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mercoledì 30 aprile 2008

Giustizia: sul tema della sicurezza il dovere di agire con i fatti

di Paolo Graldi

Il Messaggero, 30 aprile 2008

C’era chi diceva Sicurezza e scriveva tolleranza, chi Scriveva sicurezza e urlava tolleranza zero. In quest’altalena di buonismi intinti nell’ideologia e fermezze anche eccessive vagamente razziste si è arrivati al voto. E il voto ha detto che i cittadini italiani considerano la Sicurezza, a ragione o a torto rispetto alle statistiche rassicuranti, un bene primario, indefettibile, irrinunciabile. Chi ha puntato sulla Sicurezza, considerandola un nodo da sciogliere e risolvere, almeno al Nord e poi a Roma, ha vinto la partita delle urne. Su quest’indicazione elettorale i dubbi stanno a zero.
E anche gli sconfitti, di fronte alla forza dei numeri, ammettono ormai apertamente dì non aver saputo cogliere appieno questo forte richiamo della gente. E così la lotta al crimine nelle sue più variegate forme, percepito come fenomeno immanente su tutti o realmente vissuto e subìto in larghe zone del Paese (è paradossale ma sembrano lamentarsene meno là dove esso è più crudo, diffuso e crudele) è entrato da protagonista assieme alla crisi economica nell’agenda della politica della sedicesima legislatura.
Il governo Berlusconi ha le idee chiare sul testa: nel senso che ha promesso di prendere il toro per le corna e di piegarne ogni resistenza. I fatti ci diranno se gli impegni solenni - non si rintracciano esaltanti esempi per il passato, da una parte e dall’altra - sapranno tradursi in realtà non soltanto percepibili ma anche concretamente apprezzabili.
Purtroppo, non basta dire, basta al crimine per dare concretezza a un’azione che dev’essere vasta, incisiva, ricca di intenzioni e di procedure adeguate ma anche, - scusate il "ma anche" - di mezzi e di uomini all’altezza della sfida.
Mentre il leader della Lega Umberto Bossi, con il suo linguaggio di carta vetrata, rubava la battuta al premier in pectore sul nome del futuro ministro dell’Interno (Maroni, e chi altri sennò?) il ministro uscente dal Viminale, Giuliano Amato ammetteva la propria insoddisfazione su come il governo di cui fa parte ha trattato il tema. E ha spiegato che da parte della "sua" maggioranza c’è stata la propensione (sempre "sottile" il linguaggio del ministro) a identificare la sicurezza solo come criminalità organizzata.
E a vedere invece la criminalità diffusa come un problema da affrontare solo in chiave sociale. Bella sintesi. Di fatto è sfuggita la comprensione di fatti che pure erano sotto gli occhi di tutti. A Roma, per esempio, e proprio su queste colonne per mesi si sono rappresentate piccole e assai meno piccole realtà criminali, specie in periferia ma anche nel centro storico, che aggiravano allegramente anche le più elementari forme di legalità, quasi che i comportamenti soggettivi o di gruppo fossero talmente ignorati da apparire consentiti e perfino incoraggiati.
È il caso del caos delle bancarelle piazzate ovunque, della prostituzione sulle Consolari dietro le quali si celava (e neppure tanto) l’agire di organizzazioni di autentici schiavisti. Figuri che spadroneggiavano sulle vite degli altri disponendone come di mercanzia a basso costo, del dilagare fin sotto la soglia della basilica di San Pietro, cioè sotto gli occhi del mondo, di gruppi di venditori ambulanti di merce contraffatta e così via elencando.
Per non dire dei quasi cento campi di nomadi disseminati dentro ogni anfratto dai quali prendevano (o prendono?) le mosse i padroni e predoni dell’accattonaggio organizzato. Ci sono voluti delitti inenarrabili, la morte inenarrabile di Giovanna Reggiani, per scatenare una reazione, metter mano a decreti severi e a imporre una riflessione sull’intera materia.
La macchina legislativa, complice di una titubanza un po’ ipocrita, votata solo al sociologismo facile, ha fatto il resto: tutto si è dissolto con la fine della legislatura e ora si dovrà ricominciare daccapo, rimettere insieme i pezzi di una architettura della sicurezza che il voto impone come priorità. Non sarà difficile constatare se il cambio di stagione politica e insieme il cambio di rotta sapranno prendere la giusta direzione con la necessaria determinazione.
Dice Antonio Manganelli, capo della Polizia di Stato, con una felice immagine, che non si deve parlare di poliziotti fuori dagli uffici per mandarli per le strade ma di mandare fuori dagli uffici gli adempimenti burocratici. E tuttavia il governo pronto a durare per i prossimi cinque anni, con la forza per farlo, dovrà decidere anche di dotare la fabbrica della sicurezza dei mezzi necessari, se è vero che la gran parte del parco macchine è obsoleto, che la benzina alle Volanti viene distribuita con il contagocce e gli organici non riescono a rispettare neppure il turnover.
La sicurezza è il bene più prezioso ma il costo è alto: da qui bisognerà partire. E poi dovrà essere l’intera macchina a rimettere le giuste cinghie di trasmissione. La macchina giudiziaria, strangolata dai suoi formalismi, dalle sue lentezze e dalle sue lungaggini, finisce per essere, oggettivamente, la complice più affidabile dei criminali.
Arrestati, incarcerati e restituiti in massima parte alla libertà quasi subito, aspettando di un processo che chissà quando si farà e in attesa del quale tutto consiglierà di delinquere ancora. Dentro questo bubbone la parte più infetta è rappresentata da quella immigrazione clandestina che non sa dove sbattere la testa e viene fatalmente risucchiata dalla fitta rete di traffici illeciti. E, dentro questa, c’è ancora presente e pressante una criminalità irriducibile, che viene dall’Est e spadroneggia nella presunzione di non essere stata mai vista, registrata, osservata: questa è la più pericolosa in assoluto, questa mette davvero paura e su questa la mannaia della legge dovrà cadere senza inciampare in un garantismo che stravolge l’evidenza e lascia che s’accrediti l’idea che qui, da noi, tutto è possibile. Straordinari sono i successi investigativi e pochi i delitti senza colpevoli scoperti e catturati.
Ma i colpevoli non devono restare colpevoli e impuniti. La certezza della pena deve cessare d’essere uno slogan e diventare dato giuridico e giudiziario. Su questo, tra Amato e Maroni dovrà verificarsi quella discontinuità nei fatti (sulle intenzioni Amato ha poco da rimproverarsi) che i cittadini hanno chiesto con il voto nazionale e poi con quello perla guida della Capitale.