RdB CUB relazione assemblea servizio sociale giustizia del 21 giugno 2007
LA POLIZIA PENITENZIARIA NEGLI UEPE
Per parlare degli Assistenti Sociali oggi si deve necessariamente affondare le radici nella loro storia, non tanto e non solo in quella giuridica, che ne ha delineati i fini e le competenze, ma anche e soprattutto bisogna andare indietro nel tempo e ricordare perché si sono avute tutta una serie di reazioni e di vissuti, così particolari, che non trovano eguali nella storia della pubblica Amministrazione della storia del carcere in particolare.
I CSSA nascono nel 1975, con la riforma penitenziaria, la legge 354/75.
Essi si caratterizzano per la loro dipendenza dall’Amministrazione Penitenziaria, per l’autonomia tecnico - amministrativa rispetto agli istituti penitenziari ed all’autorità giudiziaria e dalla composizione del personale. Le competenze loro affidate riguardano persone in esecuzione penale che siano sottoposte a regole e condizioni restrittive della libertà personale, anche quando la pena è scontata in modi differenti dalla reclusione.
Ed è proprio questa la grande novità proposta dalla legge del 75: in quella sede sono state previste sanzioni alternative alla detenzione che costituiscono un modo nuovo di concepire l’esecuzione della pena: infatti la sua esecuzione si sposta da un modello esclusivamente carcerario – anche se riformato - ad un modello non carcerario, seguendo modelli operativi centrati sulla volontà di recupero e di collaborazione del condannato, seguito nel suo ambiente di vita e sostenuto dall’ aiuto determinante del servizio sociale.
E’ infatti più facile ammettere l’evidenza dei vantaggi materiali che possono essere ricondotti al buon andamento delle misure alternative, piuttosto che riconoscere il cambiamento di approccio introdotto dal legislatore nell’esecuzione penale ed il ruolo portante affidato in esso alla metodologia del servizio sociale.
La scelta di costituire un ruolo di servizio sociale , prevedendo per esso sedi diffuse sul territorio nazionale, con carattere di autonomia rispetto agli istituti penitenziari assume un significato particolare.
Il legislatore ha voluto sottolineare il carattere alternativo che tali strutture dovevano presentare in rapporto al carcere, sia sul piano culturale che operativo; sul piano culturale
stabilendo che la loro organizzazione dovesse avere come riferimento l’integrazione con il territorio e il radicamento su quelle stesse realtà locali che il servizio era chiamato ad interpretare; sul piano operativo, favorendo lo sviluppo di logiche gestionali diverse da quelle comuni alle istituzioni totali o ad altre strutture tradizionali ed il cui tratto determinante fosse costituito dalla monoprofessionalità del centro, concepito come struttura propria di servizio sociale.
Sostenere l’opportunità che il Centro fosse concepito come struttura monoprofessionale di servizio sociale non significava, ovviamente, negare l’esigenza di una stretta collaborazione degli assistenti sociali con le altre professionalità operanti nel settore, ma voleva invece solo affermare la tipicità dell’approccio nel progetto di una esecuzione penale alternativa al carcere che puntasse alla massima valorizzazione delle componenti di responsabilizzazione dell’utente, di sostegno delle sue capacità di autodeterminazione. Dovrebbe dunque risultare ben chiaro che il trattamento esterno in alternativa al trattamento intramurale non si distingue per il fatto che in esso gli operatori penitenziari si muovono come in “un carcere senza sbarre”, continuando a mutuare dalla cultura e dal sistema operativo del carcere i criteri ed i riferimenti tecnici che orientano l’azione penitenziaria, ma si distingue per il deciso cambio di approccio culturale ed operativo realizzato con le misure alternative, ove i principi su cui è fondata l’azione di servizio sociale risultano più di ogni altro pertinenti al tipo di intervento che si intende promuovere per i soggetti trattati in libertà.
L’altra grande novità è stata quella di aver preposto alla direzione dei CSSA personale appartenente alla stessa professionalità di quello che svolge attività diretta con gli utenti.
