Giustizia/Carcere- Ricerca; il "carcere duro" incrementa la recidiva
di Francesco Drago*, Roberto Galbiati**, Pietro Vertova***
Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2008
Il carcere alimenta se stesso. E le condizioni di vita dei detenuti, generalmente in ambienti sovraffollati e in istituti di pena anche fisicamente isolati dalla società civile, non mostrano di ridurre la propensione alla recidiva. Nel senso che non costituiscono un deterrente. Neppure per i detenuti usciti nei mesi scorsi grazie alle norme sull’indulto. A confermarlo è una ricerca che indaga sulla tendenza alla recidività dei detenuti scarcerati grazie alla legge dell’estate 2006: il grado di sovraffollamento e l’isolamento dell’istituto di pena (distanza dal capoluogo di Provincia più vicino) in cui si è vissuta l’esperienza carceraria non incidono sulla propensione a delinquere di nuovo. Un risultato che pone seri interrogativi sulla funzione rieducativa della pena detentiva.
L’estensione dell’uso della pena carceraria nella maggior parte dei Paesi avanzati chiama gli scienziati sociali a un ulteriore sforzo di analisi circa gli effetti del carcere. Diversi studiosi hanno evidenziato limine contraddizioni della funzione riabilitativa e deterrente. Ad esempio, usando dati sui detenuti americani, Jesse Shapiro e Keith Chen in un lavoro pubblicato su American and Economics Review, mostrano che il carcere duro misurato dal grado di isolamento in cella aumenta la recidività.
Sul Sole 24 Ore del 23 luglio 2007 abbiamo riportato i risultati di un lavoro (pubblicato dal Center for Economie Policy and Research di Londra) che, a partire dalle caratteristiche degli ex-detenuti che hanno beneficiato dell’indulto, mostrava come una più lunga permanenza in carcere non rafforza ma indebolisce la sensibilità alla minaccia di pene future, esponendoli maggiormente alla recidiva.
In un secondo lavoro, a partire dagli stessi dati analizziamo gli effetti sulla recidività dei condannati di altre due dimensioni del carcere: le condizioni di vivibilità e il grado di isolamento. Due le variabili utilizzate: il grado di sovraffollamento carcerario e i decessi in carcere durante la permanenza.
Come indice del grado di isolamento utilizziamo invece la distanza del carcere dal capoluogo di Provincia più vicino. L’assunzione base, confermata dal fatto che presso le carceri più lontane accedono meno volontari e associazioni, è quella per cui maggiore è la distanza dai centri popolosi, più deboli sono i legami sociali tra reclusi e resto della società civile.
La strategia usata è semplice: si estrapola dai dati sui rientri in carcere nei mesi successivi all’entrata in vigore dell’indulto se i condannati che hanno trascorso la pena in una struttura con minor vivibilità abbiano commesso una maggiore o una minore recidiva. Per aggirare alcuni effetti distorsivi si è ristretta l’analisi al sotto-campione degli indultati che scontano la pena in una struttura al di fuori dalla Provincia di residenza (circa la metà del campione).
Rompendo il legame tra situazione carceraria e contesto in cui potenzialmente opera l’ex-recluso. I risultati sono i seguenti. Primo, non troviamo alcun effetto delle condizioni carcerarie sulla propensione alla recidiva. In altri termini, rendere le condizioni carcerarie più dure non facilita il reintegro sociale dei condannati.
Secondo, troviamo una relazione positiva tra grado di isolamento e propensione alla recidiva. Questo vuoi dire che più i condannati sono isolati dal resto della società, più probabilmente ricommetteranno un reato una volta usciti dal carcere. Questo risultato merita una riflessione. L’isolamento è la cifra principale del meccanismo carcerario.
Nella prospettiva dei teorici moderni, l’isolamento produce solitudine e attraverso di essa può svolgersi la "correzione morale" del condannato. In un famoso discorso del 1845 Tocqueville valutava la solitudine come uno strumento positivo di riforma: "Gettato nella solitudine, il condannato riflette. Posto solo, in presenza del suo crimine, impara ad odiarlo, e se la sua anima non è ancora rovinata dal male, è nell’isolamento che il rimorso verrà ad assalirlo".
D’altro canto, come osserva Michel Foucault in "Sorvegliare e punire", l’isolamento dei condannati garantisce che si possa esercitare su di loro un potere che non sarà bilanciato da nessun’altra influenza: la solitudine come condizione prima della sottomissione. Una sottomissione che dovrebbe portare al recupero del condannato alle regole sociali.
Eppure i nostri risultati evidenziano l’effetto opposto: quanto più il carcere è efficace nel porre i condannati in un contesto di solitudine, tanto meno lo è nel ridurne il potenziale di recidività. Il risultato dell’isolamento non sembra quindi essere la rieducazione del condannato, quanto semmai un’ulteriore mortificazione che riduce la capacità di reintegrarsi.
