17 maggio 2014 entra in vigore la messa alla prova per gli adulti
Articolo di Carlo Alberto Zaina
5 maggio 2014 17:28
1. PREMESSA
Sotto le specie (e la rubrica) di una apparente esclusiva delega legislativa al Governo, la Legge n. 67 del 28 aprile 2014, in GU n. 100 del 2 maggio 2014, interviene, invece, (e soprattutto), introducendo nella sua seconda parte l’istituto di diritto sostanziale della messa alla prova, con la previsione e l’inserimento nel codice penale degli artt. 168 bis, 168 ter e 168 quater, nonchè corredando la genesi normativa con disposizioni processuali che sono ricomprese dal nuovo Titolo V bis (del codice di rito) e che sono previste agli artt. 464 bis, 464 ter, 464 quater, 464 quinquies, 464 sexies, 464 septies, 464 octies e 464 novies.
L’istituto in esame può essere fatto rientrare, a pieno titolo, nella cause di estinzione del reato (come si ricava inequivocabilmente dal tenore del comma 2 dell’art. 168 ter, laddove la norma si riferisce agli effetti dell’esito positivo della prova).
Tale caratteristica, però, non esclude l’applicazione di eventuali sanzioni amministrative accessorie.
2. CONDIZIONI DI ACCESSO ALLA MESSA ALLA PROVA
E DIFFERENZA DA ALTRE FORMULE ANALOGAMENTE GIA’ ADOTTATE.
Risultano, poi, di tutta evidenza due ulteriori connotati che caratterizzano la messa alla prova.
Da un lato, emerge lo spirito ed il fine di forte deflazione procedimentale che ispira la introduzione nel codice di diritto sostanziale di questa forma di definizione alternativa del processo.
Dall’altro si evidenzia la limitata offensività delle situazioni processuali in cui l’istituto può trovare concreta applicazione.
Quest’ultima costituisce uno degli aspetti che differenzia sensibilmente la messa alla prova, ad esempio, dall’istituto previsto dall’art. 28 del dpr 22 settembre 1988 n. 448 in materia di processo minorile.
La messa alla prova minorile, infatti, non soffre alcun tipo di limite (connesso con la gravità del reato commesso od alla personalità dell’imputato) alla possibilità di accesso del minore.
Appare, in re ipsa, infatti, pacifico il marcato duplice scopo perseguito dall’art. 28, che è, al contempo, di recupero personale e di futura prevenzione sociale della misura, finalizzata a favorire ed a soddisfare – senza esclusioni di sorta, né oggettive, né soggettive – le esigenze di reinserimento del reo.
Dunque, ben differenti qualitativamente e quantitativamente risultano sia la progettualità globale, che la tipologia delle prestazioni - improntate al ravvedimento – dei due istituti, ma anche una prospettiva di fondo radicalmente diversa, posto che la messa alla prova di cui alla L. 67/2014 appare ispirata ad una precisa filosofia che si articola in due direzioni.
In primo luogo si orienta verso l’individuazione di strumenti di decongestionamento del processo penale nella sua fase decisoria di primo grado, in relazione a reati di non elevato allarme sociale.
In secondo luogo verso una riforma del sistema sanzionatorio, al fine di prevenire inutili accessi in carcere di persone condannate per reati di contenuto e modesto allarme sociale, nei confronti delle quali il debito penale può essere positivamente estinto con misure contenitive di carattere alternativo alla detenzione1.
L’art. 168 bis cpp al comma 1 prevede, quindi, tre categorie di situazioni procedimentali che possano permettere il ricorso all’opzione preventiva ed alternativa al processo.
In primo luogo, vengono richiamati i reati puniti con pena pecuniaria.
Indi quelli con pena non superiore a 4 anni (sola, congiunta o alternativa a quella detentiva).
Da ultimi quei reati tassativamente indicati nel disposto dell’art. 550/2° cpp in tema di citazione diretta a giudizio.
Con riferimento al limite di pena di quattro anni, assunto da legislatore, vanno svolte, poi, alcune considerazioni.