Essa si basava sulla consapevolezza che fosse possibile raggiungere migliori risultati attraverso la conoscenza delle strutture degli enti di riferimento e quindi un inserimento in essi più funzionale, tramite la visione più ampia rispetto ai singoli utenti, e quindi con la possibilità di ricerca di soluzioni opportune ai diversi livelli operativi.
L’apertura dei Centri pertanto poneva sullo stesso piano direttori di istituto e direttore di centro, per i quali si sarebbe dovuto espletare un concorso ma che – in quel momento storico- erano gli assistenti sociali, che nell’espletamento di quella funzione, venivano chiamati reggenti. Questi fino ad allora erano stati in posizione di fatto subordinata ai direttori di istituto e non avevano, sotto il profilo formale, il necessario potere contrattuale per avviare delle equilibrate procedure di rapporto. Non è da sottovalutare la circostanza che esisteva dipendenza economica dal carcere, delegato alla gestione contabile dei centri.
I primi centri sono entrati in funzione il 15 luglio 1976 e sono stati ubicati, in via provvisoria preso altri Uffici dell’Amministrazione ed hanno preso avvio senza l’assegnazione di personale esecutivo per l’adempimento delle esigenze essenziali. A distanza di trent’anni la situazione è rimasta sostanzialmente immutata: si pensi che la legge Simeoni Saraceni prevedeva l’assunzione di 600 operatori dell’Area B che sono stati assunti ma – secondo noi - non sono mai arrivati ai Centri.
A livello centrale, invece, si è passati da una sezione all’interno dell’Ufficio che si occupava di trattamento, allora Ufficio VII, alla Divisione nell’ambito dell’Ufficio detenuti, ed infine alla Direzione Generale, nella considerazione dell’aumentato “ volume d’affari” che hanno portato i sottoposti alle misure alternative a 60.000 circa.
Poche cose sono cambiate in periferia :
Dal punto di vista strutturale i Centri sono diventati indipendenti dal carcere, ma non sempre fruiscono di strutture adeguate,
Il personale di servizio sociale carente al nord, è appena sufficiente al sud,
Il personale di supporto è assolutamente in numero inadeguato, e spesso si è ricorsi al personale di polizia. Troppo spesso questo personale risultava problematico perché o affetto da patologie, era stato fatto transitare al ruolo civile, o semplicemente perché di difficile gestione era stato assegnato in un posto in cui non potesse nuocere. C’è da dire che alcuni di essi sono molto bravi, ma si tratta dell’eccezione che conferma la regola.
Gli strumenti forniti non sempre sono adeguati ed all’altezza. Un Direttore di Centro ha riferito che la sua struttura avrebbe fatto ricorso al finanziamento della Cassa delle Ammende per acquistare P.C.
Le automobili sono assolutamente insufficienti e troppo spesso viene non solo tollerato, ma anche sollecitato l’uso del mezzo proprio. Tale pratica è assolutamente illegittima, ma viene favorita a causa della carenza dei mezzi di locomozione e per rispondere alla necessità di effettuare visite domiciliari, controlli ….
In tutto questo la frustrazione dei direttori di Servizio Sociale è stata enorme perché si vedevano sminuiti nell’esercizio delle loro funzioni, dal punto di vista formale e del riconoscimento del ruolo. E questo non solo sul territorio, ma anche e soprattutto da parte dell’Amministrazione, che negava loro i riconoscimenti formali dei direttori di istituto. E’ nata così una pesante contrapposizione con chi, al centro, non riconosceva le loro istanze e non faceva nulla perché esse venissero accolte, mentre invece sosteneva gli assistenti sociali, perché portatori della mission professionale più dei direttori. D’altro canto al Dipartimento il drappello di dirigenti era tutto teso all’affermazione del ruolo in quanto tale e non era in grado di recepire dette istanze, anche perché non viveva sulla propria pelle la disconferma del proprio ruolo professionale.
