L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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sabato 22 novembre 2008

Giustizia: solo pene alternative sono una garanzia del riscatto


Avvenire, 22 novembre 2008

Il modo migliore per evitare che i delinquenti tornino al crimine una volta scontata la pena? Non tenerli in galera. Sì, perché il tasso di recidiva tra i condannati affidati ai servizi sociali, alle comunità terapeutiche o al lavoro esterno è meno di un terzo di quelli che invece restano in cella.

Ci ricascano due condannati su dieci, tra quelli che usufruiscono di programmi esterni. Ben sette su dieci invece gli ex carcerati che prima o poi ritornano dietro le sbarre. A certificarlo è il Dap, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria.

La proposta del ministro della Giustizia Angelino Alfano sulla messa in prova senza processo per gli incensurati ha riaperto il dibattito tra il partito del rigore e quello dell’umanizzazione. E a rivelare l’inefficacia del pugno di ferro - e la convenienza sociale oltre che economica di una giustizia più umana - è uno studio della Direzione generale esecuzione penale esterna.

Ad affermarlo è Giuseppe Capoccia, direttore dell’Ufficio studi e ricerche del Dap, al Consiglio Pastorale 2008 dei Cappellani delle carceri dedicato ai detenuti stranieri, appuntamento che ha visto l’intervento del capo del Dap Franco Ionta "I condannati a misure alternative - spiega Capoccia - hanno una recidiva di quasi il 20%, mentre tra chi la pena l’ha scontata in carcere sfiora il 70%, più del triplo".

Lo studio prende in esame gli anni tra 1998 e 2005, per verificare quanti, tra chi ha finito la pena 10 anni fa, sono tornati in galera E il dato del 20% sarebbe ancora più basso se ad alzare la media non fossero i condannati tossicomani, che hanno una recidiva più alta, pari al 40%, "comunque quasi la meta di chi fa il carcere", sottolinea Capoccia.

"Al di là di paure irrazionali, l’opinione pubblica dovrebbe capire che le forme alternative al carcere sono quelle che producono più sicurezza. È un discorso di numeri, non di filantropia". Altri Paesi l’hanno capito da tempo: se in Italia il rapporto tra condannati in carcere e quelli con pene alterative è uno a uno, in Gran Bretagna è uno a tre, circa 180 mila condannati che non stanno dietro le sbarre.

"Anche negli Usa sono milioni - spiega il direttore del Centro Studi - pur ricordando che il tasso di detenuti è di 700 ogni 100 mila abitanti, contro i 97 su 100 mila dell’Italia". Oltre alle resistenze culturali il nostro Paese ha un’altro problema legato all’altissimo numero di detenuti stranieri, che più difficilmente possono usufruire di forme alternative.

La media nazionale parla del 38% di detenuti stranieri, ma nel Centro-Nord i dati sono molto più alti: Roma circa 41%, Firenze 60%, Milano quasi 63%, Padova 82%. "Sono tanti perché l’accesso ai benefici e alle misure alternative è nettamente inferiore, i programmi di uscita e reinserimento prevedono un nucleo familiare".

Che gli stranieri raramente hanno. Quando poi la possibilità c’è, non viene utilizzata. Lo dice don Agostino Zenere, cappellano al S. Pio: "A Vicenza ci sono due strutture per le pene alternative dei detenuti ma restano vuote perché la magistratura di sorveglianza fatica a crederci, non vuole guai, è pressata dall’opinione pubblica e dalla politica. C’è un territorio e un terzo settore pronto, ma i magistrati si sentono condizionati".