Giustizia/Carcere: la Polizia Penitenziaria… l’altra faccia del carcere
di Stefano Anastasia (Associazione Antigone)- Aprile on-line, 6 aprile 2008
Dopo i casi verificatisi negli ultimi mesi in varie città d’Italia, ancora un suicidio tra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Il carcere è luogo di sofferenza, non solo per chi vi è costretto dall’autorità giudiziaria, ma spesso anche per chi sceglie, per vocazione o per necessità, di lavorarvi.
La notizia dei suicidi di due agenti di Polizia Penitenziaria in pochi giorni apre uno squarcio su una faccia del carcere frequentemente in ombra.
Non sappiamo, né chi scrive né le organizzazioni sindacali che hanno lanciato l’allarme sulla rapida successione di questi tragici eventi, quale ne sia stata la causa, cosa possa aver spinto queste due persone a togliersi la vita, l’uno a Biella, l’altro a Matera. Non sappiamo, soprattutto, se l’associazione a noi evidente - tra il suicidio e la divisa che portavano - possa essere stata causa, motivo, consapevole o inconscio della scelta di uccidersi.
O se non sia, piuttosto, una singolare coincidenza, questa ripetuta scelta di morte nei ranghi della polizia penitenziaria, le cui ragioni soggettive andrebbero viceversa cercate altrove, nell’intimo della sofferenza esistenziale di chi vi ha dato corso. Se possiamo dunque dire che si sono uccisi due agenti di polizia penitenziaria, non possiamo certo dire che si sono uccisi perché agenti di polizia penitenziaria.
Ma se quella associazione, fortuita o motivata che sia, tra la scelta suicidaria e la divisa del Corpo ci aiuta a guardare dove altrimenti il nostro sguardo non si poggerebbe, vale la pena di seguirla, per alzare il velo su un mestiere difficile e sulle frustrazioni e la sofferenza che può portare con sé.
Il Corpo della polizia penitenziaria è molto cambiato negli ultimi vent’anni. Ha assunto la dignità e la rilevanza di una delle cinque forze di polizia di questo Paese. I suoi appartenenti hanno acquisito la professionalità e le competenze di una polizia specializzata. Nulla a che vedere con la scalcinata e romantica figura dei vecchi agenti di custodia, i "secondini" di cui i poliziotti penitenziari non vorrebbero più sentir parlare.
Non mancano i dirigenti nel Corpo e molti tra loro sono ormai selezionati tra giovani laureati, anche con pratica delle professioni legali, formati e sensibili ai diritti delle persone detenute. Tante donne ormai, come ovunque la selezione pubblica sia basata sul merito, dirigono i reparti di polizia penitenziaria di stanza negli Istituti. Eppure, se quella associazione tra la divisa del Corpo e la tragica morte di due agenti è stata possibile, non tutto evidentemente va nel migliore dei modi.
Nonostante il Ministero della Giustizia in questi anni abbia fatto il possibile, restano le carenze d’organico lamentate dalle organizzazioni sindacali e manca ancora la compiuta parificazione giuridica con le altre forze di polizia. I pesantissimi vincoli di bilancio che hanno condizionato l’azione del Governo Prodi (e che condizioneranno ancora i governi a venire) non hanno consentito di raggiungere quegli obiettivi di equità e di potenziamento del Corpo che sarebbero stati necessari. Anche la polizia penitenziaria, dunque, soffre delle difficili condizioni finanziarie del Paese.
Ma, è chiaro, nell’associazione da cui siamo partiti c’è anche altro, e l’altro è il carcere. Il carcere è luogo di sofferenza, non solo per chi vi è costretto dall’autorità giudiziaria, ma spesso anche per chi sceglie, per vocazione o per necessità, di lavorarvi. Il carcere non piace a chi vi è costretto, ma anche a chi ne sta fuori. Lo si vorrebbe lontano, con tutte le sue sofferenze e i suoi fantasmi. Chi vi lavora soffre di questa (scarsa) considerazione sociale dell’istituzione penitenziaria e, dunque, della propria professionalità.
Di fronte a questa frustrazione, c’è chi cerca una via di fuga, in un lavoro d’ufficio o in mansioni eterogenee, prive della qualificazione propria di un Corpo di polizia specializzato nel trattamento penitenziario. C’è anche chi, un po’ miseramente, si mette a fare confronti, tra le attenzioni prestate ai detenuti e quelle prestate ai poliziotti, come a rinverdire l’opposizione tra Totò e Aldo Fabrizi.
Al contrario, questa frustrazione potrà essere vinta (e gli operatori del penitenziario ottenere i giusti riconoscimenti giuridici ed economici) solo se l’intero mondo dell’esecuzione penale riuscirà a uscire dal cono d’ombra in cui è costretto e a conquistare la considerazione che questa delicatissima funzione sociale merita.