C’è stata quindi una radicalizzazione dello scontro, mai avvenuto apertamente ma avvenuto sul filo di tante piccole battaglie culturali.
Per parlare degli Assistenti Sociali oggi si deve necessariamente affondare le radici nella loro storia, non tanto e non solo in quella giuridica, che ne ha delineati i fini e le competenze, ma anche e soprattutto bisogna andare indietro nel tempo e ricordare perché si sono avute tutta una serie di reazioni e di vissuti, così particolari, che non trovano eguali nella storia della pubblica Amministrazione della storia del carcere in particolare.
I CSSA nascono nel 1975, con la riforma penitenziaria, la legge 354/75.
Essi si caratterizzano per la loro dipendenza dall’Amministrazione Penitenziaria, per l’autonomia tecnico - amministrativa rispetto agli istituti penitenziari ed all’autorità giudiziaria e dalla composizione del personale. Le competenze loro affidate riguardano persone in esecuzione penale che siano sottoposte a regole e condizioni restrittive della libertà personale, anche quando la pena è scontata in modi differenti dalla reclusione.
Ed è proprio questa la grande novità proposta dalla legge del 75: in quella sede sono state previste sanzioni alternative alla detenzione che costituiscono un modo nuovo di concepire l’esecuzione della pena: infatti la sua esecuzione si sposta da un modello esclusivamente carcerario – anche se riformato - ad un modello non carcerario, seguendo modelli operativi centrati sulla volontà di recupero e di collaborazione del condannato, seguito nel suo ambiente di vita e sostenuto dall’ aiuto determinante del servizio sociale.
E’ infatti più facile ammettere l’evidenza dei vantaggi materiali che possono essere ricondotti al buon andamento delle misure alternative, piuttosto che riconoscere il cambiamento di approccio introdotto dal legislatore nell’esecuzione penale ed il ruolo portante affidato in esso alla metodologia del servizio sociale.
La scelta di costituire un ruolo di servizio sociale , prevedendo per esso sedi diffuse sul territorio nazionale, con carattere di autonomia rispetto agli istituti penitenziari assume un significato particolare.
Il legislatore ha voluto sottolineare il carattere alternativo che tali strutture dovevano presentare in rapporto al carcere, sia sul piano culturale che operativo; sul piano culturale
stabilendo che la loro organizzazione dovesse avere come riferimento l’integrazione con il territorio e il radicamento su quelle stesse realtà locali che il servizio era chiamato ad interpretare; sul piano operativo, favorendo lo sviluppo di logiche gestionali diverse da quelle comuni alle istituzioni totali o ad altre strutture tradizionali ed il cui tratto determinante fosse costituito dalla monoprofessionalità del centro, concepito come struttura propria di servizio sociale.
Sostenere l’opportunità che il Centro fosse concepito come struttura monoprofessionale di servizio sociale non significava, ovviamente, negare l’esigenza di una stretta collaborazione degli assistenti sociali con le altre professionalità operanti nel settore, ma voleva invece solo affermare la tipicità dell’approccio nel progetto di una esecuzione penale alternativa al carcere che puntasse alla massima valorizzazione delle componenti di responsabilizzazione dell’utente, di sostegno delle sue capacità di autodeterminazione. Dovrebbe dunque risultare ben chiaro che il trattamento esterno in alternativa al trattamento intramurale non si distingue per il fatto che in esso gli operatori penitenziari si muovono come in “un carcere senza sbarre”, continuando a mutuare dalla cultura e dal sistema operativo del carcere i criteri ed i riferimenti tecnici che orientano l’azione penitenziaria, ma si distingue per il deciso cambio di approccio culturale ed operativo realizzato con le misure alternative, ove i principi su cui è fondata l’azione di servizio sociale risultano più di ogni altro pertinenti al tipo di intervento che si intende promuovere per i soggetti trattati in libertà.
L’altra grande novità è stata quella di aver preposto alla direzione dei CSSA personale appartenente alla stessa professionalità di quello che svolge attività diretta con gli utenti.
