L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

giovedì 26 aprile 2007

CONTROLLO E AIUTO- M.R.PARRUTI (MAG. SORV. PESCARA)

Una funzione di controllo e aiuto nelle misure alternative
di Maria Rosaria Parruti (Magistrato di Sorveglianza - Pescara)

Ristretti Orizzonti, 25 aprile 2007

Ci si potrebbe porre questa domanda: l’assistente sociale che tratta il caso ad esempio, del singolo affidato, può esercitare contemporaneamente la funzione di controllo ed aiuto che il mandato istituzionale rimette alla sua competenza, ovvero l’assolvimento delle funzioni di solo aiuto gli impedisce una qualsiasi azione di controllo?
La distinzione delle due funzioni in realtà, riflette un modo astratto di considerare il problema: infatti, se si ha riguardo alla pratica operativa, risulta evidente che nei confronti di una persona che sia in difficoltà nell’esercitare un controllo efficiente sul proprio comportamento, (e che quindi va aiutata in primis nel rispetto delle prescrizioni, o meglio, a partire dal rispetto delle prescrizioni dettategli come condizione di libertà), l’aiuto offerto non può fare a meno di comprendere anche la verifica delle difficoltà che la persona ha in rapporto agli obblighi di comportamento assunti, e la valutazione dei problemi che vi sono connessi.
La prescrizione ed il suo controllo diventa occasione di approfondimento e di conoscenza del caso. Nel momento, cioè, in cui l’assistente sociale controlla qualcuno non può non farlo alla luce di quello che lui stesso è, e dunque analizzando le eventuali difficoltà a rispettare gli obblighi, fornendo dunque, in questo la sua professionalità specifica.
Ciò che conta dunque, è che tale controllo non si esaurisca nella contestazione dell’infrazione eventualmente commessa, ma rappresenti il punto di avvio o comunque una tappa di un percorso diretto a sostenere il condannato nel rispetto della realtà che lo riguarda e nella ricerca delle soluzioni più adatte.
Si comprende bene come in questa azione l’assistente sociale svolge un ruolo di grande significato, (controllo è anche quello di polizia ma dai contenuti tutti diversi) non solo per i contenuti tecnici che assicura nel corso del trattamento, ma anche per la possibilità che ha di comunicare una considerazione positiva nei confronti del condannato e delle sue capacità di "rilancio", sempre che questi affronti il programma trattamentale con autentica accettazione e rispetto.
A questo punto è bene tener presente la norma principe dell’esecuzione penale e cioè l’art. 27 della Cost. cui le singole misure vogliono dare attuazione, laddove chiarisce che le pene "tendono alla rieducazione del condannato". La pena nel comune sentire e spesso dagli stessi operatori penitenziari è vista come qualcosa di assolutamente e radicalmente negativo, nel quale non c’è nulla di positivo che vada salvato. La funzione della pena invece, nel nostro sistema non è pura retribuzione non si esaurisce nel puro contro bilanciamento di una colpa, ma deve tendere a mettere in moto la libertà del colpevole.
La norma usa il verbo "tendere", proprio perché la rieducazione non ha nulla di automatico, passa attraverso la libera decisione del colpevole ed è un percorso consapevole che il condannato se vuole, deve accettare ad al quale deve partecipare con tutta la sua libertà.
Si parla a proposito dei magistrati di sorveglianza di giudici che lavorano su una scommessa sul futuro… proprio perché c’è dentro, è in ballo tutto il rischio della libertà del condannato. (Capite che quando si parla di libertà è non soltanto di movimento, ma anche di scelta).
A questa funzione della pena occorre però, educare anche la società che spesso vede la sanzione come una giusta vendetta da applicare al colpevole, poiché non dobbiamo mai dimenticare come è stato autorevolmente detto (da Silvia Giacomoni) che il carcere e dunque la pena, è pena per certi gesti compiuti che non andavano compiuti, ma la persona non è mai tutta nei gesti che compie, buoni o cattivi che siano.
Occorre comprendere noi stessi e far comprendere poi alla società civile che questa attenzione al cambiamento ed all’emenda del colpevole non è solo nell’interesse del colpevole, ma è un’attenzione al bene comune, perché la società rieducando recupera un membro alla vita sociale, evitando così ulteriori devianze e costi futuri ed è bene anche per la persona offesa che nella solidarietà sociale e nel recupero del condannato può trovare solo ed adeguato risarcimento anche in termini di sicurezza sociale.
