Giustizia: con meno misure alternative ci sarà meno sicurezza
di Nicola Boscoletto (Presidente della Cooperativa Sociale "Giotto")
www.ilsussidiario.net, 10 ottobre 2008
Il disegno di legge Berselli-Balboni, sul quale in questi giorni prosegue la discussione alla Commissione Giustizia del Senato, affronta il problema della certezza e dell’effettività della pena proponendo alcune modifiche alla vecchia legge Gozzini che riteniamo rovinose per i percorsi di rieducazione dei condannati, distruttive della persona umana in quanto tale e destinate ad aumentare l’insicurezza sociale anziché diminuirla.
Ribadiamo quanto stiamo sostenendo da anni, non certo per una presunzione di bravura o capacità particolari, ma solo come contributo frutto della nostra esperienza ultradecennale in percorsi di recupero dei carcerati. Non esiste sicurezza senza rieducazione, secondo il principio della "filiera della sicurezza", in base alla quale per chi delinque devono essere garantiti: 1. rapidità e certezza del giudizio; 2. certezza ed effettività della pena; 3. certezza del recupero.
Senza la certezza del recupero le prime due azioni sono vanificate, poiché, come sappiamo, chi esce dal carcere senza prospettive torna a delinquere più e peggio di prima; i dati sulla recidiva sono in questo senso a dir poco allarmanti. Vanno favoriti in tutti i modi i percorsi di recupero e reinserimento sociale dei detenuti, in particolare attraverso l’incentivazione del lavoro che rimane l’unica misura efficace, fondamentale "elemento del trattamento", come previsto dallo stesso Ordinamento Penitenziario (art. 15 legge 354/1975). Il Ddl in questione rende molto più restrittive le possibilità di accesso ai benefici introdotti dalla legge Gozzini, in base alla presunzione che un condannato, tra permessi e sconti di pena, finisca per non scontare la propria colpa.
Invece la legge n. 663 del 1986 ha riformato l’ordinamento penitenziario cercando di renderlo più aderente all’art. 27, terzo comma, della Costituzione, dove si dice che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. L’obiettivo è chiaro: restituire alla società, al termine della pena, uomini migliori di quelli che sono entrati in carcere per aver commesso un crimine.
Per questo deve essere favorito il recupero del condannato e non la sua cancellazione dalla società civile. D’altra parte, come diceva lo stesso Mario Gozzini: "Non ci si può limitare a chiedere che i rei siano posti in condizione di non nuocere più: ci si deve innanzitutto interrogare se del reato commesso non esista una responsabilità collettiva, sia pure indiretta, in quanto non abbiamo saputo intervenire in tempo per risolvere un disagio e prevenirne le conseguenze criminose".
È dimostrato che nella quasi totalità dei casi un condannato recuperato e reinserito pienamente e produttivamente nel tessuto sociale non delinque più e torna a una vita normale, cessando di costituire un pericolo per la sicurezza e un costo da sopportare per la collettività (circa 100.000 euro l’anno, 300 euro al giorno, oltre 1 miliardo di euro l’anno ogni 10.000 detenuti!) Da questo punto di vista il recupero è in funzione, e non in alternativa, alla sicurezza, con cui anzi coincide pienamente.
Perciò le misure alternative e i permessi, se correttamente applicati, costituiscono una possibilità concreta di rieducazione e reinserimento, essendo peraltro in alcuni casi più punitivi della stessa pena detentiva poiché contengono in alcuni casi aspetti anche umilianti (il ritorno in carcere tutti i giorni, le ispezioni notturne delle forze dell’ordine, le firme in questura ecc.). Forte delle crescenti spinte giustizialiste, il Ddl in questione punta invece sulla repressione e sull’inasprimento delle pene, rendendo molto più difficile la possibilità per un detenuto di avvalersi delle misure alternative o dei permessi e addirittura eliminando del tutto alcuni benefici (uno su tutti: la semilibertà per gli ergastolani dopo vent’anni di reclusione), senza alcun interesse ad agevolare i percorsi di rieducazione.
