Giustizia: la destra "fa società" colla paura, la sinistra non c’è
di Massimo Ilardi
Liberazione, 24 gennaio 2009
"Saremo inflessibili nei confronti di chi non rispetta le regole": lo hanno gridato continuamente sia Rutelli che Alemanno durante la campagna elettorale dello scorso anno per l’elezione del nuovo sindaco di Roma. Su questo l’inciucio è stato perfetto. E seguita ad esserlo.
Divieti, controlli, ossessione sulla sicurezza, demonizzazione del conflitto: oggi è solo così che si tenta di ricreare quei legami sociali spezzati da una società del consumo e da un paese diviso atavicamente in fazioni e che ha nel suo Dna l’assenza di senso dello Stato. Eppure il vecchio sistema dei partiti e la sua classe dirigente, nati dentro una guerra civile, avevano trovato gli antidoti per combattere la frantumazione sociale: producevano politica, organizzavano opposizioni reali, sapevano rappresentare il conflitto.
Il fatto è che all’avvento del primato del mercato non ha corrisposto una generazione politica all’altezza della prova: mantenere la politica al suo posto di comando. Qui e solo qui sta il declino italiano. Il "fare società" attraverso la scorciatoia del proibizionismo delle norme, che si pretende tra l’altro di erigere a comportamento morale, è l’ultimo ritrovato di una classe politica che ha drammaticamente fallito nel suo compito di governare il paese perché non possiede né autorità, né prestigio. Da qui il primato dell’economia e del diritto sulla politica che tende a scomparire: dove tutto è normalizzabile tutto è governabile.
E così mentre, a livello nazionale, si cerca il modo di tornare a proibire o a ridimensionare la legalità dell’aborto, a fare ancora qualche pensierino sulla cancellazione del divorzio, a ripristinare nelle scuole il primato del voto di condotta, a prendere le impronte digitali alla popolazione Rom, a organizzare ronde militari per la città e a vietare di fumare, andare liberamente allo stadio, farsi gli spinelli, prendere la residenza senza un lavoro, praticare il nomadismo e il commercio di strada; a Roma, oltre a tutto questo, si impedisce agli immigrati di lavare i vetri delle macchina, si nega di vendere la sera alcolici da asporto, si propone di mettere telecamere nelle scuole e sui mezzi pubblici, si studia come organizzare una centrale di vigilanza e di controllo su tutta la città.
È una apoteosi di regole, norme, balzelli, tributi, pedaggi, controlli di ogni genere che neanche nei secoli bui del Medioevo ne troviamo così tanti. Ma qualcuno di questi nuovi sceriffi metropolitani dovrà pur spiegarci prima o poi perché la casa e la famiglia siano diventati i luoghi di massimo pericolo proprio nel momento in cui consentono di mettere all’opera gli strumenti per costruire il massimo di sicurezza.
J. G. Ballard, ad esempio, ne dà una ragione: scrive che la comunità sicura e protetta e una famiglia chiusa e normale, dove i ruoli siano rispettati scrupolosamente, come vorrebbero gli amministratori severi dei nostri corpi e delle nostre anime, inchiodano i loro abitanti a un mondo sempre uguale e senza eventi trasformando quei luoghi che riteniamo più sicuri in socialmente più pericolosi proprio perché nella vita di uomini e donne sicurezza e libertà non vanno d’accordo. In un universo che vuole essere perfetto, in una famiglia che vuole essere totalmente sana, l’unica libertà per coloro che si sentono imprigionati diventa allora la devianza. Molto spesso la follia.
A livello politico, la verità è che senza più una teoria di governo e un pensiero forte che la produce, la elabora, la trasforma in guida per l’azione è solo l’idea di ordine che muove questo pensiero angoscioso del controllo e della sicurezza che diventa così pura articolazione della macchina istituzionale e del suo potere. Se non si stabilisce un ordine non c’è potere che tenga: ma il potere solo come ordine diventa amministrazione, burocrazia che si organizza in macchina autoritaria che percorre il territorio e pretende di strutturarlo.
