Giustizia/Carcere: 38% detenuti è straniero, la "babele" delle carceri
di Andrea Maria Candidi (Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008)
La "Babele" delle carceri Gli stranieri sono il 38% dei detenuti, oltre 4mila dal Marocco c Quattro detenuti su dieci sono stranieri. Degli attuali 51.763 "ospiti" delle prigioni italiane,19.583 vengono dal resto del mondo: a voler essere precisi gli immigrati sono 38 su cento, con un trend che spinge velocemente verso il punto di pareggio: tanti italiani quanti stranieri presenti.
È questa l’impietosa fotografia scattata il 31 marzo scorso dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, al nostro sistema carcerario. È la fotografia di una "città" che conta provenienze da 140 Paesi dei cinque continenti; abitanti che comunicano in altrettanti idiomi e lingue. Un’autentica Babele, dove un norvegese sta a fianco di un maori e un marocchino deve spiegarsi con un uruguagio. In ambienti ristretti, gomito a gomito, condividendo non di rado spazi insufficienti per una sola persona.
Una fotografia cruda, che mette a nudo tutta la drammaticità di una situazione già definita, su queste stesse pagine (lo scorso 7 aprile), al limite del collasso. Anzi, un gradino già più in là, ineluttabilmente verso il punto di non ritorno che ha portato due anni fa ad approvare la legge sull’indulto con il solo scopo di svuotare le celle e che ha invece raggiunto l’unico obiettivo di aumentare il senso di insicurezza dei cittadini.
Complice anche la ruggine che inceppa i meccanismi della giustizia penale. Basti ricordare che per l’Istat - statistiche sull’andamento annuale dei fenomeni criminali - a fronte di 100 denunce presentate le condanne comminate sono solo otto. E mentre ci si chiede dove siano finiti gli altri 92 reati, nelle carceri si torna al punto di partenza: solo negli ultimi tre mesi l’incremento del numero dei detenuti è stato del 6.3% (del 32%, invece, rispetto alla fine dei 2006).
Quest’ultimo censimento penitenziario, dunque, testimonia ancora una volta come il tasso di sovraffollamento continui a crescere, avendo abbandonato ormai da un pezzo la normalità, e viaggiando invece sulla soglia dei 120 detenuti per 100 posti disponibili. A farla da "padroni" in questi angusti spazi, oltre naturalmente ai connazionali, ci sono i marocchini, con un contingente di 4.199 unità (praticamente un quinto del totale degli stranieri detenuti), in compagnia di romeni (a quota 2.738) e albanesi (2.380). Una Babilonia nella quale puoi trovare persone provenienti dagli angoli più sperduti del pianeta, addirittura uno dalle Seychelles.
Difficile immaginare quale "forza" lo abbia spinto fin qui. Vero è che tale eterogeneità non sembra distinguere solo i nostri penitenziari: l’analisi del fenomeno negli altri Paesi europei mostra infatti come, tutto sommato, l’Italia non sia una mosca bianca, sebbene Francia, Germania e Regno Unito siano ben al di sotto delle nostre medie.
Un’altra immagine, ancor meno consolante per un Paese civile, emerge dalla composizione della popolazione carceraria in base alla "posizione giuridica": solo il 40 per cento si trova "dentro" per aver subito una condanna definitiva. Il resto è in attesa, in una sorta di limbo, parcheggiato. Avendo ormai scambiato, con allarmante leggerezza, la carcerazione preventiva per un anticipo di pena.
Qui, peraltro, la differenza di nazionalità gioca un ruolo determinante. Scorporando infatti i detenuti nelle due grandi famiglie degli italiani e degli stranieri, le disparità sono ancora più marcate. Nel primo caso i rinchiusi in attesa di sentenza definitiva sono il 49 per cento; nel caso degli stranieri, invece, la percentuale sale fino al 68.2%. Più di due detenuti di altra nazionalità su tre sono quindi in attesa della parola conclusiva sulla propria sorte processuale. E spesso non c’è stata neanche la sentenza di primo grado. Troppo spesso: 31 volte su 100 complessivamente, a prescindere dal Paese di origine. Questi dati possono forse non sorprendere gli addetti ai lavori, perché di spiegazioni tecniche ce ne saranno pure. E più d’una. Ma è singolare che sei volte su dieci, quando si parla di qualcuno rinchiuso in carcere, nessuno sia in grado di dire se effettivamente è "giusto" che sia così. E in modo definitivo.
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