Giustizia: la crisi del carcere, tra burocrati e magistrati
Massimo Di Rienzo (Direttore Casa Circondariale di Lanciano)
Il Manifesto, 15 aprile 2012
Per risolvere la crisi del sistema penitenziario c’è bisogno di una classe dirigente diversa dall’attuale coabitazione tra alti burocrati, appagati dallo status raggiunto, e magistrati a tempo.
Ad affrontare la grave crisi del sistema penitenziario, notoriamente ormai caratterizzata dai problemi del sovraffollamento e della carenza delle risorse, umane e finanziarie, è chiamata una dirigenza penitenziaria ancora in via di formazione, dopo la riforma del 2005.
Segnata da un percorso storico travagliato, oscillante fra spinte politico-legislative spesso di segno opposto, essa da circa sette anni nella gestione corrente viene assimilata, o meglio equiparata, ora a quello ora a questo riferimento professionale, limitata e tenuta sotto tutela dalla presenza costante, sebbene temporanea per i singoli interessati, di magistrati nei ruoli fondamentali dell’amministrazione.
La permanenza dei magistrati all’interno dell’ organizzazione amministrativa in generale, ed in particolare in quella della giustizia, ha una lunga storia. Tuttavia intorno alla metà degli anni novanta, per chi viveva dal di dentro la cosa penitenziaria, era evidente che una sorta di tacito patto finiva per legare gli alti dirigenti ed i magistrati insediati nei gangli centrali dell’apparato carcerario. Ai primi, dopo le prime nomine e fino al 2011 selezionati con modalità che lasciavano progressivamente sempre meno spazio al merito ed alla competenza a vantaggio di patrocini politici e di potere, veniva riservata la gestione dei provveditorati regionali, oltre alla conduzione di alcune direzioni generali e dell’Istituto superiore di studi penitenziari. I secondi, provenienti quasi esclusivamente da esperienze nelle Procure, progressivamente rafforzavano le proprie posizioni a livello centrale ampliando maggiormente la loro sfera di influenza con l’occupazione di posti ulteriori rispetto ai limiti dettati dalla legge, che circoscrive le loro competenze a quelle riconducibili a solo due delle cinque direzioni generali.
La coabitazione fra alti burocrati e magistrati nei posti di comando dell’Amministrazione penitenziaria finiva per svilire e relegare in secondo piano le problematiche che caratterizzavano le entità territoriali, gli istituti e gli uffici di esecuzione penale esterna; realtà che, invece, rivestendo un ruolo centrale nella concreta applicazione dell’esecuzione penale, avrebbero meritato ben altre attenzioni. Uno sguardo d’insieme a quella che è stata nell’ultimo scorcio la distribuzione del personale dirigente sul territorio rileva situazioni di estrema instabilità: istituti ed uffici locali lasciati per anni privi di direttori titolari, anche a causa di un mancato turn over, cui fa da contrappunto l’ ingolfamento di funzionari dirigenti presso sia gli uffici centrali che le articolazioni regionali, con relativo svilimento e deprezzamento delle funzioni ivi svolte. Rappresentazione inquietante, che si sarebbe ancora maggiormente consolidata se si fosse realizzato il più recente proposito di redistribuzione delle risorse professionali dirigenziali, risalente a circa un anno addietro, che invece ha trovato una decisa opposizione e, allo stato, non se ne conosce il destino.
La presenza, quindi, ai livelli di alta responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, da un lato di burocrati ormai appagati dello status raggiunto, e quindi generalmente poco inclini all’esercizio di capacità critiche e di stimolo nei confronti dei referenti decisionali della politica carceraria; dall’altro di magistrati prestati a tempo determinato alla vita amministrativa (la norma prevede una permanenza massima di cinque anni, molto spesso prorogata fino a dieci) sta rallentando la costruzione di un ceto dirigente all’altezza dei compiti, onerosi e problematici, che i tempi richiedono.
Il mantenimento delle posizioni di potere accennate non è estraneo allo stesso ritardo che si registra nella ripresa delle trattative per giungere alla conclusione del primo contratto di categoria: è palmare la tiepidezza che l’ Amministrazione centrale fino ad oggi mostra nella vicenda. Ancora una volta si rileva come il problema cruciale risieda nella formazione dell’assetto in cui si sviluppano i processi di formazione della volontà dell’apparato di vertice, che fanno capo a soggetti per un verso scarsamente motivati, per l’altro carenti nel fondamentale rapporto di immedesimazione organica con l’ente cui sono temporaneamente distaccati.