Essa si basava sulla consapevolezza che fosse possibile raggiungere migliori risultati attraverso la conoscenza delle strutture degli enti di riferimento e quindi un inserimento in essi più funzionale, tramite la visione più ampia rispetto ai singoli utenti, e quindi con la possibilità di ricerca di soluzioni opportune ai diversi livelli operativi.
L’apertura dei Centri pertanto poneva sullo stesso piano direttori di istituto e direttore di centro, per i quali si sarebbe dovuto espletare un concorso ma che – in quel momento storico- erano gli assistenti sociali, che nell’espletamento di quella funzione, venivano chiamati reggenti. Questi fino ad allora erano stati in posizione di fatto subordinata ai direttori di istituto e non avevano, sotto il profilo formale, il necessario potere contrattuale per avviare delle equilibrate procedure di rapporto. Non è da sottovalutare la circostanza che esisteva dipendenza economica dal carcere, delegato alla gestione contabile dei centri.
I primi centri sono entrati in funzione il 15 luglio 1976 e sono stati ubicati, in via provvisoria preso altri Uffici dell’Amministrazione ed hanno preso avvio senza l’assegnazione di personale esecutivo per l’adempimento delle esigenze essenziali. A distanza di trent’anni la situazione è rimasta sostanzialmente immutata: si pensi che la legge Simeoni Saraceni prevedeva l’assunzione di 600 operatori dell’Area B che sono stati assunti ma – secondo noi - non sono mai arrivati ai Centri.
A livello centrale, invece, si è passati da una sezione all’interno dell’Ufficio che si occupava di trattamento, allora Ufficio VII, alla Divisione nell’ambito dell’Ufficio detenuti, ed infine alla Direzione Generale, nella considerazione dell’aumentato “ volume d’affari” che hanno portato i sottoposti alle misure alternative a 60.000 circa.
Poche cose sono cambiate in periferia :
Dal punto di vista strutturale i Centri sono diventati indipendenti dal carcere, ma non sempre fruiscono di strutture adeguate,
Il personale di servizio sociale carente al nord, è appena sufficiente al sud,
Il personale di supporto è assolutamente in numero inadeguato, e spesso si è ricorsi al personale di polizia. Troppo spesso questo personale risultava problematico perché o affetto da patologie, era stato fatto transitare al ruolo civile, o semplicemente perché di difficile gestione era stato assegnato in un posto in cui non potesse nuocere. C’è da dire che alcuni di essi sono molto bravi, ma si tratta dell’eccezione che conferma la regola.
Gli strumenti forniti non sempre sono adeguati ed all’altezza. Un Direttore di Centro ha riferito che la sua struttura avrebbe fatto ricorso al finanziamento della Cassa delle Ammende per acquistare P.C.
Le automobili sono assolutamente insufficienti e troppo spesso viene non solo tollerato, ma anche sollecitato l’uso del mezzo proprio. Tale pratica è assolutamente illegittima, ma viene favorita a causa della carenza dei mezzi di locomozione e per rispondere alla necessità di effettuare visite domiciliari, controlli ….
In tutto questo la frustrazione dei direttori di Servizio Sociale è stata enorme perché si vedevano sminuiti nell’esercizio delle loro funzioni, dal punto di vista formale e del riconoscimento del ruolo. E questo non solo sul territorio, ma anche e soprattutto da parte dell’Amministrazione, che negava loro i riconoscimenti formali dei direttori di istituto. E’ nata così una pesante contrapposizione con chi, al centro, non riconosceva le loro istanze e non faceva nulla perché esse venissero accolte, mentre invece sosteneva gli assistenti sociali, perché portatori della mission professionale più dei direttori. D’altro canto al Dipartimento il drappello di dirigenti era tutto teso all’affermazione del ruolo in quanto tale e non era in grado di recepire dette istanze, anche perché non viveva sulla propria pelle la disconferma del proprio ruolo professionale.