Eppure, sembra incredibile, ma i dati del Viminale, nel raffronto tra il 2006 e il 2007, evidenziano in Italia una diminuzione degli omicidi e degli stupri e confermano Roma come una delle città più sicure del nostro paese. Non solo. Nel secondo semestre del 2007 rispetto al primo diminuiscono nella città omicidi, violenze sessuali e rapine. Ora se è vero che la sicurezza è soprattutto una questione di percezione più che di statistiche, è anche vero che questa percezione viene ancora di più sollecitata e ingigantita dai mezzi di comunicazione che non perdono occasione per creare un clima di paura e di allarme sociale.
Ed è proprio sullo sfruttamento di questo panico che ha fatto perno a Roma la campagna elettorale sia del centrodestra che del centrosinistra. Ma mentre la destra non faceva che nuotare nel suo mare fatto da sempre di tolleranza zero e di esclusione del diverso, la sinistra, quella moderata, che proviene da una cultura dove invece rimane centrale la Dichiarazione dei diritti universali della persona, nel momento in cui l’abiura per meschini calcoli elettorali non può che risultare alla fine meno credibile del suo avversario.
Invece di contrapporsi alla falsità di questa emergenza che la stessa Chiesa ha negato e che serve solo a un ceto politico incapace di governare altrimenti, si è messa a rimorchio della destra; invece di produrre con decisione un immaginario e un simbolico diverso da quello costruito dagli spettri della paura con una proposta politica fortemente alternativa a quella della semplice militarizzazione del territorio, partorisce i soliti e beceri luoghi comuni sulla sicurezza. Forse avrebbe perso lo stesso ma almeno la sua sbandierata diversità sarebbe risultata meno opaca.
Che si combatta, ad esempio, con tutti i mezzi legali a disposizione e si punisca la violenza dei bulli, degli aggressori e degli stupratori è ovviamente cosa sacrosanta. Ma altrettanto cosa sacrosanta è avere il coraggio di dire con forza che non tutti gli immigrati sono aggressori e stupratori. Che si ribadisca in tutte le sedi che la lotta politica va situata dentro la democrazia, è anch’essa cosa sacrosanta.
Ma altrettanto cosa sacrosanta è saper indicare finalmente un "nemico" per organizzarsi come "parte", per restituire forza, orgoglio e rispetto a chi si sente diverso dal razzismo rozzo e superstizioso della casalinga frustrata, del bottegaio ingordo, del piccolo borghese ottuso, e da chi non frequenta quei terrificanti salotti televisivi, dove tra veline, gnomi e ballerine la conoscenza si ferma al pettegolezzo, al piagnisteo o a qualche culetto svolazzante. Ma, come ha scritto Enzo Scandurra su questo giornale, con spot pubblicitari come "I care" e "We can" al massimo ci puoi dirigere un supermercato non organizzare un’opposizione.
Il dramma della sinistra, soprattutto di quella moderata, è che non riesce più a prendere terra, a produrre conoscenza del territorio, delle culture e delle mentalità che lo attraversano, a fare analisi dei movimenti, a individuare nei mutamenti della stratificazione sociale il livello a cui dovrebbe far riferimento. Una carenza di una gravità inaudita soprattutto in una società del consumo che produce appartenenze e differenze proiettandole direttamente sul territorio che diventa così un contenitore esplosivo di particolarismi in continua lotta tra loro.
È il territorio e non la nuda vita a entrare a pieno titolo nel campo della decisione politica. E mentre scompare una pur sia minima pratica di intervento nei conflitti sociali, torna prepotentemente alla superficie il vecchio e mai sopito vizio statalista della sua cultura che vede tutto ciò che fuoriesce dalle istituzioni come qualcosa di perverso e di diabolico e di conseguenza la porta a non riuscire mai a sintonizzarsi con la irregolarità delle forme di lotta e con la collera sociale anti-sistema che le fomenta. Anzi, proprio perché non le conosce, ne ha paura e le criminalizza.
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