Da un lato, si osserva che il limite sanzionatorio, massimo ed astratto, appare comune a quello che, recentemente stabilito dall’art. 3 lett. c) del DL 146/13 conv. nella L. 10/2014, costituisce presupposto per l’ammissione all’affidamento in prova al servizio sociale – art. 47 comma 3 bis L. 75/354 -2.
Le analogie, però, finiscono qui.
Appare, infatti, del tutto evidente che, a differenza dell’affidamento, che interviene nella fase dell’esecuzione della pena passata in giudicato, la messa alla prova costituisce istituto di diritto sostanziale, inserito radicalmente nel contesto del procedimento di cognizione penale, quale strumento per evitare – una tantum (concedibile, infatti, una volta sola comma 4° dell’art. 168 bis) - la celebrazione di un giudizio che possa portare ineluttabilmente alla condanna dell’imputato.
Tale caratteristica viene puntualmente confermata dal tenore dell’art. 464 bis cpp che, al comma 2° stabilisce termini perentori per la richiesta – scritta e corredata dal programma di trattamento UEPE (comma 4°), presentabile personalmente od a mezzo procuratore speciale (comma 3°) –.
Essi sono quelli delle conclusioni ex artt. 421 e 422 cpp nell’udienza preliminare, dell’apertura del dibattimento sia nel giudizio di primo grado, che in quello direttissimo, sia in quello a citazione diretta, dei 15 giorni in presenza di giudizio immediato e con l’atto di opposizione nel giudizio per decreto penale.
Essenza della messa alla prova introdotta dall’art. 168 bis cp è, quindi, il suo carattere di strumento di composizione preventiva e pre-giudiziale del conflitto penale, insorto con la formulazione dell'accusa verso l’imputato o con l’inizio dell’indagine da parte del PM. A carico del cittadino
Essa differisce, poi, sostanzialmente dall'istituto declinato dal comma 9 bis dell'art. 186 cds.
Quest’ultimo, – onde addivenire all’eventuale successiva e finale estinzione del reato - presuppone, infatti, il passaggio necessario attraverso l'inflizione all’imputato di una condanna, la quale viene convertita nella forma alternativa di espiazione, data dai lavori socialmente utili (“..la pena detentiva e pecuniaria può essere sostituita, anche con il decreto penale di condanna, se non vi è opposizione da parte dell'imputato, con quella del lavoro di pubblica utilità di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274…”).
Dunque, per l’applicazione della previsione contenuta nel comma 9 bis dell’art. 186 CdS3, si impone ineludibilmente l’accertamento della responsabilità dell’imputato, tramite la celebrazione del giudizio in forma dibattimentale, oppure con lo svolgimento del rito abbreviato, o, comunque, la sua definizione con l’adozione dell’applicazione di pena ex art. 444 c.p.p. .
Al positivo esito del lavoro di pubblica utilità, si verifica, pertanto, l'effetto estintivo del reato.
Va rilevato, inoltre, che l’effettiva operatività specifica del ricordato co. 9 bis, notoriamente, produce un effetto indotto sulla sanzione amministrativa (sospensione della patente di guida), che viene, con sentenza emessa dal giudice procedente in un udienza ad hoc, ridotta della metà (il giudice fissa una nuova udienza e dichiara estinto il reato, dispone la riduzione alla metà della sanzione della sospensione della patente e revoca la confisca del veicolo sequestrato).
Considerazioni non dissimili – da quelle svolte per l’art. 186 comma 9 bis CdS - si possono formulare a seguito di un esame in parallelo con l’abrogato comma 5 bis dell’art. 734 dpr 309/90 che, introdotto dal DL 272/2005 – dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 32 -.
Per vero, tale norma poggiava su una diversa definizione dei criteri di accesso alal misura alternativa.
