e alla politica - quindi, per quanto ci riguarda, alla sinistra - il riconoscimento esplicito di una esperienza, di un percorso, di una sensibilità. Il riconoscimento della memoria delle vittime, poliziotti, agenti di scorta, giudici, operai, gente comune, uomini politici. Chiede che le loro vicende non siano relegate a scarti della "grande storia", ma ottengano il loro giusto posto dentro la narrazione collettiva dell’Italia repubblicana. Insomma, i familiari delle vittime chiedono una scelta e una "connessione sentimentale".

Io penso che abbiano ragione. A meno che riteniamo che in quegli anni sia stata combattuta una guerra civile in cui torti e ragioni erano equamente distribuiti; e che sia ancora da venire una soluzione politica che riconosca in qualche modo ai condannati per atti terroristici lo status di combattenti o di "compagni che hanno sbagliato".

Se non è così - e io non lo credo - allora è il momento che la sinistra costruisca, più di quanto abbia saputo fare finora, una connessione sentimentale con le storie di coloro che sono stati uccisi, e dei loro cari. Il resto verrà da sé. Sarà naturale condividere in toto la legge Gozzini e guardare a un condannato per fatti di terrorismo come a una persona che ha diritto di rifarsi la vita con il lavoro, che ha diritto di essere curato nel modo migliore se è in gravi condizioni di salute, ma che certamente ha ben poco da insegnare, e tanto meno può essere un po’ compatito come se fosse un perseguitato (fatta salva l’eccezione, che ci può essere e c’è), specie poi se la latitanza gli ha consentito di non scontare la pena.