L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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martedì 27 gennaio 2009

Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia- OSSERVAZIONI SUL PIANO CARCERI


Il Consiglio dei Ministri ha approvato il “piano carceri”, provvedimento per dare risposta all’emergenza del sovraffollamento penitenziario, per poter ampliare la capienza degli istituti ad oltre 60mila detenuti (a fronte degli attuali 43mila posti).
Con questo piano, il ministro Alfano dichiara di rispondere alle urgenze che causano un aumento dei detenuti e di salvaguardare sempre la dignità dei ristretti.
La copertura economica di questo piano prevede che una parte dei fondi siano tratti dalla Cassa delle Ammende, ed il Governo apre anche ai finanziamenti privati attraverso lo strumento del "project financing" per la costruzioni dei nuovi edifici.
Già al convegno nazionale SEAC 2007 il volontariato aveva lanciato l’allarme sul rapido riempimento degli istituti, prevedendo che entro la metà del 2009 le carceri sarebbero state di nuovo sovraffollate come prima dell’indulto, in quanto già negli ultimi mesi del 2007 il ritmo delle carcerazioni era aumentato, portando la media mensile degli ingressi tra 800 e 1.200 persone e rendendo pressoché invivibile il carcere non solo per i detenuti, ma anche per gli stessi operatori penitenziari. L’allarme lanciato non era fine a se stesso, privo di contenuti operativi. Nelle proposte operative si sottolineavano vari punti:
- L’estensione delle misure alternative alla reclusione. Da oltre trenta anni la loro applicazione ha portato a una media annua, fino a prima dell’indulto, di 45 – 50.000 soggetti che hanno dimostrato una recidiva molto bassa (5% per gli affidamenti in prova, 19% per i tossicodipendenti a fronte del 67% dei dimessi dal carcere). Le misure alternative non sono da considerare dei “benefici assistenziali”, sono anch’esse pene vere e proprie con il loro rigore e i loro obblighi e prescrizioni; hanno dimostrato di costituire delle pene con un livello enormemente inferiore di recidività, eliminando il “di più” di pena connesso alla carcerazione; costano anche infinitamente di meno della reclusione: il bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria stanzia il 95% dei fondi alla reclusione e il 5% alle misure alternative nonostante esse raggiungano in media il 50% dei soggetti condannati. L’equivalente di circa 100 Istituti di media capienza. Per potenziarle basterebbe spostare, inizialmente, il 5% del bilancio dagli istituti alle misure alternative, per arrivare successivamente almeno al 10%. Attraverso le misure alternative alla detenzione si potranno reinserire molti degli attuali detenuti, la cui maggioranza è formata da persone in disagio sociale. Si potrebbero così potenziare anche i lavori socialmente utili e le attività “riparatrici”, riservando il carcere ai soggetti condannati per i reati più gravi, ottenendo, con l’auspicato sfollamento degli istituti, anche migliori possibilità di trattamento durante la reclusione.
- Sviluppare i percorsi terapeutici e trattamentali per i tossicodipendenti sperimentati dal Ministero della Giustizia con il progetto DAPPrima, eliminando però i nodi critici, amministrativi, giuridici ed economici che ne hanno limitato e condizionato la riuscita (tenendo anche presente che i tossicodipendenti non possono anch’essi trarre alcun vantaggio dalla carcerazione).
- Risoluzione definitiva del problema delle detenute madri, per toglierle – col figlio – dalla reclusione attraverso specifiche misure alternative.
- E’ necessario avviare una riflessione con tutte le istituzioni interessate per verificare la possibilità di anticipare alcune linee di riforma del sistema penale che siano in grado di superare l’attuale centralità della pena detentiva come unica risposta dell’ordinamento ad ogni forma di devianza e procedere nella direzione di un ampliamento del ventaglio delle sanzioni principali, affiancando alla tradizionale pena detentiva (unica in concreto applicata) un nuovo catalogo di sanzioni non detentive, irrogate direttamente dal giudice del processo, da gestire all’interno della comunità sociale, così da evitare gli effetti desocializzanti tipici del carcere.