C’è stata quindi una radicalizzazione dello scontro, mai avvenuto apertamente ma avvenuto sul filo di tante piccole battaglie culturali.
In questa querelle i Direttori hanno teorizzato “il carcere senza sbarre” buttando a mare
l’esperienza fino a quel momento fatta, ed in nome di questo slogan si sono messi all’inseguimento dei direttori di carcere per la conquista delle “insegne” del potere.
Quali erano questa insegne? Sicuramente la gestione degli uomini della Polizia Penitenziaria, sicuramente la gestione dell’équipe con tanti professionisti. Per questo hanno inventato la multiprofessionalità, sicuramente una gestione del personale dove prevalessero i “no “al singolo in quanto esercizio di un potere, piuttosto che realizzare una efficace promozione del servizio.
Tutto ciò ha portato nei centri ad una radicalizzazione dello scontro perché gli assistenti sociali – sui quali invece la dirigenza ministeriale aveva puntato per neutralizzare i direttori, hanno continuato a non essere d’accordo su quelle posizioni, ma soprattutto hanno contestato alla rinuncia –di fatto - del mandato di servizio sociale.
La presenza di un magistrato alla Direzione Generale dell’Esecuzione Penale esterna avrebbe potuto svolgere quel ruolo di garanzia non degli Assistenti Sociali, né dei Direttori, ma delle misure alternative. L’affermazione e la difesa delle misure alternative avrebbe potuto avere la funzione di unire le componenti e finalmente dare slancio a questa parte dell’Amministrazione penitenziaria con rinnovato slancio. Ma non si poteva pretender alcunché da un personaggio che è passato dalle stanze delle segreterie dei parlamentari della destra, che ha visitato i centri, ma non ha raccolto le istanze di nessuno, al quale le OOSS hanno sottoposto situazioni problematiche, e non ha fatto nulla per risolverle, facendone ricadere le responsabilità unicamente sull’Ufficio del personale. In realtà non gli importa nulla delle misure alternative, ma va alla ricerca anch’egli dei simboli del ”potere carcerario”, quegli stessi simboli che , per le misure alternative avrebbe dovuto abbandonare, in virtù delle diversità sostanziali e di approccio di queste ultime realtà, dove i simboli del potere devono necessariamente essere altri dal carcere, perché carcere non è.
Infatti chi si occupa di misure alternative avrebbe il dovere di sollecitare la collaborazione con i territori , anziché cercare l’autarchia: L’affidato che deve essere seguito dallo psicologo, è molto più significativo che venga seguito dallo psicologo del territorio, che non da quello del Centro, perché la sua permanenza è limitata e il collegamento deve essere con i servizi territoriali, quando non sarà più sottoposto a misure restrittive della libertà personale.
E per avere gli psicologi invece sono stati utilizzati gli stanziamenti della cassa delle ammende, con un progetto che li prevedeva a sostegno dell’inserimento lavorativo dei detenuti – compito peraltro previsto e demandato agli Assistenti Sociali. Ci domandiamo quanti detenuti siano stati inseriti se , dopo l’indulto, per trovare a questi operatori una occupazione, qualche direttore li ha incaricati di lavorare sul gruppo degli assistenti sociali.
In questo contesto si colloca la proposta del ministro di utilizzare la polizia penitenziaria negli UEPE. Così ora si chiamano i centri dopo la legge cd Meduri 154/05.
Va, per dovere di cronaca, riferito che con detta legge tutti direttori di CSSA – ora UEPE –
sono diventati , al pari dei loro colleghi direttori di Istituto, tutti dirigenti “ope legis” . I CSSA sono diventati Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna (UEPE). Il Direttore Generale per l’Esecuzione Penale esterna è diventato Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria, rinunciando al ruolo di magistrato, e per questo potrebbe anche diventare uno dei tanti provveditori regionali…..