Altre considerazioni, non proprio di confine, si pongono ancora sulla presenza di componenti di un ordine diverso nella segmentazione amministrativa. Senza scomodare principi di ordine costituzionale, senza cioè invocare la mai troppo celebrata tripartizione dei poteri alla base dello stato di diritto, non può non rilevarsi quanto la confusione fra matrici culturali, e relative vocazioni professionali, proiettate a finalità di diversa valenza istituzionale, finisca per ingenerare mescolanze perniciose. Quando, per esempio, a capo di un ufficio ispettivo e di controllo viene posto un - peraltro valente - magistrato che per diversi anni ha svolto le funzioni di Pubblico Ministero, è di tutta evidenza come le regole della vita amministrativa vengano inevitabilmente alterate. Per non dire di quanto sia forte la tentazione di ritenere che sia stato disposto un commissariamento di fatto di quell’ ufficio, quando si constata che a capo della Direzione generale dei beni patrimoniali viene posto un magistrato, già anch’egli Pubblico Ministero di indubbio valore e cacciatore di mafiosi. È quindi evidente come in casi del genere venga snaturata la finalità istituzionale cui gli uffici in questione sono preposti, per assumerne altre, di intuibile, ma taciuto, significato. Ecco come allora la stessa tripartizione dei poteri, che non si vorrebbe scomodare in tale corpore vili, finisca inevitabilmente per ridondare e per rilevarsi la sua inosservanza un pericoloso intralcio alla trasparenza dell’azione amministrativa, segmento non proprio trascurabile, della stessa vita democratica.
Un ulteriore problema si pone nella comprensione di tale caleidoscopio, quando si rilevano ben tre diverse specie nella dirigenza penitenziaria, ( per le specifiche contrattuali se ne potrebbero contare quattro) ciascuna portatrice di un suo background culturale. Quando cioè, nel giro di qualche anno, anche la Polizia Penitenziaria enumererà suoi componenti fra le leve dirigenziali, l’Amministrazione sarà dotata di almeno tre ranghi diversi di funzionari dirigenti. Si badi, non si tratta semplicemente di ruoli distinti che si dipartono dal medesimo ceppo.
La situazione è ben più complicata. Sono infatti almeno tre i filoni di diversa origine e matrice, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di disomogeneità nel significante degli interventi. La provenienza culturale, formativa e professionale infatti spazierà da quella della magistratura ( ordinaria ) a quella dei dirigenti penitenziari, (comprendendovi anche quelli di competenza pedagogica e contabile) a quella di un Corpo di polizia; con una aggiunta di eterogeneità di ben quattro regimi contrattuali - che vuol dire trattamento economico e status giuridico, e cioè: diritti, doveri, interessi, oneri, aspettative, progressioni - diversamente individuati e regolamentati.
Una dinamica virtuale fra queste quattro specie potrebbe risolversi positivamente a vantaggio di un arricchimento della vita amministrativa, con la presenza imprescindibile di una regia autorevole che sappia far convergere le differenze verso l’ univocità del mandato istituzionale. Ma il compito è arduo ed irto di difficoltà.
Un quadro invece appena men che ottimale, caratterizzato semmai da debolezze in fatto di volontà di indirizzo o da scarsa chiarezza nelle finalità da perseguire, semmai con una leadership che non eccella in carisma e capacità risolutive, potrebbe invece contribuire a determinare un panorama di disorganicità, con incertezze ed incoerenze sia nella individuazione che nel perseguimento degli obiettivi.
Certamente la semplificazione della complessità delineata, al fine di rendere meno arduo il perseguimento degli intenti definiti in sede politica, richiede come obiettivo immediato la riduzione delle distanze fra le matrici di provenienza, almeno attraverso significativi momenti formativi comuni dei ranghi. Tempi diversi, ma non eludibili per chi si fosse dato una visione alta della funzione penitenziaria, richiede la costruzione di un ceto dirigente compatto ed unitario: attraverso un percorso in cui non solo il substrato di valori condivisi, ma pure una comune, agita e penetrante conoscenza degli strumenti attuativi dell’esecuzione penale, così come modellata dalla norma, facciano da imprescindibile tessuto connettivo.