Fallace dunque, è in questo senso la contrapposizione tra rieducazione e prevenzione (la tutela del colpevole non è altra cosa rispetto alla tutela della vittima e della società intera): di solito pensiamo che il creditore dell’obbligo rieducativo sia il soggetto che ha commesso il reato, mentre il creditore principale dell’attività rieducativa è proprio la società, poiché dall’attività di rieducazione, seria effettiva ed adeguata, trarrà il beneficio della diminuzione del crimine.
Nel tempo si sono succedute disposizioni che hanno esteso la possibilità di accesso a misure extramurarie (proprio in attuazione di questa tendenza a negare l’afflittività della pena e ad uscire dal carcere): basti pensare alla legge Simeone che già dal 1998, che ha previsto che salvo il caso dei delitti più gravi e delle pene superiori a tre anni, la pena vada sospesa.
Disposizione in tal senso è stato il cosiddetto "indultino" previsto dalla legge 207 del 2003, così come la legge n. 49 del 2006 che ha previsto che il magistrato di sorveglianza possa concedere la sospensione della pena e l’affidamento in prova al servizio sociale in casi particolari a coloro che sono detenuti, prima e nelle more del giudizio innanzi al Tribunale di Sorveglianza, allargando peraltro, la possibilità di concessione della misura di cui all’art. 94 d.p.r. 309-90 anche a coloro che hanno un residuo pena di anni sei di reclusione per i reati cosiddetti non ostativi, a da ultimo nella stessa direzione è l’indulto concesso con legge n. 241 del 2006. Ma il problema non è tanto uscire a tutti costi dal carcere, ma è comprendere cosa è il carcere stesso e la sua funzione.
Dopo aver passato un po’ di ore in carcere o comunque a contatto con chi ha una pena da scontare, ci si rende conto che occorre in questo percorso innanzitutto, che il colpevole sia aiutato ad una presa di coscienza della colpa commessa, poiché è invece, normale sentire l’accaduto, il crimine commesso e la stessa espiazione come un’ingiustizia subita da altri (vittima del reato, giudice, operatori penitenziari, vita stessa).
Invece, solo la presa di coscienza della colpa può far rendere conto dell’errore commesso e della necessità di un cambiamento (lo si scorge in tutti coloro che si sono "rieducati"), e dunque disporre ad un’espiazione che sia percepita come tempo nel quale recuperare quanto con il crimine si è rotto o incrinato
Ed in secondo luogo, per dare vita e concretezza al nostro concetto di rieducazione, occorre accompagnare il condannato nel recupero dei suoi affetti e della sua capacità di impegnarsi attraverso il lavoro, peraltro così scarso e difficile da reperire, così da poter ritrovare il gusto di interagire con la realtà (tutte le attività di cosiddetto reinserimento sono volte a questo).
Non dimentichiamo infatti, che chi ha commesso un reato, sia contro il patrimonio che contro la persona, ha violato il rapporto corretto con il reale che dunque, deve essere aiutato a vivere, per un vero recupero e reinserimento nel tessuto sociale.
Dico queste cose, proprio perché è importante che coloro che entrano a contatto con il condannato ( operatori penitenziari o assistenti sociali o magistrati) concorrano nel favorire questa accettazione in primo luogo, della colpa commessa e dunque della giustizia dell’espiazione per una vera riappropriazione del reale e del suo senso. Rieducazione dunque, come presa di coscienza della assoluta necessità del cambiamento. Centrale dunque, è la necessità che il condannato incontri persone positive, impegnate nel loro ambito.
A questo fine, rispondendo alla domanda che ci siamo fatti, anzi appare a dir poco opportuno che le funzioni di controllo ed aiuto siano svolte in modo integrato da un unico operatore, poiché solo in un processo unitario del genere, il condannato può sperimentare come l’autorità che esercita il controllo non lo svolga in modo repressivo e formale, ma dimostrando nei fatti l’intenzione di fornire un aiuto di fronte alle difficoltà incontrate, a cominciare da quelle che sono determinate da una inadeguata capacità di autocontrollo rispetto alle prescrizioni da osservare.
L’attività di controllo dunque, non è mera rilevazione e contestazione dell’infrazione, ma costituisce anche un’occasione per vedersi in azione, e cercare possibili soluzioni, rispetto alle quali il condannato è chiamato ad assumere un atteggiamento costruttivo.