Giustizia- Fabbrica (elettorale) della paura, nuova barbarie
di Franco Giordano (Sinistra l’Arcobaleno)- Liberazione, 28 marzo 2008
È possibile, anche nel pieno della campagna elettorale e nel fuoco della contrapposizione, lanciare un appello a tutte le donne e gli uomini che un tempo si sarebbero definiti "di buona volontà" e, aggiungerei, di sana ragionevolezza?
È lecito chiedere a tutti, ai politici come agli opinionisti, di fermarsi un attimo a riflettere sui rischi che si corrono, in termini politici, etici e persino di igiene mentale collettiva, continuando a inseguire e blandire le peggiori pulsioni che circolano nell’opinione pubblica sul tema delicatissimo e nevralgico della sicurezza?
Noi non abbiamo mai affermato, nonostante l’immensa distanza che ci divide, che il programma del Pd sia identico a quello della destra berlusconiana. E tuttavia è un fatto, e forse il più preoccupante registrato in queste settimane di campagna elettorale, che sui fronti delle politiche economico-sociali e della sicurezza i discorsi di Walter Veltroni nel nord del paese non si siano distinti in nulla da quelli della Lega e del Pdl, a partire da una forsennata campagna securitaria.
Tutte le forze politiche, a eccezione della Sinistra Arcobaleno, gareggiano nel fomentare e rinfocolare una richiesta di sicurezza declinata in termini di pura militarizzazione del territorio. Accreditano una visione dell’altro da sé, sia esso il povero o l’immigrato, come potenziale minaccia, pericolo latente per definizione. Spalleggiano il miraggio, tanto diffuso quanto bugiardo; di poter lenire i morsi dell’insicurezza dilagante ricorrendo solo a un immaginario repressivo sempre più esasperato.
È un rimedio inefficace e devastante, destinato ad acuire il male che si propone di guarire. A rendere il paese, e in particolare le sue aree del nord e del nord-est, sempre più insicure. Senza una drastica sterzata culturale queste aree sono destinate a alimentarsi di un bisogno permanente e crescente di controllo sociale. Una spirale perversa e infinita. Un vicolo cieco che ci condurrà inevitabilmente in una situazione simile a quella in cui versano oggi gli Usa: un carcerato ogni cento abitanti e nessun risultato in termini di sicurezza.
L’insicurezza che grava come un’ombra cupa in particolare sui cittadini del nord non deriva da una impennata della criminalità. Non riflette un problema reale ma la presenza pervasiva di uno spettro, tanto più inquietante perché sfuggente e impalpabile: quello di un’esistenza diventata precaria a tutti i livelli, dal lavoro alla pace alla sopravvivenza stessa del pianeta.
Questa paura onnipresente e immateriale "liquida" (direbbe Baumann), diventa almeno più sopportabile se la si attribuisce a qualche minaccia tangibile come gli immigrati o gli scippatori. Il meccanismo classico della "fabbrica ella paura".
L’intera Italia vive oggi in una situazione collettiva che somiglia a quella del "Grande Fratello": si può essere esclusi dalla "casa comune" senza un motivo preciso, casualmente. L’insicurezza si afferma come vera e propria dimensione esistenziale. Una "insicurezza ontologica primaria" avrebbe detto lo psichiatra inglese Ronald Laing, che proprio in questa condizione di sofferenza esistenziale rintracciava le radici della schizofrenia.
Trasferita però a livello di massa e non più solo di singolo individuo. La feroce metafora simbolica del "Grande Fratello" illustra anche la contraddizione di fondo che rende la situazione irresolubile. Lo schema stesso di quella competizione impone infatti la rinuncia prioritaria a ogni solidarietà tra gli abitanti-vittime, la cancellazione di ogni spazio di vera e sostanziale socialità.