Il Manifesto, 15 aprile 2012
Per risolvere la crisi del sistema penitenziario c’è bisogno di una classe dirigente diversa dall’attuale coabitazione tra alti burocrati, appagati dallo status raggiunto, e magistrati a tempo.
Ad affrontare la grave crisi del sistema penitenziario, notoriamente ormai caratterizzata dai problemi del sovraffollamento e della carenza delle risorse, umane e finanziarie, è chiamata una dirigenza penitenziaria ancora in via di formazione, dopo la riforma del 2005.
Segnata da un percorso storico travagliato, oscillante fra spinte politico-legislative spesso di segno opposto, essa da circa sette anni nella gestione corrente viene assimilata, o meglio equiparata, ora a quello ora a questo riferimento professionale, limitata e tenuta sotto tutela dalla presenza costante, sebbene temporanea per i singoli interessati, di magistrati nei ruoli fondamentali dell’amministrazione.
La permanenza dei magistrati all’interno dell’ organizzazione amministrativa in generale, ed in particolare in quella della giustizia, ha una lunga storia. Tuttavia intorno alla metà degli anni novanta, per chi viveva dal di dentro la cosa penitenziaria, era evidente che una sorta di tacito patto finiva per legare gli alti dirigenti ed i magistrati insediati nei gangli centrali dell’apparato carcerario. Ai primi, dopo le prime nomine e fino al 2011 selezionati con modalità che lasciavano progressivamente sempre meno spazio al merito ed alla competenza a vantaggio di patrocini politici e di potere, veniva riservata la gestione dei provveditorati regionali, oltre alla conduzione di alcune direzioni generali e dell’Istituto superiore di studi penitenziari. I secondi, provenienti quasi esclusivamente da esperienze nelle Procure, progressivamente rafforzavano le proprie posizioni a livello centrale ampliando maggiormente la loro sfera di influenza con l’occupazione di posti ulteriori rispetto ai limiti dettati dalla legge, che circoscrive le loro competenze a quelle riconducibili a solo due delle cinque direzioni generali.
La coabitazione fra alti burocrati e magistrati nei posti di comando dell’Amministrazione penitenziaria finiva per svilire e relegare in secondo piano le problematiche che caratterizzavano le entità territoriali, gli istituti e gli uffici di esecuzione penale esterna; realtà che, invece, rivestendo un ruolo centrale nella concreta applicazione dell’esecuzione penale, avrebbero meritato ben altre attenzioni. Uno sguardo d’insieme a quella che è stata nell’ultimo scorcio la distribuzione del personale dirigente sul territorio rileva situazioni di estrema instabilità: istituti ed uffici locali lasciati per anni privi di direttori titolari, anche a causa di un mancato turn over, cui fa da contrappunto l’ ingolfamento di funzionari dirigenti presso sia gli uffici centrali che le articolazioni regionali, con relativo svilimento e deprezzamento delle funzioni ivi svolte. Rappresentazione inquietante, che si sarebbe ancora maggiormente consolidata se si fosse realizzato il più recente proposito di redistribuzione delle risorse professionali dirigenziali, risalente a circa un anno addietro, che invece ha trovato una decisa opposizione e, allo stato, non se ne conosce il destino.
La presenza, quindi, ai livelli di alta responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, da un lato di burocrati ormai appagati dello status raggiunto, e quindi generalmente poco inclini all’esercizio di capacità critiche e di stimolo nei confronti dei referenti decisionali della politica carceraria; dall’altro di magistrati prestati a tempo determinato alla vita amministrativa (la norma prevede una permanenza massima di cinque anni, molto spesso prorogata fino a dieci) sta rallentando la costruzione di un ceto dirigente all’altezza dei compiti, onerosi e problematici, che i tempi richiedono.
Il mantenimento delle posizioni di potere accennate non è estraneo allo stesso ritardo che si registra nella ripresa delle trattative per giungere alla conclusione del primo contratto di categoria: è palmare la tiepidezza che l’ Amministrazione centrale fino ad oggi mostra nella vicenda. Ancora una volta si rileva come il problema cruciale risieda nella formazione dell’assetto in cui si sviluppano i processi di formazione della volontà dell’apparato di vertice, che fanno capo a soggetti per un verso scarsamente motivati, per l’altro carenti nel fondamentale rapporto di immedesimazione organica con l’ente cui sono temporaneamente distaccati.