Il cambio di denominazione ha scatenato gli appetiti della Polizia penitenziaria, che è all’affannosa ricerca di posti fuori dal carcere. In realtà vengono presentati come appetibili tutte quelle funzioni che esulano dal trattamento del detenuto perché nessuna attività formativa ha insegnato loro che il compito più alto loro assegnato è quello che discende dall’attuazione dell’art. 27 della costituzione, mentre sono per loro significativi tutti gli incarichi “altri” dal carcere, incarichi che peraltro si ottengono a suon di raccomandazioni. In questo si innesta la politica del ministro che ha depauperato le regioni del nord a scapito del suo bacino elettorale, ed al quale fanno gola i voti degli oltre 40.000 poliziotti penitenziari. E’ di tutta evidenza che tale politica porta allo scontento dei poliziotti, sui quali grava l’onere degli istituti e graverà ancora di più nella misura in cui verranno ulteriormente sottratte unità di personale. Già ora la scusa per non fare attività in carcere è la carenza numerica della polizia penitenziaria, quasi che i detenuti siano il corollario necessario per il lavoro dei poliziotti, e non esattamente il contrario: che il carcere deve assolvere alla funzione rieducativa per i detenuti, dove i poliziotti hanno un ruolo importante nell’ adempimento di detta funzione.
l’esperienza fino a quel momento fatta, ed in nome di questo slogan si sono messi all’inseguimento dei direttori di carcere per la conquista delle “insegne” del potere.
Quali erano questa insegne? Sicuramente la gestione degli uomini della Polizia Penitenziaria, sicuramente la gestione dell’équipe con tanti professionisti. Per questo hanno inventato la multiprofessionalità, sicuramente una gestione del personale dove prevalessero i “no “al singolo in quanto esercizio di un potere, piuttosto che realizzare una efficace promozione del servizio.
Tutto ciò ha portato nei centri ad una radicalizzazione dello scontro perché gli assistenti sociali – sui quali invece la dirigenza ministeriale aveva puntato per neutralizzare i direttori, hanno continuato a non essere d’accordo su quelle posizioni, ma soprattutto hanno contestato alla rinuncia –di fatto - del mandato di servizio sociale.
La presenza di un magistrato alla Direzione Generale dell’Esecuzione Penale esterna avrebbe potuto svolgere quel ruolo di garanzia non degli Assistenti Sociali, né dei Direttori, ma delle misure alternative. L’affermazione e la difesa delle misure alternative avrebbe potuto avere la funzione di unire le componenti e finalmente dare slancio a questa parte dell’Amministrazione penitenziaria con rinnovato slancio. Ma non si poteva pretender alcunché da un personaggio che è passato dalle stanze delle segreterie dei parlamentari della destra, che ha visitato i centri, ma non ha raccolto le istanze di nessuno, al quale le OOSS hanno sottoposto situazioni problematiche, e non ha fatto nulla per risolverle, facendone ricadere le responsabilità unicamente sull’Ufficio del personale. In realtà non gli importa nulla delle misure alternative, ma va alla ricerca anch’egli dei simboli del ”potere carcerario”, quegli stessi simboli che , per le misure alternative avrebbe dovuto abbandonare, in virtù delle diversità sostanziali e di approccio di queste ultime realtà, dove i simboli del potere devono necessariamente essere altri dal carcere, perché carcere non è.
Infatti chi si occupa di misure alternative avrebbe il dovere di sollecitare la collaborazione con i territori , anziché cercare l’autarchia: L’affidato che deve essere seguito dallo psicologo, è molto più significativo che venga seguito dallo psicologo del territorio, che non da quello del Centro, perché la sua permanenza è limitata e il collegamento deve essere con i servizi territoriali, quando non sarà più sottoposto a misure restrittive della libertà personale.
E per avere gli psicologi invece sono stati utilizzati gli stanziamenti della cassa delle ammende, con un progetto che li prevedeva a sostegno dell’inserimento lavorativo dei detenuti – compito peraltro previsto e demandato agli Assistenti Sociali. Ci domandiamo quanti detenuti siano stati inseriti se , dopo l’indulto, per trovare a questi operatori una occupazione, qualche direttore li ha incaricati di lavorare sul gruppo degli assistenti sociali.