Viene così eliminato il solo elemento in grado di contrastare con successo il senso di solitudine, precarietà e insicurezza esistenziale: un saldo vincolo solidale e sociale. Si diffonde, di conseguenza, una sensazione di minaccia latente e indefinita. E come ci raccontano le cronache quotidiane, questa minaccia non assedia le case inutilmente blindate dall’esterno, ma penetra al loro interno.
Esplode nella proliferazione di casi traumatici di violenza e di follia o nella perenne ansia esistenziale. Non è filosofia da anime belle. Sono le nude statistiche, che registrano nelle violenze in famiglia (e nel vicinato) la principale causa di morte violenta in Italia. Questa condizione di insicurezza permanente, questa diffusione di disagio psichico, questo quadro che non è esagerato definire "dissociazione di massa" costituisce, alla lunga, una minaccia per il vivere civile, e per la democrazia stessa.
Non credo lo si possa dire meglio di come ha fatto Enzo Mazzi alcuni giorni fa: "Uno degli elementi che emergono con prepotenza nella società attuale è certamente l’insicurezza e la paura. E la paura, come si sa, ci fa regredire, ci rende bambini, ci induce a affidarci figure mitiche di salvatori, abdicando alla propria responsabilità e autonomia e svuotando la rete delle relazioni".
La sola terapia per l’insicurezza di massa, per la crisi profonda che da anni si registra nel nord del paese, è invece proprio la ricostruzione di quella rete di relazioni. Uno spazio pubblico capace di restituire per intero una dimensione di comunità in cui ricostruire il vincolo sociale smarrito. Cancellato dall’imporsi di una logica puramente competitiva, fondata sulla contrapposizione con altri territori nello scenario globale. Il nodo della sicurezza e quello della costruzione di un sistema economico-sociale diverso, a conti fatti, sono facce del medesimo prisma, non problemi distinti.
È l’imporsi di un preciso sistema produttivo diffuso nel territorio, fondato sulla massima competitività, che ha desertificato le relazioni sociali ed umane in quelle regioni. Il percorso che dobbiamo intraprendere è dunque opposto a quello del leghismo, che precisamente sull’esaltazione di quel modello produttivo, dell’identità territoriale e dell’isteria securitaria fonda da sempre le proprie fortune. Eppure in Italia un enorme problema di sicurezza esiste. Condiziona e imprigiona le energie di tanti giovani nella società meridionale.
Parlo della criminalità organizzata, che sposa la modernizzazione capitalistica ed investe in controllo del territorio e valorizzazione economica e finanziaria dei propri interessi. Parlo della violenza bestiale di cui sono tornate a essere vittime le donne, non per colpa dei "diversi", ma dei loro padri e mariti. Di una dimensione del lavoro che sempre più somiglia a un fronte bellico: nelle fabbriche e nei cantieri italiani, negli ultimi anni, sono morti più lavoratori dei soldati americani periti in Iraq.
E ancora delle devastazioni ambientali che si traducono con crescente puntualità in vere e proprie catastrofi. Sono questi i temi che una politica responsabile e interessata alla costrizione di una società alternativa mette in testa al capitolo dedicato alla sicurezza: non la costruzione di muri inutili, non una insensata militarizzazione del territorio.
Per riannodare i fili spezzati dell’intima insicurezza esistenziale occorre dunque una grande e molecolare battaglia politico-culturale. Serve una vera e propria mobilitazione democratica. Non si può inseguire la destra sul suo terreno cercando di ereditarne le parole d’ordine. È totalmente sbagliato, come si è visto, dire che il tema della sicurezza non è né di destra né di sinistra.
Per quella via non si può che finire, come hanno fatto i sindaci del Pd con la campagna contro i lavavetri, per scatenare un bestiale conflitto tra gli ultimi e i penultimi, non si può che scambiare la guerra contro la povertà per una guerra contro i poveri. Altro che problema "né di destra né di sinistra"! Al contrario, sembra oggi proprio questa la frontiera che separa la più moderna e schizofrenica tra le barbarie o un nuova civiltà fondata su relazioni umane più ricche.