Questa è la strada per togliere ai condannati la speranza di una prospettiva di vita, demotivandoli e azzerandone l’interesse a mantenere una buona condotta, perché se la possibilità di riscatto è molto lontana nel tempo o addirittura inesistente non rimarrà che l’istinto di sopravvivenza. Le carceri torneranno a sovraffollarsi in breve tempo e da luoghi di rieducazione diventeranno luoghi di degrado, dove vincerà la legge della giungla e saranno all’ordine del giorno violenze, soprusi, pestaggi e ritorsioni anche nei confronti degli agenti penitenziari, senza contare i casi già oggi molto frequenti di suicidio e autolesionismo. A proposito del lavoro, i numeri parlano chiaro: se oggi, nell’ambito di una popolazione carceraria di 55.000 detenuti, la possibilità del lavoro remunerato e in regola è offerta solo al 3,5% (727 semiliberi, 307 articoli 21, 700 lavoranti all’interno), per tutti gli altri è automatico che il carcere diventi l’università del crimine, poiché chi entra per un reato esce sapendone commettere molti di più e quindi, in un certo senso, è più "formato". A chi serve tutto questo? Alla società no di sicuro.
È ampiamente dimostrato che nei Paesi in cui è prevalsa l’idea della pena come punizione da espiare fino in fondo senza sconti (Stati Uniti ad esempio) la delinquenza non è affatto diminuita e alla società sono stati restituiti uomini peggiori di prima. Invece, come detto, elemento inscindibile dalla sicurezza rimane il recupero dei condannati, innanzitutto attraverso lo strumento principale di rieducazione costituito dal lavoro.
Ricordiamo che come stabilito dall’art. 20, comma 2, della legge 354/1975 (Ordinamento Penitenziario) il lavoro penitenziario "non ha carattere afflittivo ed è remunerato e l’organizzazione e i metodi del lavoro penitenziario devono riflettere quelli del lavoro nella società libera, al fine di far acquisire ai detenuti una preparazione professionale adeguata, per agevolarne l’inserimento sociale". Il detenuto deve essere avviato al lavoro non tanto per essere sottratto all’ozio avvilente, quanto perché il lavoro è un dovere sociale, è un diritto costituzionale nonché un essenziale strumento di rieducazione e di reinserimento, con notevoli vantaggi anche di ordine psicologico e sociale, oltre che economico. Per porre rimedio alla carenza di opportunità di lavoro, l’Amministrazione Penitenziaria è chiamata ad agevolare con sempre maggior impegno le iniziative che provengono dalla società libera, nello spirito del principio di sussidiarietà oggi sancito dalla Costituzione, attivando strategie più adeguate e più proficui collegamenti con l’esterno, direttamente con il mondo del lavoro e con le istituzioni.
Diversamente, continuerà a gravare sul carcere e sulla post-detenzione il circolo vizioso che ha posto e pone detenuti ed ex detenuti ai margini dell’attività produttiva e della società, con forte rischio di reiterazione dei reati commessi. Purtroppo da oltre un ventennio poco o niente è stato fatto in questo senso, ma anzi grazie alla disinformazione sistematica oggi è tutto molto più difficile, il sistema è "incancrenito" e non sarà facile trovare una soluzione a breve termine. Risalta su tutto l’immobilismo dell’amministrazione penitenziaria rispetto all’evoluzione dell’economia e del mercato del lavoro.
Innanzitutto va ripensata la funzione del Dap, che oggi si avvale di collaboratori abbandonati a se stessi che frenano lo sviluppo delle attività e non colgono il senso e il valore del loro lavoro; ci riferiamo soprattutto agli oltre 50.000 dipendenti dell’Amm. Penitenziaria, di cui poco meno di 43.000 sono gli agenti di polizia penitenziaria. Molti si pongono l’interrogativo dell’affollamento del personale impiegato al Dap di Roma (poco meno di 2000 persone) come pure della cattiva distribuzione degli educatori (10 per 300 detenuti in alcune realtà, 2 per 700 detenuti in altre!).
Per non parlare della figura del Magistrato di Sorveglianza, ruolo di ardua complessità e di estrema delicatezza (lo consideriamo il Magistrato dei Magistrati), che la legge ha istituito con il compito di recuperare persone che hanno sbagliato e per il quale il cuore di qualsiasi persona che si dica tale desidera che riesca nello scopo nella maniera più efficace.
