Giustizia/Sicurezza: la società del controllo e la democrazia… inquinata
di Stefano Rodotà
La Repubblica, 1 luglio 2008
Dopo il caso dei bambini rom, esploso con la proposta di identificarli tramite i polpastrelli, ci si interroga su certe tecniche di riconoscimento che violano la dignità umana.
Così si crea una scia continua d’ogni nostro passaggio: l’aver guidato un’auto, o aperto una porta, consente di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso delle nostre impronte. Cade l’antica premessa dell’habeas corpus, l’impegno sovrano a "non metter mano" su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua fisicità.
Solo nelle apparenze le impronte digitali possono essere definite uno strumento neutrale. Hanno un forte valore simbolico: chi le raccoglie sembra quasi che si impadronisca del corpo altrui. Esprimono politiche di controllo generalizzato o fortemente aggressive verso gruppi determinati. Possono entrare in conflitto con principi costituzionali fondamentali, come il rispetto della dignità della persona e l’eguaglianza. Per questo i legislatori hanno sempre considerato con prudenza la loro raccolta, hanno cercato di ancorarla a situazioni eccezionali o comunque specifiche, testimoniando così una sorta di cattiva coscienza o una consapevolezza dei rischi di stigmatizzazione sociale legati a forme generalizzate di uso delle impronte.
I segni d’identità e le regole della loro utilizzazione hanno una lunga storia che, nell’età moderna, si lega profondamente alle esigenze d’ordine pubblico. Così è per il nome e per tutte le altre tecniche di identificazione, che hanno conosciuto una straordinaria espansione grazie alla biometria e alla genetica. Una espansione divenuta torrenziale dopo l’11 settembre. Le esigenze di lotta al terrorismo sono state dilatate al di là del ragionevole, hanno visto il congiungersi dei più diversi strumenti nel costruire una società del controllo. Così muta profondamente il rapporto tra lo Stato e le persone, cade l’antica promessa dell’habeas corpus, l’impegno sovrano a "non mettere la mano" su un corpo che oggi non possiamo intendere solo nella sua fisicità, ma nell’intera dimensione costruita dall’accumulo di tecnologie che lo segmentano, lo riducono al segno d’un polpastrello, alla scansione dell’iride, alla traccia del Dna. Il mutamento, dunque, non si ferma al rapporto con lo Stato. Cambia il modo stesso d’intendere la persona, parcellizzata e sempre disponibile per chi voglia impadronirsi dei suoi frammenti, per identificarla, controllarla, discriminarla.
È un contesto nuovo che dobbiamo considerare, dove la tecnica delle impronte digitali non è affatto poco invasiva, assolutamente sicura. Le impronte digitali creano una scia continua d’ogni nostro passaggio: l’aver guidato un’auto, aperto una porta, preso un bicchiere, letto un libro o usato un computer consentono di ricostruire le nostre mosse a chiunque sia in possesso della nostra impronta. Non è così se si adotta un altro criterio di identificazione come la scansione dell’iride: non lasciamo tracce quando guardiamo un oggetto, leggiamo un giornale. Apparentemente meno invasiva, la raccolta delle impronte produce una cascata di effetti sociali che mettono la persona nelle mani di una serie di possibili controllori.
È una tecnica sicura alla quale ricorrere, ad esempio, per sostituire il codice segreto per accedere a un bancomat, evitando così i rischi del furto di identità? No. Se qualcuno "ruba" il mio codice segreto, posso sempre sostituirlo con uno nuovo e continuare così a utilizzare il bancomat. Ma se il furto riguarda l’impronta digitale, poiché questa non è sostituibile, l’effetto è drammatico: sarò escluso da tutti i sistemi fondati sull’identificazione attraverso l’impronta. Non è una ipotesi azzardata. Sappiamo ormai che le impronte sono riproducibili e falsificabili, tanto che qualche mese fa un gruppo di hacker tedeschi ha messo in circolazione con la rivista Die Datenschleuder una strisciolina di plastica dov’è riprodotta l’impronta digitale del ministro dell’Interno Wolfgang Schauble, un fanatico dei sistemi di controllo. Dunque la tecnica delle impronte digitali non solo non è sicura ma, sfidata com’è anche dalle tecnologie della falsificazione, diviene pericolosa, rendendo possibile la disseminazione delle impronte all’insaputa dell’interessato, in occasioni e luoghi che questi non ha mai frequentato.
La prudenza tecnica dovrebbe suggerire la prudenza politica, virtù perduta in molti paesi, e con particolare intensità in Italia. La tecnologia, vecchia o nuova, è ormai intesa come la via regia per la soluzione di ogni problema, abbandonando qualsiasi scrupolo e contribuendo così a deresponsabilizzare e disumanizzare l’agire politico. Si va a frugare in qualsiasi normativa, senza pudore e intelligenza interpretativa del contesto, per concludere che è legittimo ricorrere alle impronte digitali praticamente in ogni caso, con appigli labili o con l’ipocrita argomento del "bene" della persona. Tutto è ridotto a questione d’ordine pubblico, e così può cadere a proposito anche un richiamo a norme fasciste in materia di pubblica sicurezza, emanate dopo che perfino Alfredo Rocco, l’autore del codice penale del 1930, aveva preferito tacere su un punto così delicato.
Da allora non è cambiato nulla? Quanto contano la Costituzione, il valore della persona, tante volte invocato dai politici del centrodestra, pronti tuttavia a scordarsene proprio nelle situazioni in cui dovrebbe essere il primo riferimento? È inaccettabile che si confezioni un patchwork di norme scritte in varie epoche e con finalità persino contrastanti, rivolte a destinatari diversi, per dare base legale a una iniziativa che è una schedatura su base etnica. Dalla Costituzione italiana del 1948 fino alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea tutti i documenti in materia di libertà e diritti sono fermissimi nell’escludere ogni discriminazione basata sulla razza. Invece, è proprio quello che sta accadendo. La proclamata finalità di assicurare ai bambini rom il rispetto dell’obbligo scolastico, una abitazione decente, la libertà dello sfruttamento riguarda una condizione minorile che tocca drammaticamente migliaia di altri bambini. Un solo esempio. L’evasione dalla scuola dell’obbligo è dell’8 per cento su scala nazionale e arriva al 16 nelle grandi città del Sud. Isolare in questo universo soltanto i rom significa operare una selezione su base etnica, che viola l’eguaglianza e ferisce la dignità. Quando, nel 1949, si scrisse la costituzione della nuova Germania, si volle che il suo primo articolo fosse così concepito: "La dignità umana è inviolabile". Si abbandonava una tradizione che apriva le costituzioni con il riferimento alla libertà e all’eguaglianza proprio perché si voleva reagire all’aspetto del nazismo che più aveva negato l’umano, la persecuzione razziale e la riduzione delle persone a cavie per la sperimentazione.
Il principio di dignità, che dovrebbe essere la misura e il limite d’ogni intervento legislativo, viene cancellato da qualche circolare ministeriale. Questo non ferisce soltanto i rom, adulti o bambini che siano, quando li si obbliga a dare le loro impronte. Corrompe il nostro tessuto sociale e culturale. Se il governo istituisce commissari speciali per i rom e attua per questi una schedatura speciale, legittima e rafforza la stigmatizzazione che già li colpisce. L’"altro" impersona ufficialmente un pericolo, e dunque tacciano per lui le garanzie costituzionali, i principi di civiltà. Si allarga il fossato tra le persone "perbene" e tutti gli altri, proprio là dove il dialogo è l’unica via per produrre vera sicurezza ed evitare che tutti divengano barbari.
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