Essa, infatti, si rivolgeva specificamente alla platea degli assuntori o dei tossicodipendenti, che fossero stati condannati sia per il reato di cui al comma 5° dell’art. 73, che – a mente del comma 5 ter – per reati diversi da quelli di cui al comma 5, per i quali sia inflitta una pena non superiore ad un anno di detenzione.
Medesimo, quindi, era l’iter di accesso, che presupponeva la pronunzia di una sentenza di condanna a pena detentiva, posto che si è in presenza della previsione di un meccanismo di conversione della sanzione, che, in quanto tale (a totale differenza della messa in prova) interveniva – a fortiori - solo ex post .
3. IPOTESI DI DUBBIO.
Tornando all’istituto in esame, la tassatività delle previsioni sussunte nel disposto del comma 1° dell’art. 168 bis cp, unita alla considerazione che la richiesta debba essere avanzata – a pena di inammissibilità - in una fase del tutto preliminare al giudizio induce, però, a ritenere che possano insorgere dei problemi applicativi.
Quid iuris, se la contestazione di reato mossa verso l’imputato, appaia giuridicamente ed erroneamente di maggiore gravità di quella che, invece, avrebbe dovuto, in tutta evidenza, formare oggetto di processo, e, dunque, risulti – a differenza di quella meno grave e indubbiamente pertinente - preclusiva dell’accesso alla messa alla prova.
Un esempio concreto può rendere assai facile la comprensione del problema.
Una persona cede ad altri una dose di sostanza stupefacente del tipo marjiuana e viene colto all’atto di detenerne qualcun'altra.
All’indagato viene contestato impropriamente, in luogo, del reato previsto dal comma 5° dell’art. 73 dpr 309/90 (che prevede una pena della reclusione da 6 mesi a 4 anni oltre multa), il reato di cui ai commi 1 e 4 (che, invece, stabilisce la reclusione da 2 a 6 anni oltre alla multa).
L’imputato, ove non si adotti il rito direttissimo, dopo lo svolgimento delle indagini preliminari, viene tratto a giudizio innanzi al Giudice per l’udienza preliminare.
In tale sede, se egli, od il suo difensore, avanza la richiesta di messa alla prova.
E’ di tutta evidenza che la sua istanza verrà dichiarata inammissibile per difetto dei requisiti essenziali – in base all’imputazione che eccede quoad poenam il limite dell’art. 168 bis comma 1 –.
La situazione che, così, si viene a creare penalizza, però gravemente ed irreparabilmente l’imputato, che a seguito del giudizio potrebbe vedere, invece, riconosciuta – senza necessità di specifica istruzione probatoria – la ricorrenza dell’ipotesi di pena più favorevole.
L’imputato patisce, quindi, una scelta del PM, la quale può subire una palese sconfessione da parte del giudice, non già sulla base di un giudizio reso sulla base della raccolta di prove (attività che presuppone la celebrazione del processo), quanto piuttosto solo sulla scorta di una valutazione in punto di diritto, quale appare sovente, per esperienza forense, quella di sussumere un fatto in un’ipotesi giuridica di reato piuttosto che in un’altra.
Ed ancora, può essere evocata come ulteriore forma di esempio del tutto pertinente al tema, la situazione della contestazione surrettizia (o palesemente infondata) di una circostanza aggravante in relazione ad un delitto che preveda una pena massima di quattro anni.
Si pensi, ad esempio, alla aggravante della recidiva, che ai commi 2, 3 e 4 dell’art. 99 c.p. è di natura facoltativa.
Appare, quindi, del tutto irragionevole ed illogico che la possibilità di accesso ad una misura definitoria un processo risulti legata indissolubilmente ad una discrezionalità tecnico-giuridica non già eventualmente ad appannaggio del giudice terzo (peraltro espressamente riconosciuta con l’art. 464 ter e quater che governano analiticamente i poteri del GIP, del GUP e del Tribunale), bensì ex parte.
Per vero, un correttivo potrebbe ravvisarsi nella possibilità del PM – all’uopo sollecitato dall’imputato e dalla difesa, se non addirittura dal giudicante – di riformulare il capo di imputazione adottando le doverose correzioni.