Riteniamo perciò che per un corretto approccio al problema della sicurezza, che esiste ed è urgente, un moderno Stato di diritto non possa prescindere dall’affrontare in modo sistematico il tema del recupero dei detenuti attraverso lo strumento del lavoro, sia all’interno che all’esterno del carcere. Per far questo è necessario aprire la strada alle iniziative dei cittadini e delle loro formazioni sociali (soprattutto cooperative sociali e loro consorzi), attraverso la progettazione e lo sviluppo di percorsi organici dove le complessità e le problematiche del mondo carcerario, derivate dall’ordinamento penitenziario, sono a carico di un soggetto specifico che possiede il know how professionale e sociale idoneo a operare in maniera efficace.
Concludiamo con alcuni dati. La popolazione carceraria oggi conta 56.000 detenuti ed è di nuovo in una situazione di sovraffollamento: immaginiamoci a fine anno quando sarà di 60.000, o fra due anni (80.000), e così via. Nei cosiddetti lavori domestici alle dipendenze dell’Amministrazione Penitenziaria sono impegnati poco più di 11.700 detenuti. Se si considera che la maggior parte hanno un contratto part-time o che lavorano ad intermittenza (un mese sì e due no), in termini di posti equivalenti essi sono poco più di 3.000.
Questo tipo di lavoro costituisce una specie di sussidio che tocca a turno un po’ a tutti, con il risultato di essere slegato dal una reale progettazione e quindi diseducativo al massimo. Sono invece solo 700 su 55.000 i detenuti che lavorano con un regolare contratto di assunzione, in prevalenza alle dipendenze di cooperative sociali (278 solo in Lombardia e prevalentemente a cottimo fiduciario, 170 in Veneto, 44 in Piemonte, 28 in Lazio, 38 in Calabria, 35 in Toscana 15 in Emilia Romagna, ecc.). Sono impegnati nel lavoro all’esterno, per lo più con un regolare contratto di lavoro, 651 semiliberi e 311 che beneficiano del lavoro all’esterno in base all’art 21 Ord. Pen.
La recidiva o, diciamo meglio, la percentuale di coloro che - pur dopo aver scontato la pena - danno prova di non essersi redenti e tornano dunque a delinquere, si attesta sul 90%. Un’indagine ufficiale del Ministero della Giustizia, svolta in collaborazione con l’Università, ha rilevato una recidiva del 68% di ex detenuti arrestati nuovamente entro 5 anni, mentre lo stesso studio registra una recidiva del 19% tra chi ha usufruito di misure alternative (articolo 21, semilibertà, ecc.). Noi aggiungiamo, con riferimento ai 700 che lavorano all’interno, che, per chi inizia il percorso lavorativo dall’interno per poi passare alle misure alternative fino ad arrivare al fine pena, la recidiva scende sotto il 5%, con punte dell’1%.
Oggi i consorzi e le cooperative sociali in Italia hanno provato in maniera sussidiaria la strada del recupero e della rieducazione attraverso il lavoro, nel rispetto delle leggi, ottenendo risultati straordinari (1-5% di recidiva contro il 90%).
Non è il momento né il caso di confondere la sicurezza sociale con la certezza della pena e la funzione del carcere. Purtroppo solo perché in questi decenni nessuna istituzione ha saputo affrontare il problema in modo efficace, allora si scarica tutto sul sistema carcerario.
È ovvio per tutti che chi sbaglia deve pagare. Lo diceva tanti anni fa un certo Agostino: "lasciare impunito il colpevole è una crudeltà, perché toglie a chi ha sbagliato la possibilità di correggersi; analogamente favorire un reo perché è povero non è un vero atto di misericordia, in quanto l’impunità lascia il povero prigioniero della sua iniquità".
Ma, proseguiva Sant’Agostino, "la pena non deve avere il carattere di una vendetta, né di un’incontrollata scarica emotiva, ma di un atto di ragione commisurato al duplice fine: della conservazione della società e della correzione del colpevole. Nella proporzionalità sta la giustizia della pena […] si devono perseguire i peccati e non i peccatori, la condanna deve estirpare il peccato e non annientare il peccatore".
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