L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

sabato 26 aprile 2008

Giustizia/Sicurezza- La paura diventa paranoia, la politica diventa polizia

di Anna Simone- Liberazione, 26 aprile 2008

Da dove nasce l’idea del braccialetto antistupro di Rutelli? Dalla paura. Che non si scatena sui problemi reali (sono insicuri il lavoro, il reddito, la casa, la coppia), o sui pericoli veri, ma sulla "percezione del rischio". Molti abitanti di quartieri frequentati da migranti si sentono insicuri pur non avendo mai patito sulla propria pelle crimine alcuno. È la fabbrica diffusa del razzismo. Che ha bisogno della "tolleranza zero".
Non è stato solo il clima pre-elettorale romano a far scatenare l’idea perversa del braccialetto elettronico anti-stupro all’aspirante sindaco Rutelli. Piero Sansonetti ha fatto bene a parlarne sulle colonne di questo giornale domenica scorsa ricordando a tutti noi i dati delle violenze che, come ormai tutti sappiamo, si consumano prevalentemente tra le mura domestiche (solo il 6,2 % delle violenze denunciate avvengono per strada).
Il quid in più da aggiungere, però, concerne due elementi ormai imprescindibili dalla retorica sulla sicurezza: la paura che diventa paranoia pubblica e privata, la crisi del lessico politico-giuridico ovverosia la crisi della politica e del diritto così come li abbiamo conosciuti sino ad un trentennio fa. La paura è un sentimento e quindi, di conseguenza, non può che essere irrazionale. Irrazionale e incancellabile dal momento che non esistono esseri umani e animali che non hanno mai paura.
Tutte le società assolutiste e monarchiche sono state attraversate dalla paura - così come dimostra la letteratura filosofico politica, da Grozio a Hobbes, da Machiavelli a Locke - ma è solo a partire da un trentennio, in pieno repubblicanesimo, che essa diventa paranoia, ossessione, paura percepita e non reale, paura della paura. Perché? La sicurezza, sino a quando è esistito il patto keynesiano, era il semplice contrario dell’insicurezza sociale.
I fautori del lavorismo ci hanno detto per anni (e talvolta continuano ossessivamente a dircelo nonostante il radicale mutamento dei sistemi di produzione) che per sentirsi "sicuri" bastava avere una casa, un lavoro, talvolta un marito. Oggi, però, di lavoro si muore perché non c’è "sicurezza", nelle case si diventa paranoici perché c’è sempre l’ipotesi di un "ladro rom" appollaiato e in agguato dietro le nostre porte e finestre, mentre talvolta si muore sotto l’ascia di un marito italiano, di un padre o di un compagno, così come accade a moltissime donne ogni giorno della settimana. Eppure la retorica politica continua a non intervenire su questo, ma solo sul capro espiatorio che puta caso è sempre un immigrato.
All’indomani dell’omicidio di Giovanna Reggiani, Veltroni propose la cacciata dei rom e dei rumeni insieme dal territorio italiano. Oggi Alemanno propone le stesse medesime cose proposte allora da Veltroni mentre Rutelli, per distinguersi dal suo contendente "fascista", ci dice che è meglio dotare di un piccolo gioiello dell’elettronica tutte le donne italiane e della capitale in particolare (magari incastonandolo di finti diamanti che raffigurano la Lupa).
Cosa sta succedendo? Come mai tanta schizofrenia e confusione sotto al cielo? Quali sono gli anelli mancanti di questo trentennio che hanno trasformato il vuoto di senso della politica contemporanea in un problema di "ordine pubblico", di sicurezza bipartisan? Come si è trasformato il controllo sociale? Come viene definita oggi la "pericolosità sociale"? Perché la logica dei decreti d’emergenza e i programmi di prevenzione hanno sostituito i diritti di libertà, compresi quelli della libertà femminile, conquistati dopo secoli e secoli di lotte?