È possibile, anche nel pieno della campagna elettorale e nel fuoco della contrapposizione, lanciare un appello a tutte le donne e gli uomini che un tempo si sarebbero definiti "di buona volontà" e, aggiungerei, di sana ragionevolezza?
È lecito chiedere a tutti, ai politici come agli opinionisti, di fermarsi un attimo a riflettere sui rischi che si corrono, in termini politici, etici e persino di igiene mentale collettiva, continuando a inseguire e blandire le peggiori pulsioni che circolano nell’opinione pubblica sul tema delicatissimo e nevralgico della sicurezza?
Noi non abbiamo mai affermato, nonostante l’immensa distanza che ci divide, che il programma del Pd sia identico a quello della destra berlusconiana. E tuttavia è un fatto, e forse il più preoccupante registrato in queste settimane di campagna elettorale, che sui fronti delle politiche economico-sociali e della sicurezza i discorsi di Walter Veltroni nel nord del paese non si siano distinti in nulla da quelli della Lega e del Pdl, a partire da una forsennata campagna securitaria.
Tutte le forze politiche, a eccezione della Sinistra Arcobaleno, gareggiano nel fomentare e rinfocolare una richiesta di sicurezza declinata in termini di pura militarizzazione del territorio. Accreditano una visione dell’altro da sé, sia esso il povero o l’immigrato, come potenziale minaccia, pericolo latente per definizione. Spalleggiano il miraggio, tanto diffuso quanto bugiardo; di poter lenire i morsi dell’insicurezza dilagante ricorrendo solo a un immaginario repressivo sempre più esasperato.
È un rimedio inefficace e devastante, destinato ad acuire il male che si propone di guarire. A rendere il paese, e in particolare le sue aree del nord e del nord-est, sempre più insicure. Senza una drastica sterzata culturale queste aree sono destinate a alimentarsi di un bisogno permanente e crescente di controllo sociale. Una spirale perversa e infinita. Un vicolo cieco che ci condurrà inevitabilmente in una situazione simile a quella in cui versano oggi gli Usa: un carcerato ogni cento abitanti e nessun risultato in termini di sicurezza.
L’insicurezza che grava come un’ombra cupa in particolare sui cittadini del nord non deriva da una impennata della criminalità. Non riflette un problema reale ma la presenza pervasiva di uno spettro, tanto più inquietante perché sfuggente e impalpabile: quello di un’esistenza diventata precaria a tutti i livelli, dal lavoro alla pace alla sopravvivenza stessa del pianeta.
Questa paura onnipresente e immateriale "liquida" (direbbe Baumann), diventa almeno più sopportabile se la si attribuisce a qualche minaccia tangibile come gli immigrati o gli scippatori. Il meccanismo classico della "fabbrica ella paura".
L’intera Italia vive oggi in una situazione collettiva che somiglia a quella del "Grande Fratello": si può essere esclusi dalla "casa comune" senza un motivo preciso, casualmente. L’insicurezza si afferma come vera e propria dimensione esistenziale. Una "insicurezza ontologica primaria" avrebbe detto lo psichiatra inglese Ronald Laing, che proprio in questa condizione di sofferenza esistenziale rintracciava le radici della schizofrenia.
Trasferita però a livello di massa e non più solo di singolo individuo. La feroce metafora simbolica del "Grande Fratello" illustra anche la contraddizione di fondo che rende la situazione irresolubile. Lo schema stesso di quella competizione impone infatti la rinuncia prioritaria a ogni solidarietà tra gli abitanti-vittime, la cancellazione di ogni spazio di vera e sostanziale socialità.
Viene così eliminato il solo elemento in grado di contrastare con successo il senso di solitudine, precarietà e insicurezza esistenziale: un saldo vincolo solidale e sociale. Si diffonde, di conseguenza, una sensazione di minaccia latente e indefinita. E come ci raccontano le cronache quotidiane, questa minaccia non assedia le case inutilmente blindate dall’esterno, ma penetra al loro interno.