Altre considerazioni, non proprio di confine, si pongono ancora sulla presenza di componenti di un ordine diverso nella segmentazione amministrativa. Senza scomodare principi di ordine costituzionale, senza cioè invocare la mai troppo celebrata tripartizione dei poteri alla base dello stato di diritto, non può non rilevarsi quanto la confusione fra matrici culturali, e relative vocazioni professionali, proiettate a finalità di diversa valenza istituzionale, finisca per ingenerare mescolanze perniciose. Quando, per esempio, a capo di un ufficio ispettivo e di controllo viene posto un - peraltro valente - magistrato che per diversi anni ha svolto le funzioni di Pubblico Ministero, è di tutta evidenza come le regole della vita amministrativa vengano inevitabilmente alterate. Per non dire di quanto sia forte la tentazione di ritenere che sia stato disposto un commissariamento di fatto di quell’ ufficio, quando si constata che a capo della Direzione generale dei beni patrimoniali viene posto un magistrato, già anch’egli Pubblico Ministero di indubbio valore e cacciatore di mafiosi. È quindi evidente come in casi del genere venga snaturata la finalità istituzionale cui gli uffici in questione sono preposti, per assumerne altre, di intuibile, ma taciuto, significato. Ecco come allora la stessa tripartizione dei poteri, che non si vorrebbe scomodare in tale corpore vili, finisca inevitabilmente per ridondare e per rilevarsi la sua inosservanza un pericoloso intralcio alla trasparenza dell’azione amministrativa, segmento non proprio trascurabile, della stessa vita democratica.
Un ulteriore problema si pone nella comprensione di tale caleidoscopio, quando si rilevano ben tre diverse specie nella dirigenza penitenziaria, ( per le specifiche contrattuali se ne potrebbero contare quattro) ciascuna portatrice di un suo background culturale. Quando cioè, nel giro di qualche anno, anche la Polizia Penitenziaria enumererà suoi componenti fra le leve dirigenziali, l’Amministrazione sarà dotata di almeno tre ranghi diversi di funzionari dirigenti. Si badi, non si tratta semplicemente di ruoli distinti che si dipartono dal medesimo ceppo.
La situazione è ben più complicata. Sono infatti almeno tre i filoni di diversa origine e matrice, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di disomogeneità nel significante degli interventi. La provenienza culturale, formativa e professionale infatti spazierà da quella della magistratura ( ordinaria ) a quella dei dirigenti penitenziari, (comprendendovi anche quelli di competenza pedagogica e contabile) a quella di un Corpo di polizia; con una aggiunta di eterogeneità di ben quattro regimi contrattuali - che vuol dire trattamento economico e status giuridico, e cioè: diritti, doveri, interessi, oneri, aspettative, progressioni - diversamente individuati e regolamentati.
Una dinamica virtuale fra queste quattro specie potrebbe risolversi positivamente a vantaggio di un arricchimento della vita amministrativa, con la presenza imprescindibile di una regia autorevole che sappia far convergere le differenze verso l’ univocità del mandato istituzionale. Ma il compito è arduo ed irto di difficoltà.
Un quadro invece appena men che ottimale, caratterizzato semmai da debolezze in fatto di volontà di indirizzo o da scarsa chiarezza nelle finalità da perseguire, semmai con una leadership che non eccella in carisma e capacità risolutive, potrebbe invece contribuire a determinare un panorama di disorganicità, con incertezze ed incoerenze sia nella individuazione che nel perseguimento degli obiettivi.
Certamente la semplificazione della complessità delineata, al fine di rendere meno arduo il perseguimento degli intenti definiti in sede politica, richiede come obiettivo immediato la riduzione delle distanze fra le matrici di provenienza, almeno attraverso significativi momenti formativi comuni dei ranghi. Tempi diversi, ma non eludibili per chi si fosse dato una visione alta della funzione penitenziaria, richiede la costruzione di un ceto dirigente compatto ed unitario: attraverso un percorso in cui non solo il substrato di valori condivisi, ma pure una comune, agita e penetrante conoscenza degli strumenti attuativi dell’esecuzione penale, così come modellata dalla norma, facciano da imprescindibile tessuto connettivo.
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