Le nuove pene alternative, irrogate dal giudice con la sentenza, dovrebbero essere accompagnate da una previsione di immediata operatività, nel senso che le misure di sostegno e di controllo che le caratterizzano dovrebbero essere attivate fin dal momento della emissione della sentenza di condanna di primo grado, poiché la presa in carico di una persona da parte di servizi o istituzioni pubbliche o private (gli U.E.P.E. i Ser.T., le Comunità terapeutiche…), ai fini dello svolgimento di una prova o di una misura prescrittiva, non può essere rinviata nel tempo in attesa della irrevocabilità della sentenza, pena il suo sostanziale fallimento.
Analoghe finalità possono essere raggiunte dal graduale introduzione nel diritto penale degli adulti dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova, caratteristico della giustizia penale dei minori, (proposta già giustamente avanzata dal Ministro Alfano) che può risultare particolarmente utile a prevenire quelle forme di recidiva, molto frequenti nei giovani adulti, che si manifestano per la sostanziale incapacità dell’ordinamento di predisporre efficaci strumenti di probation coniugati ai necessari interventi sociali. La sospensione con messa alla prova, che potrebbe affiancarsi, in una prima fase sperimentale, alla tradizionale sospensione condizionale della pena, può fornire una efficace risposta anche ai temi della giustizia ripartiva in linea con gli standards europei che richiedono una maggiore attenzione al ruolo delle vittime dei reati. Proposte in linea con le indicazioni tracciate nella bozza di riforma del Codice Penale elaborata nella scorsa legislatura dalla Commissione Pisapia, e purtroppo mai approvata.
Se il carcere continuerà a rappresentare, anche a livello di investimenti di risorse, l’unica risposta che l’ordinamento è in grado di offrire ai problemi della devianza sarà sempre più difficile, per chi sia entrato nel circuito carcerario, accedere alle misure alternative previste dall’ordinamento penitenziario.
Va poi considerato che è dato ormai condiviso da tutta la dottrina penitenziaristica che l’aumento del tasso di carcerizzazione (v. esperienza degli Stati Uniti d’America) non valga di per sé a costituire un’efficace risposta al problema criminale, stante la sua comprovata inefficienza anche sul fronte dell’abbattimento della recidiva specifica. Se il carcere continua ad estendersi ne consegue una trasformazione evidente degli strumenti tradizionali della politica e degli interventi sociali.
La gestione ordinaria e la costruzione di carceri sono molto costose. Francamente, avevamo sperato che la crisi avrebbe inciso sulla soluzione di alternative penitenziarie, e che, perlomeno per motivi economici, la scarsità di risorse finanziarie a disposizione avrebbe potuto ( o dovuto) indirizzare a scelte diverse dall’aumento dei posti in carcere. Invece, la scarsezza di risorse pubbliche sta determinato lo smantellamento di servizi in altri settori ma non in quello carcerario; almeno non nell’edilizia, a quanto pare, poiché è invece evidente lo stato di sofferenza degli istituti in termini di servizi essenziali: assistenza sanitaria, celle al freddo, qualità del cibo, vestiario, ecc.
Le carceri si sviluppano dunque secondo una dinamica che può trascendere la congiuntura economica; perciò è ancora più importante lavorare per evitarne l’estensione.
Lavorare per compiere scelte differenti significa investire nell’aumento degli organici della magistratura di sorveglianza e del personale addetto, nella copertura dei posti disponibili negli organici degli assistenti sociali, degli educatori, e degli esperti psicologi e psichiatri (trasferendo alcuni degli operatori distaccati in compiti amministrativi alle loro vere funzioni) , garantire mezzi a disposizione degli UEPE per sviluppare l’applicazione delle misure alternative (magari direttamente dalla fase di giudizio), per le attività di sostegno alla rete dei servizi territoriali (inserimenti presso comunità terapeutiche, case-alloggio, case famiglia; borse di studio e di lavoro; incentivi per gli artigiani e le aziende interessate ad assumere i condannati alle misure alternative); significa, soprattutto, investire sull’esterno.
I fondi della Cassa delle Ammende, sorta appositamente per l’accompagnamento degli ex detenuti, giacciono utilizzati solo parzialmente. La legge prevede che i suoi fondi siano adoperati per sostenere programmi che attuano interventi di assistenza economica in favore delle famiglie dei detenuti e degli internati, e programmi che tendano a favorire il reinserimento sociale dei detenuti e degli internati anche nella fase di esecuzione di misure alternative alla detenzione. La proposta di finanziare i nuovi istituti “leggeri” con questi fondi suona come l’applicazione della riforma alla rovescia. Ciò che dovrebbe essere destinato per la risocializzazione viene utilizzato per la reclusione; ciò che può favorire la rieducazione del condannato, la sua possibilità di integrazione e quindi la minore recidiva, viene ridotto o tolto. Pertanto, non possiamo che esprimere disapprovazione su questa scelta.