Esplode nella proliferazione di casi traumatici di violenza e di follia o nella perenne ansia esistenziale. Non è filosofia da anime belle. Sono le nude statistiche, che registrano nelle violenze in famiglia (e nel vicinato) la principale causa di morte violenta in Italia. Questa condizione di insicurezza permanente, questa diffusione di disagio psichico, questo quadro che non è esagerato definire "dissociazione di massa" costituisce, alla lunga, una minaccia per il vivere civile, e per la democrazia stessa.
Non credo lo si possa dire meglio di come ha fatto Enzo Mazzi alcuni giorni fa: "Uno degli elementi che emergono con prepotenza nella società attuale è certamente l’insicurezza e la paura. E la paura, come si sa, ci fa regredire, ci rende bambini, ci induce a affidarci figure mitiche di salvatori, abdicando alla propria responsabilità e autonomia e svuotando la rete delle relazioni".
La sola terapia per l’insicurezza di massa, per la crisi profonda che da anni si registra nel nord del paese, è invece proprio la ricostruzione di quella rete di relazioni. Uno spazio pubblico capace di restituire per intero una dimensione di comunità in cui ricostruire il vincolo sociale smarrito. Cancellato dall’imporsi di una logica puramente competitiva, fondata sulla contrapposizione con altri territori nello scenario globale. Il nodo della sicurezza e quello della costruzione di un sistema economico-sociale diverso, a conti fatti, sono facce del medesimo prisma, non problemi distinti.
È l’imporsi di un preciso sistema produttivo diffuso nel territorio, fondato sulla massima competitività, che ha desertificato le relazioni sociali ed umane in quelle regioni. Il percorso che dobbiamo intraprendere è dunque opposto a quello del leghismo, che precisamente sull’esaltazione di quel modello produttivo, dell’identità territoriale e dell’isteria securitaria fonda da sempre le proprie fortune. Eppure in Italia un enorme problema di sicurezza esiste. Condiziona e imprigiona le energie di tanti giovani nella società meridionale.
Parlo della criminalità organizzata, che sposa la modernizzazione capitalistica ed investe in controllo del territorio e valorizzazione economica e finanziaria dei propri interessi. Parlo della violenza bestiale di cui sono tornate a essere vittime le donne, non per colpa dei "diversi", ma dei loro padri e mariti. Di una dimensione del lavoro che sempre più somiglia a un fronte bellico: nelle fabbriche e nei cantieri italiani, negli ultimi anni, sono morti più lavoratori dei soldati americani periti in Iraq.
E ancora delle devastazioni ambientali che si traducono con crescente puntualità in vere e proprie catastrofi. Sono questi i temi che una politica responsabile e interessata alla costrizione di una società alternativa mette in testa al capitolo dedicato alla sicurezza: non la costruzione di muri inutili, non una insensata militarizzazione del territorio.
Per riannodare i fili spezzati dell’intima insicurezza esistenziale occorre dunque una grande e molecolare battaglia politico-culturale. Serve una vera e propria mobilitazione democratica. Non si può inseguire la destra sul suo terreno cercando di ereditarne le parole d’ordine. È totalmente sbagliato, come si è visto, dire che il tema della sicurezza non è né di destra né di sinistra.
Per quella via non si può che finire, come hanno fatto i sindaci del Pd con la campagna contro i lavavetri, per scatenare un bestiale conflitto tra gli ultimi e i penultimi, non si può che scambiare la guerra contro la povertà per una guerra contro i poveri. Altro che problema "né di destra né di sinistra"! Al contrario, sembra oggi proprio questa la frontiera che separa la più moderna e schizofrenica tra le barbarie o un nuova civiltà fondata su relazioni umane più ricche.
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