Dopo i casi verificatisi negli ultimi mesi in varie città d’Italia, ancora un suicidio tra gli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria. Il carcere è luogo di sofferenza, non solo per chi vi è costretto dall’autorità giudiziaria, ma spesso anche per chi sceglie, per vocazione o per necessità, di lavorarvi.
La notizia dei suicidi di due agenti di Polizia Penitenziaria in pochi giorni apre uno squarcio su una faccia del carcere frequentemente in ombra.
Non sappiamo, né chi scrive né le organizzazioni sindacali che hanno lanciato l’allarme sulla rapida successione di questi tragici eventi, quale ne sia stata la causa, cosa possa aver spinto queste due persone a togliersi la vita, l’uno a Biella, l’altro a Matera. Non sappiamo, soprattutto, se l’associazione a noi evidente - tra il suicidio e la divisa che portavano - possa essere stata causa, motivo, consapevole o inconscio della scelta di uccidersi.
O se non sia, piuttosto, una singolare coincidenza, questa ripetuta scelta di morte nei ranghi della polizia penitenziaria, le cui ragioni soggettive andrebbero viceversa cercate altrove, nell’intimo della sofferenza esistenziale di chi vi ha dato corso. Se possiamo dunque dire che si sono uccisi due agenti di polizia penitenziaria, non possiamo certo dire che si sono uccisi perché agenti di polizia penitenziaria.
Ma se quella associazione, fortuita o motivata che sia, tra la scelta suicidaria e la divisa del Corpo ci aiuta a guardare dove altrimenti il nostro sguardo non si poggerebbe, vale la pena di seguirla, per alzare il velo su un mestiere difficile e sulle frustrazioni e la sofferenza che può portare con sé.
Il Corpo della polizia penitenziaria è molto cambiato negli ultimi vent’anni. Ha assunto la dignità e la rilevanza di una delle cinque forze di polizia di questo Paese. I suoi appartenenti hanno acquisito la professionalità e le competenze di una polizia specializzata. Nulla a che vedere con la scalcinata e romantica figura dei vecchi agenti di custodia, i "secondini" di cui i poliziotti penitenziari non vorrebbero più sentir parlare.
Non mancano i dirigenti nel Corpo e molti tra loro sono ormai selezionati tra giovani laureati, anche con pratica delle professioni legali, formati e sensibili ai diritti delle persone detenute. Tante donne ormai, come ovunque la selezione pubblica sia basata sul merito, dirigono i reparti di polizia penitenziaria di stanza negli Istituti. Eppure, se quella associazione tra la divisa del Corpo e la tragica morte di due agenti è stata possibile, non tutto evidentemente va nel migliore dei modi.
Nonostante il Ministero della Giustizia in questi anni abbia fatto il possibile, restano le carenze d’organico lamentate dalle organizzazioni sindacali e manca ancora la compiuta parificazione giuridica con le altre forze di polizia. I pesantissimi vincoli di bilancio che hanno condizionato l’azione del Governo Prodi (e che condizioneranno ancora i governi a venire) non hanno consentito di raggiungere quegli obiettivi di equità e di potenziamento del Corpo che sarebbero stati necessari. Anche la polizia penitenziaria, dunque, soffre delle difficili condizioni finanziarie del Paese.
Ma, è chiaro, nell’associazione da cui siamo partiti c’è anche altro, e l’altro è il carcere. Il carcere è luogo di sofferenza, non solo per chi vi è costretto dall’autorità giudiziaria, ma spesso anche per chi sceglie, per vocazione o per necessità, di lavorarvi. Il carcere non piace a chi vi è costretto, ma anche a chi ne sta fuori. Lo si vorrebbe lontano, con tutte le sue sofferenze e i suoi fantasmi. Chi vi lavora soffre di questa (scarsa) considerazione sociale dell’istituzione penitenziaria e, dunque, della propria professionalità.
Di fronte a questa frustrazione, c’è chi cerca una via di fuga, in un lavoro d’ufficio o in mansioni eterogenee, prive della qualificazione propria di un Corpo di polizia specializzato nel trattamento penitenziario. C’è anche chi, un po’ miseramente, si mette a fare confronti, tra le attenzioni prestate ai detenuti e quelle prestate ai poliziotti, come a rinverdire l’opposizione tra Totò e Aldo Fabrizi.
Al contrario, questa frustrazione potrà essere vinta (e gli operatori del penitenziario ottenere i giusti riconoscimenti giuridici ed economici) solo se l’intero mondo dell’esecuzione penale riuscirà a uscire dal cono d’ombra in cui è costretto e a conquistare la considerazione che questa delicatissima funzione sociale merita.
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