L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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domenica 29 giugno 2008

Carcere/Giustizia: Preferire la forza della ragione alla ragione della forza

Comunicato stampa, 28 giugno 2008

Semplicistica è la tesi di chi legge nei recenti, numerosi, casi di violenza da parte di detenuti registrati nei confronti degli operatori penitenziari, innanzi tutto di polizia, la naturale conseguenza del riformarsi del sovraffollamento nelle carceri.

Certamente concentrare un numero eccessivo di persone detenute in strutture che non sono, obiettivamente, in grado di contenerle, favorisce lo scatenarsi di situazioni di criticità e di tensione, ma la causa non può essere solo e sempre quella.

In verità la sensazione, diffusa tra tutto il Personale (nessuno escluso), è che si stia progressivamente perdendo la caratterizzante attitudine professionale (mai concretamente monetizzata) di riuscire a rimanere "freddi" in situazioni calde, razionali in situazioni dove gli animi dei detenuti risultino essere tesi e concitati, di riuscire ad imporsi, preliminarmente, con la forza della ragione e della parola, facendo comprendere come non giovi a nessuno peggiorare la qualità dei rapporti umani o far precipitare le situazioni.

Il carcere è sempre stato, e continuerà ad essere, un luogo "difficile", e sicuramente il Sidipe e la Cisl, nei tavoli in cui interverranno, in tema di rinnovi contrattuali, ribadiranno tale elementare principio, affinché sia "pesato" in termini retributivi ed attraverso mezzi di protezione sociale adeguati, rimarcando le differenze: la polizia e gli operatori penitenziari stanno "in mezzo", per l’intero arco della loro giornata lavorativa, alle più diverse, e talvolta spietate, criminalità prigioniere.

Non bisogna essere sociologi per comprendere come i detenuti malvolentieri si sentano ospiti nelle patrie galere, non risultando sufficiente il subentrare della rassegnazione: in carcere anche i problemi talvolta più semplici e banali vengono vissuti come gravi ed insormontabili; il rischio ed il conflitto sono sempre in agguato.

Proprio l’esigenza di questa consapevolezza, che andrebbe particolarmente curata in sede di formazione professionale, dovrebbe spingere gli operatori penitenziari a mettere in campo la loro migliore performance, la loro capacità di non perdere il controllo delle situazioni, anche ove le stesse appaiano pronte a collassare.

I dirigenti penitenziari sono i primi testimoni a tal riguardo, in particolare quelli che hanno avuto la fortuna d’incontrare nella propria vita professionale Comandanti "mitici", Marescialli poi divenuti Ispettori e Commissari, che con uno sguardo "gelavano" quello dei mafiosi, che con poche parole, pur essendo uomini di parola, placavano gli animi irruenti e, senza mai consigliare ai Direttori l’utilizzo di alcun strumento speciale di dissuasione violenta, riportavano immediatamente l’ordine all’interno delle sezioni, non invocando l’aiuto di Prefetti o delle altre Forze di Polizia, finanche dell’Esercito.

Così come non si può dimenticare il valore e l’impegno profuso, per anni, da ispettori che svolgevano i compiti di Comandante, dove l’assenza di titoli di studio e di dottorati erano ben compensati da una esperienza viva sul campo, in trincea, e che mai si sarebbero sognati, per riportare l’ordine in un reparto detentivo, di far scendere in campo poliziotti penitenziari che usassero pistole "elettriche" o altri strumenti di nuova concezione, ben comprendendo che, in una situazione dove la consistenza numerica vede, irrimediabilmente, minoritari i poliziotti penitenziari, il rischio che quelle stesse armi possano "cambiare" di mano è un fatto concreto, al punto da sconsigliarne l’adozione.

Non è un caso, e non è una dimenticanza, se i poliziotti penitenziari all’interno delle sezioni non portano armi o altri strumenti di difesa. Se si volessero dotare gli agenti di spray immobilizzanti, ad esempio, essi andrebbero distribuiti a tutto il personale come dotazione individuale, e dovrebbe ricordarsi che un agente può trovarsi, solo con se stesso, a confrontarsi anche con 50 e più persone detenute all’interno di un cortile passeggi, di una sezione, di un’aula scolastica, di un parlatorio, di una infermeria, etc., idem ove avesse una pistola che emetta scariche elettriche, e se pure fosse in grado di utilizzare gli artifizi, senza che diventino uno strumento contro di lui, sarà poi automaticamente assolto da ogni responsabilità lì dove, facendone ricorso, un qualche detenuto riportasse conseguenze gravi sul piano fisico, tenendo conto che spesso i detenuti, quali i tossicodipendenti e tanti stranieri, possono essere portatori di malattie debilitanti o comunque non in buona salute?

L’attuale legislazione e la giurisprudenza, insieme con la c.d. "società civile", starebbero con il poliziotto penitenziario oppure contro? Altra cosa è impedire, usando le armi in dotazione da parte delle sentinelle (figure ormai rare e da collezione in diversi istituti), l’evasione di un detenuto, altro è essere costretti a ricorrere, in situazioni di forte criticità, a sfollagente e scudi, gas lacrimogeni o lance antincendio.

Ma queste sono considerazioni comuni a tutti coloro che, per davvero, operino all’interno delle carceri e non certo quelle di quanti, cerchino di affrontare le criticità illudendosi che un armamentario diverso risulterebbe risolutivo.

È la presenza di personale di polizia penitenziaria e degli altri operatori tutti che andrebbe, al contrario, esigita e maggiormente assicurata, non abbandonando quelle poche residue nelle stesse, in sezioni detentive sempre più affollate di detenuti e, contestualmente, depredate negli organici di polizia che si vorrebbe impegnare altrove, purché fuori dagli istituti penitenziari: pensate quale grande sollievo sarebbe per un giovane agente non sentirsi soli, ed avere un compagno di lavoro accanto, nei posti di servizio!

Altro che "colpi di sole", è l’ombra ed il buio che molti sembrano voler continuare a preferire in questa calda estate.

Enrico Sbriglia, Segretario Nazionale Sidipe

Marco Mammucari, Coordinatore Nazionale Penitenziario Cisl-Fps