Questo tipo di opzione, però, non appare affatto praticabile in relazione all’ipotesi di notifica del decreto di giudizio immediato e del decreto penale di condanna, situazioni procedimentali che impongono all’interessato di formulare la richiesta, senza che sia contemplata la possibilità di preventiva modifica dell’imputazione, da parte del PM o del GIP.
Emerge, quindi, una situazione che, prima facie, appare idonea a suscitare un notevole dibattito dottrinale e giurisprudenziale.
4. IL QUADRO NORMATIVO DI INSIEME
E QUALCHE ULTERIORE PERPLESSITA’.
Tornando all’esame analitico, il comma 2°, a propria volta disciplina – unitamente al successivo comma 3° – le modalità tecniche di esecuzione della misura alternativa, prevedendo gli oneri posti a carico del richiedente.
Spiccano prestazioni di condotte tese ad eliminare le conseguenze del reato ed a risarcire il danno provocato (se reato di evento), le quali arieggiano il dettato dell’art. 62 n. 6 c.p. .
Il richiedente è affidato ai servizi sociali per lo svolgimento dell’attività di volontariato o per tutte quelle prescrizioni concernenti la sua sfera personale (medica, domiciliare), oppure per particolari divieti.
La esecuzione della messa alla prova, deve prevedere, altresì, lo svolgimento di un’attività lavorativa non retribuita di pubblica utilità, per un periodo non inferiore a 10 giorni (e tenendo conto della compatibilità con caratteristiche professionali e lavorative dell’interessato), compatibilmente con le esigenze lavorative, familiari e di studio dell’inquisito.
Il provvedimento è revocabile – art. 168 quater – per tassative ipotesi di violazione (trasgressioni alle prescrizioni o commissione di reato non colposo durante la prova).
Sul piano processuale, si deve, inoltre, aggiungere che l’istituto è caratterizzato da profili una rilevante “elasticità processuale” della fase decisoria.
Il giudice – oltre a potere rigettare motu proprio la richiesta (che è, peraltro, riproponibile, dinanzi al Tribunale in caso di rigetto da parte del GUP – art. 464 ter comma 4 -), può integrare e modificare il programma di trattamento nella fase di preparazione (art. 464 quater comma 4) e, in via ulteriore, successivamente (art. 464 quinquies comma 3) può ancora intervenire sulle prescrizioni originarie.
La decisione avviene con le forme della camera di consiglio ai sensi dell’art. 127 c.p.p. ed il giudicante può imporre la comparizione personale dell’imputato (art. 464 quater comma 2), laddove si renda necessario verificare la effettiva volontà dell’imputato.
Anche i profili risarcitori vengono cadenzati temporalmente dal giudice che stabilisce i termini entro i quali essi devono venire adempiuti (art. 464 quinquies comma 1).
La decisione in ordine alla messa alla prova è ricorribile per cassazione da parte dell’imputato e del PM (anche su istanza della parte offesa, la quale ha una facoltà di impugnazione autonoma per omesso avviso o per mancata audizione).
La richiesta di messa alla prova può essere avanzata anche nel corso delle indagini preliminari (analogamente al patteggiamento ex art. 447 cp).
In tutti i casi, il PM deve esprimere il proprio parere per iscritto e con motivazione (consenso o dissenso).
Esso è obbligatorio, ma non vincolante.
Pare, quindi, di potere affermare – alla luce del fatto che il comma dell’art. 464 ter prevede che il consenso del PM vada da questi presentato “unitamente alla formulazione dell’imputazione” – che quella in oggetto sia forse la migliore occasione nella quale si possa ovviare (per quanto concerne il nomen iuris del fatto) ad eventuali improprietà dell’addebito provvisorio, che possano ingiustamente risultare preclusive dell’accesso all’applicazione dell’istituto in questione.