In questo contesto si colloca la proposta del ministro di utilizzare la polizia penitenziaria negli UEPE. Così ora si chiamano i centri dopo la legge cd Meduri 154/05.
Va, per dovere di cronaca, riferito che con detta legge tutti direttori di CSSA – ora UEPE –
sono diventati , al pari dei loro colleghi direttori di Istituto, tutti dirigenti “ope legis” . I CSSA sono diventati Uffici per l’Esecuzione Penale Esterna (UEPE). Il Direttore Generale per l’Esecuzione Penale esterna è diventato Dirigente Generale dell’Amministrazione Penitenziaria, rinunciando al ruolo di magistrato, e per questo potrebbe anche diventare uno dei tanti provveditori regionali…..
Il cambio di denominazione ha scatenato gli appetiti della Polizia penitenziaria, che è all’affannosa ricerca di posti fuori dal carcere. In realtà vengono presentati come appetibili tutte quelle funzioni che esulano dal trattamento del detenuto perché nessuna attività formativa ha insegnato loro che il compito più alto loro assegnato è quello che discende dall’attuazione dell’art. 27 della costituzione, mentre sono per loro significativi tutti gli incarichi “altri” dal carcere, incarichi che peraltro si ottengono a suon di raccomandazioni. In questo si innesta la politica del ministro che ha depauperato le regioni del nord a scapito del suo bacino elettorale, ed al quale fanno gola i voti degli oltre 40.000 poliziotti penitenziari. E’ di tutta evidenza che tale politica porta allo scontento dei poliziotti, sui quali grava l’onere degli istituti e graverà ancora di più nella misura in cui verranno ulteriormente sottratte unità di personale. Già ora la scusa per non fare attività in carcere è la carenza numerica della polizia penitenziaria, quasi che i detenuti siano il corollario necessario per il lavoro dei poliziotti, e non esattamente il contrario: che il carcere deve assolvere alla funzione rieducativa per i detenuti, dove i poliziotti hanno un ruolo importante nell’ adempimento di detta funzione.
Ma c’è di più: per fare presto i vertici del Dipartimento hanno deciso che basta, per dare gambe a questo progetto, un decreto interministeriale.
Questo è illegittimo, perché la legge non prevede, almeno per l’affidamento in prova al Servizio Sociale altro controllo che quello degli Assistenti sociali, ma vi sono alcuni elementi inquietanti sui quali è necessario riflettere:
Al di là dell’opportunità di dare a due figure professionali il compito del controllo, come si colloca questo controllo nel contesto UEPE? Ricordiamoci che la Polizia Penitenziaria è polizia giudiziaria che si rapporta direttamente al magistrato. Quali doveri dovrebbe avere nei confronti del direttore UEPE?
Ogni polizia che opera sul territorio ha il dovere di raccordarsi con le altre forze di polizia nei Comitati per l’ordine e la sicurezza pubblica, che prevedono – nel loro interno -figure dirigenziali, che al momento non esistono per la polizia penitenziaria. Uno scenario futuribile e possibile è quello che vede la polizia penitenziaria, una volta entrata nei comitati per l’ordine e la sicurezza, soppiantare quei funzionari dell’amministrazione penitenziaria che oggi vi fanno parte.
Gli scenari sono inquietanti e vedono comunque la polizia penitenziaria gestire l’Amministrazione, quindi è sullo sfondo lo scenario di un carcere di polizia, con tutto quello che ne consegue.
E gli operatori del trattamento?Probabilmente bisognerà trovare una loro idonea collocazione se è vero come è vero che è giusto dare alla Polizia penitenziaria le figure apicali, ma è altrettanto giusto che gli operatori non dipendano da loro.
E gli operatori del trattamento?Probabilmente bisognerà trovare una loro idonea collocazione se è vero come è vero che è giusto dare alla Polizia penitenziaria le figure apicali, ma è altrettanto giusto che gli operatori non dipendano da loro.
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