Indubbiamente, gli istituti fatiscenti vanno sostituiti: strazia il cuore e la decenza leggere di detenuti ubicati sotto il livello del mare come a Favignana, situazioni che aggiungono ulteriore scempio al concetto di dignità umana.
La gestione pubblica della pena ne garantisce la sua trasparenza. L’ingresso di privati, come annunciato nel "project financing", rischia di mettere ombre al sistema di garanzie che il pubblico deve detenere; è quindi alle articolazioni istituzionali che vanno chiesti mezzi e risorse.
La gestione della detenzione e della pena devono essere inserite in una complessità di operazioni, le loro interrelazioni e la loro integrazione postulano una forte volontà politica da parte degli amministratori per realizzare una stretta collaborazione tra il Ministero, le Regioni, gli Enti Locali e la “società civile”, tutti organismi impegnati a diverso titolo e responsabilità, in una migliore gestione delle carceri, della pena e delle misure alternative. È attraverso politiche mirate sull’esterno che si possono garantire minor recidiva, minore emarginazione, una esecuzione più utile della pena.
Il Ministro Alfano sostiene: “Abbiamo poco tempo e pochi soldi”. E’ vero, e qualcosa va fatto in fretta, qualcosa d’altro si può fare, oltre alle proposte elencate. Ad esempio, si può richiedere una convocazione urgente della “Commissione Nazionale per i rapporti tra il Ministero della Giustizia, le Regioni, gli Enti Locali e il Volontariato” che, nella riunione del 19 marzo 2008, ha approvato all’unanimità le “Linee guida in materia di inclusione sociale a favore delle persone sottoposte a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria”: queste, sottolineando le ragioni della necessità dell’inclusione e i danni prodotti invece dall’esclusione, delineano in modo preciso i principi e le modalità della collaborazione tra istituti e servizi del Ministero, la programmazione regionale, gli interventi dei servizi socio sanitari e culturali territoriali e il volontariato, fino all’inserimento delle attività per i condannati nei “Piani Sociali di Zona” previsti dalla legge 328/2000. Della commissione fanno parte le Regioni, il Consiglio Superiore della Magistratura, il Ministero dell’Interno, il Ministero della Pubblica Istruzione, il Ministero della Solidarietà Sociale, l’ANCI, e il Volontariato.
Si tratta di attualizzare e di concretizzare tali linee guida che offrono un modello di “governance” che nega la “centralità” del carcere come unica forma di pena, afferma l’importanza dello sviluppo delle misure alternative, riconosce la necessità dell’integrazione, nei rispettivi ruoli, tra Ministero della Giustizia, Regioni, Enti Locali, Servizi Territoriali e Società, offre le modalità per stabilire un piano organico e stabile, adeguato alle necessità locali, uscendo finalmente dal rincorrere di volta in volta l’emergenza che si presenta.
In alcune città e Regioni alcuni operatori penitenziari stanno cercando di rendere fattibili queste proposte, attraverso la loro determinazione ed il forte coinvolgimento degli Enti Locali; queste esperienze dimostrano che lavorare in questa direzione è possibile. Significa lavorare nelle città, nei singoli Provveditorati e istituti, con la magistratura di sorveglianza locale, individuare i soggetti che potrebbero essere proposti per una misura alternativa e comprenderne i bisogni, sviluppare e sostenere nel complesso tali misure in rapporto al numero dei soggetti beneficiari: alloggi, comunità di accoglienza, disponibilità della Chiesa locale, del volontariato, formazione e collocamento al lavoro, rapporti con le famiglie e con l’ambiente, accompagnamento nel trattamento,La drammatica situazione in atto non può trovare risposte unicamente nell’edilizia carceraria che non potrà mai costituire l’unica soluzione al problema; ed inoltre sarebbe un’ulteriore occasione perduta per non scegliere di moltiplicare il numero delle prigioni, per compiere una scelta differente, finché siamo ancora in tempo.

25.01.09- Elisabetta Laganà, presidente Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia
e SEAC- Coordinamento Enti e Associazioni di Volontariato Penitenziario