L’art. 464 sexies prevede, a propria volta la possibilità che, durante il periodo di sospensione del processo (che comporta anche la sospensione della prescrizione – ex art. 168 ter comma 1 - ) possano essere acquisite prove non rinviabili o che possano permettere il proscioglimento dell’imputato.
Anche questa è norma che suscita perplessità per il suo carattere ambiguo e controverso.
Si autorizza l’acquisizione di prove (non rinviabili)) nel timore di dovere riprendere il processo perché la prova potrebbe non sortire esito positivo?
Quale significato va, poi, attribuito al termine non rinviabili ? Si tratta di prove analoghe a quelle irripetibili?
Sfugge, inoltre, il senso dell’utilità pratica dell’assunzione di prove a favore del proscioglimento dell’imputato – una volta dato corso alla misura –.
L’unico possibile significato potrebbe cercarsi nella circostanza che si ritenga che la presenza di tale prova (che deve essere, quindi, ritenuta come inedita e del tutto sconosciuta all’interessato) determini l’immediata sospensione della messa alla prova ed il ripristino del processo.
Certamente un rischio di non poco conto per l’imputato, se così fosse.
Nulla di tutto ciò, però, è scritto nella legge e, quindi, si viaggia nel mare procelloso delle supposizioni ed elucubrazioni.
Resta, da ultimo, il dovere di sottolineare che la messa alla prova entrerà in vigore il 17 maggio p.v. .
1 Cfr. Discussione della proposta di legge: Ferranti ed altri; Costa: Deleghe al Governo in materia di pene detentive non carcerarie e di riforma del sistema sanzionatorio. Disposizioni in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova e nei confronti degli irreperibili (Approvata, in un testo unificato, dalla Camera e modificata dal Senato) (A.C. 331-927-B)
2 Per vero, tratti ulteriori di analogia fra i due istituti sarebbero costituito anche dalla delega ai Servizi sociali, in punto al controllo del condannato, da un lato, e del richiedente- imputato dall’altro e dalla funzione di alternatività rispetto all’espiazione di una pena detentiva.
3Discorso analogo vale anche per l’art. 187 CdS che presenta medesima previsione al comma 8 bis
45-bis. Nell'ipotesi di cui al comma 5, limitatamente ai reati di cui al presente articolo commessi da persona tossicodipendente o da assuntore di sostanze stupefacenti o psicotrope, il giudice, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell'articolo 444 del codice di procedura penale, su richiesta dell'imputato e sentito il pubblico ministero, qualora non debba concedersi il beneficio della sospensione condizionale della pena, puo' applicare, anziche' le pene detentive e pecuniarie, quella del lavoro di pubblica utilita' di cui all'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, secondo le modalita' ivi previste. Con la sentenza il giudice incarica l'Ufficio locale di esecuzione penale esterna di verificare l'effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilita'. L'Ufficio riferisce periodicamente al giudice. In deroga a quanto disposto dall'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, il lavoro di pubblica utilita' ha una durata corrispondente a quella della sanzione detentiva irrogata. Esso puo' essere disposto anche nelle strutture private autorizzate ai sensi dell'articolo 116, previo consenso delle stesse. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilita', in deroga a quanto previsto dall'articolo 54 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, su richiesta del Pubblico ministero o d'ufficio, il giudice che procede, o quello dell'esecuzione, con le formalita' di cui all'articolo 666 del codice di procedura penale, tenuto conto dell'entita' dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della pena con conseguente ripristino di quella sostituita. Avverso tale provvedimento di revoca e' ammesso ricorso per Cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilita' puo' sostituire la pena per non piu' di due volte (8).
5-ter. La disposizione di cui al comma 5-bis si applica anche nell'ipotesi di reato diverso da quelli di cui al comma 5, commesso, per una sola volta, da persona tossicodipendente o da assuntore abituale di sostanze stupefacenti o psicotrope e in relazione alla propria condizione di dipendenza o di assuntore abituale, per il quale il giudice infligga una pena non superiore ad un anno di detenzione, salvo che si tratti di reato previsto dall'articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale o di reato contro la persona. (9)
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