Carcere- Ancora sul fenomeno dei trasferimenti e dei distacchi del personale di polizia penitenziaria
Giustizia: quando le guardie carcerarie... sono più dei ladri
di Gian Antonio Stella -Corriere della Sera, 13 febbraio 2008
di Gian Antonio Stella -Corriere della Sera, 13 febbraio 2008
I detenuti rinchiusi nelle carceri italiane sono spaventosamente più feroci e pericolosi di quelli francesi o americani? Deve essere così. Sennò non ti spiegheresti le reazioni all’articolo dove si raccontava che la corsa dei poliziotti penitenziari al trasferimento nel Mezzogiorno sta svuotando le case di reclusione di tutto il Centro-nord fino a una clamorosa sperequazione: fatto il rapporto una guardia per ogni detenuto, mancano 29 poliziotti ogni cento reclusi nel Settentrione e ne abbondano 14 nel Meridione.Quello è il punto di partenza: una guardia per ogni detenuto. Un rapporto deciso in sede di trattativa sindacale e sostanzialmente "quasi" mantenuto. Non è solo Ettore Ferrara, Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, a ribadire che non solo ci sono "gravi carenze al Nord" ma che tutta "la pianta organica è sicuramente insufficiente".
Dopo aver definito l’articolo "un’analisi suggestiva dal punto di vista contabile, ma che non chiarisce i motivi del disagio", Leo Beneduci, segretario dell’Osapp (uno dei sindacati), ricorda che "gli organici richiamati sono quelli, fermi al 1993 quando la capacità detentiva si attestava alle 32.000 unità, e gli agenti non erano gli attuali 44.620". Quindi, dato che i detenuti sono saliti a poco più di 43 mila, le cose vanno male.Sui "distaccati", cioè sui dipendenti "provvisoriamente" prestali ad altri penitenziari altri compiti (sui quali girano irresistibili leggende metropolitane, soprattutto sugli agenti mandati al servizio scorte con variazioni da attaché) il sindacalista una concessione la fa: è vero che si sono perpetrati degli abusi, certamente da accertare, ma...". Resta però il succo: il rapporto uno a uno è giusto.Ora, vale la pena di ricordare come quel rapporto fu deciso. Perché, in un nobile sussulto socio-pedagogico, l’amministrazione pensò che in un carcere moderno un agente penitenziario dovesse essere diverso dai secondini di un tempo, resi famosi (sinistramente) dai film sulla Cajenna. Doveva essere un po’ poliziotto, un po’ assistente sociale, un po’ confidente dei dolori e delle gioie dei detenuti. Insomma: doveva farsi carico per primo del recupero dei carcerati da avviare al reinserimento. Insomma, alla larga dalle situazioni orribili di certe carceri americane come quelle descritte nel libro "L’America dentro" da Elisabetta Grande.Ma non è andata così. Meglio: molti poliziotti penitenziari lo fanno davvero coi reclusi il mestiere di psicologo, sociologo, confidente. Ma di propria iniziativa. Per buona volontà e spirito di servizio personale. Come troppo spesso accade da noi, infatti, la seconda parte della riforma, quella della formazione degli agenti, non è mai stata completata.E a questo punto, se i poliziotti fanno solo o quasi solo i poliziotti, occorre tornare a quella domanda iniziale: i nostri detenuti sono più feroci e sanguinari e pericolosi di quelli reclusi nelle carceri francesi e americane? Ci diranno: ovviamente no. Ma allora, perché da noi deve esserci una guardia per ogni detenuto, in Francia uno ogni 1,8 e negli Stati Uniti uno ogni 4,8? Non sarà che anche le carceri sono state usate per assumere un po’ di gente senza preoccuparsi troppo del servizio?
Dopo aver definito l’articolo "un’analisi suggestiva dal punto di vista contabile, ma che non chiarisce i motivi del disagio", Leo Beneduci, segretario dell’Osapp (uno dei sindacati), ricorda che "gli organici richiamati sono quelli, fermi al 1993 quando la capacità detentiva si attestava alle 32.000 unità, e gli agenti non erano gli attuali 44.620". Quindi, dato che i detenuti sono saliti a poco più di 43 mila, le cose vanno male.Sui "distaccati", cioè sui dipendenti "provvisoriamente" prestali ad altri penitenziari altri compiti (sui quali girano irresistibili leggende metropolitane, soprattutto sugli agenti mandati al servizio scorte con variazioni da attaché) il sindacalista una concessione la fa: è vero che si sono perpetrati degli abusi, certamente da accertare, ma...". Resta però il succo: il rapporto uno a uno è giusto.Ora, vale la pena di ricordare come quel rapporto fu deciso. Perché, in un nobile sussulto socio-pedagogico, l’amministrazione pensò che in un carcere moderno un agente penitenziario dovesse essere diverso dai secondini di un tempo, resi famosi (sinistramente) dai film sulla Cajenna. Doveva essere un po’ poliziotto, un po’ assistente sociale, un po’ confidente dei dolori e delle gioie dei detenuti. Insomma: doveva farsi carico per primo del recupero dei carcerati da avviare al reinserimento. Insomma, alla larga dalle situazioni orribili di certe carceri americane come quelle descritte nel libro "L’America dentro" da Elisabetta Grande.Ma non è andata così. Meglio: molti poliziotti penitenziari lo fanno davvero coi reclusi il mestiere di psicologo, sociologo, confidente. Ma di propria iniziativa. Per buona volontà e spirito di servizio personale. Come troppo spesso accade da noi, infatti, la seconda parte della riforma, quella della formazione degli agenti, non è mai stata completata.E a questo punto, se i poliziotti fanno solo o quasi solo i poliziotti, occorre tornare a quella domanda iniziale: i nostri detenuti sono più feroci e sanguinari e pericolosi di quelli reclusi nelle carceri francesi e americane? Ci diranno: ovviamente no. Ma allora, perché da noi deve esserci una guardia per ogni detenuto, in Francia uno ogni 1,8 e negli Stati Uniti uno ogni 4,8? Non sarà che anche le carceri sono state usate per assumere un po’ di gente senza preoccuparsi troppo del servizio?
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