La crisi dello stato sociale, come tutti sappiamo, ha invalidato l’alfabeto dei diritti conquistati per il tramite dei conflitti sociali ma ha, contemporaneamente, aperto la strada alle politiche neoliberali. Queste non reggono l’impatto violento della mano invisibile dell’economia globalizzata e producono pauperismo, disperazione, incapacità di progetto, impossibilità di arrivare a fine mese per la gran parte degli individui.
Ma produce anche innumerevoli vite di scarto che non hanno mai voluto uniformarsi alla disciplina che richiede qualsivoglia sistema di welfare basato sul lavoro e non sulla possibilità di accesso ad un reddito minimo di esistenza. E il reddito - almeno per quel che mi concerne - non lo si chiede perché si è fannulloni, ma solo perché si presume che scegliere il lavoro che si desidera svolgere senza necessariamente finire in un call center (anche se con un contratto a tempo indeterminato) debba essere appunto una libera scelta e non una costrizione sadica dei sistemi di produzione contemporanei.
Una siffatta situazione, si sa, non può che istigare al conflitto, alla messa in discussione dell’ordine costituito. Ciò che le politiche neoliberali producono non può che rivolgersi contro di loro. Di qui la paranoia sicuritaria anche quando il rischio è solo tale e non costituisce un pericolo reale. Il rischio, infatti, è una probabilità. Il pericolo è un dato di fatto. Eppure il rischio che ormai si calcola attraverso formulette matematiche rintracciabili in quasi tutti i manuali di sociologia spesso viene assunto come un pericolo reale, anche quando non è affatto così.
È la fabbrica del rischio, ci ricordano Robert Castel ma anche altri autori come Wacquant, che costruisce la logica del controllo sociale e anche della "pericolosità" nelle società contemporanee. La nozione di "rischio", inoltre, legandosi alla nozione di "prevenzione" consente di modellare le condotte per addolcirle e sussumerle al sistema politico e sociale come se, appunto, vi fosse una reale ed intrinseca "pericolosità" in tutti gli esseri umani.
Lavorare sulla percezione dei rischi e non sulla pericolosità reale che genera la nostra società, quindi, equivale ad una presa di coscienza collettiva che ancora tarda a trasformarsi in parola da parte di chi ci governa (maggioranza e opposizione insieme). Perché non spiegate ai cittadini che lo stato sociale non c’è più e al suo posto c’è lo stato sicuritario e penale?
Perché non parlate di questo, della crisi del lessico politico-giuridico anziché giocare a fare i poliziotti? La politica sicuritaria dei governi neoliberali del presente restringe moltissimo il campo dei diritti individuali e collettivi, restringe le libertà di movimento e di circolazione utilizzando pratiche poliziesche e sociali di tipo "chirurgico".
In poche parole si tende ad espellere dalla società potenziali criminali e/o criminali reali come se fossero un organo malato di un corpo sano senza mai intervenire su tutto il corpo che invece non funziona per intero e da anni, si interviene sempre sugli effetti senza mettere in discussione le cause. Non esiste un’antropologia criminale innata, di tipo lombrosiano e naturalistico, esiste invece una tendenza a delinquere generata dai sistemi politici, culturali e sociali come, tra l’altro, sostengono da anni sociologi del diritto, criminologi che preferiscono studiarsi un po’ di testi foucaultiani piuttosto che frequentare il salotto forcaiolo di Bruno Vespa. La retorica sulla sicurezza ha avuto non a caso tra i suoi padri fondatori uno statunitense liberale e forcaiolo al contempo, come da copione: Rudolph Giuliani.
Le misure di zero tolerance tendono a prevenire il crimine anche quando questo non è in agguato ma, al contempo, mettono in crisi lo stesso vocabolario del diritto penale il quale oltre a generare la logica del "sorvegliare, punire, rieducare" appoggia il suo agire sui principi della giustizia garantista e sul principio dell’Habeas corpus.
Eppure Genova ci ha dimostrato che non necessariamente la polizia è un’equivalente della sicurezza basata sui principi del diritto, mentre la persecuzione dei lavavetri messa a punto da Dominici e da Cofferati ci dimostra come la politica non si può più distinguere dalla polizia, come se, appunto, tra i due sistemi di potere non vi fosse più alcuna differenza.
Eppure, sino a prova contraria, agli elettori si chiede di votare esponenti di partiti e coalizioni e non poliziotti che aspirano a diventare questori e prefetti. Ma perché la gente ha paura al punto tale da votare in massa la Lega e in buona sostanza anche il Pd che della sicurezza ha comunque fatto uno dei suoi cavalli di battaglia?
Più volte in questi giorni, anche discutendo con amiche e colleghe, mi è stato detto che "la gente ha effettivamente paura" e su questo bisogna interrogarsi, nonché dare delle risposte. Non metto in discussione che questo possa esser vero, altrimenti non mi spiegherei molte cose, ma vorrei anche che questa paura paranoica fosse reale e non solo una "percezione" di cui in molti sono intrisi e ubriachi.
E poi vorrei anche distinguere tra la percezione del pericolo reale e il "rischio" che possa accadere loro qualcosa. Molti abitanti di quartieri frequentati da migranti si sentono minacciati pur non avendo mai vissuto sulla loro pelle crimine alcuno. Questo dato reale la dice lunga su come in questi anni i mezzi di comunicazione di massa abbiano costruito il concetto stesso di "pericolosità sociale" legandolo prevalentemente agli immigrati.
Così come un tempo si faceva con gli abitanti del Sud che per forza di cose erano tutti "terroni" punto e basta. Essere puniti, esclusi e messi alla gogna per "ciò che si è" e non per "ciò che si fa", però, è un dato di fatto ancora più pericoloso della potenziale "pericolosità sociale" precofenzionata dall’ideologia del rischio perché, come dicevamo prima, ci immette in una no man’s land della politica che ha violentemente azzerato tutti i diritti di libertà favorendo la logica della "certezza della pena" senza che vi sia la "certezza del reato".
Chiediamoci pure perché l’operaio della Mirafiori vota la Lega accusando contemporaneamente la sinistra di occuparsi solo di "froci e rom", ma facciamolo dicendoci anche che la fabbrica diffusa del nostro presente non è più quella degli anni ‘70 e del movimento operaio. È la fabbrica diffusa del razzismo, di una disperazione che facilmente diventa paranoia e di una realissima "guerra fra poveri". Ma per questo ci vuole un’analisi della crisi del presente, non un’analisi della crisi di un partito che rischia di ritornare al passato. E la ragione è ovvia: il passato non c’è più.