Questi risultati pongono seri interrogativi circa l’efficacia del carcere come strumento di rieducazione dei condannati. Come dal precedente lavoro, emerge anche da questa analisi una tendenza della prigione a creare la propria materia prima.
Per concludere, vale la pena di menzionare quanto affermava Cesare Beccaria in "Dei diritti e delle pene": "In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto deve essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si siano voluti assoggettare ai minori mali possibili".
*Università di Napoli Parthenope
**Università dell’Insubria e Università Bocconi
***Università di Bergamo
Il Sole 24 Ore, 7 aprile 2008
Il carcere alimenta se stesso. E le condizioni di vita dei detenuti, generalmente in ambienti sovraffollati e in istituti di pena anche fisicamente isolati dalla società civile, non mostrano di ridurre la propensione alla recidiva. Nel senso che non costituiscono un deterrente. Neppure per i detenuti usciti nei mesi scorsi grazie alle norme sull’indulto. A confermarlo è una ricerca che indaga sulla tendenza alla recidività dei detenuti scarcerati grazie alla legge dell’estate 2006: il grado di sovraffollamento e l’isolamento dell’istituto di pena (distanza dal capoluogo di Provincia più vicino) in cui si è vissuta l’esperienza carceraria non incidono sulla propensione a delinquere di nuovo. Un risultato che pone seri interrogativi sulla funzione rieducativa della pena detentiva.
L’estensione dell’uso della pena carceraria nella maggior parte dei Paesi avanzati chiama gli scienziati sociali a un ulteriore sforzo di analisi circa gli effetti del carcere. Diversi studiosi hanno evidenziato limine contraddizioni della funzione riabilitativa e deterrente. Ad esempio, usando dati sui detenuti americani, Jesse Shapiro e Keith Chen in un lavoro pubblicato su American and Economics Review, mostrano che il carcere duro misurato dal grado di isolamento in cella aumenta la recidività.
Sul Sole 24 Ore del 23 luglio 2007 abbiamo riportato i risultati di un lavoro (pubblicato dal Center for Economie Policy and Research di Londra) che, a partire dalle caratteristiche degli ex-detenuti che hanno beneficiato dell’indulto, mostrava come una più lunga permanenza in carcere non rafforza ma indebolisce la sensibilità alla minaccia di pene future, esponendoli maggiormente alla recidiva.
In un secondo lavoro, a partire dagli stessi dati analizziamo gli effetti sulla recidività dei condannati di altre due dimensioni del carcere: le condizioni di vivibilità e il grado di isolamento. Due le variabili utilizzate: il grado di sovraffollamento carcerario e i decessi in carcere durante la permanenza.
Come indice del grado di isolamento utilizziamo invece la distanza del carcere dal capoluogo di Provincia più vicino. L’assunzione base, confermata dal fatto che presso le carceri più lontane accedono meno volontari e associazioni, è quella per cui maggiore è la distanza dai centri popolosi, più deboli sono i legami sociali tra reclusi e resto della società civile.
La strategia usata è semplice: si estrapola dai dati sui rientri in carcere nei mesi successivi all’entrata in vigore dell’indulto se i condannati che hanno trascorso la pena in una struttura con minor vivibilità abbiano commesso una maggiore o una minore recidiva. Per aggirare alcuni effetti distorsivi si è ristretta l’analisi al sotto-campione degli indultati che scontano la pena in una struttura al di fuori dalla Provincia di residenza (circa la metà del campione).
Rompendo il legame tra situazione carceraria e contesto in cui potenzialmente opera l’ex-recluso. I risultati sono i seguenti. Primo, non troviamo alcun effetto delle condizioni carcerarie sulla propensione alla recidiva. In altri termini, rendere le condizioni carcerarie più dure non facilita il reintegro sociale dei condannati.
Secondo, troviamo una relazione positiva tra grado di isolamento e propensione alla recidiva. Questo vuoi dire che più i condannati sono isolati dal resto della società, più probabilmente ricommetteranno un reato una volta usciti dal carcere. Questo risultato merita una riflessione. L’isolamento è la cifra principale del meccanismo carcerario.
Nella prospettiva dei teorici moderni, l’isolamento produce solitudine e attraverso di essa può svolgersi la "correzione morale" del condannato. In un famoso discorso del 1845 Tocqueville valutava la solitudine come uno strumento positivo di riforma: "Gettato nella solitudine, il condannato riflette. Posto solo, in presenza del suo crimine, impara ad odiarlo, e se la sua anima non è ancora rovinata dal male, è nell’isolamento che il rimorso verrà ad assalirlo".
D’altro canto, come osserva Michel Foucault in "Sorvegliare e punire", l’isolamento dei condannati garantisce che si possa esercitare su di loro un potere che non sarà bilanciato da nessun’altra influenza: la solitudine come condizione prima della sottomissione. Una sottomissione che dovrebbe portare al recupero del condannato alle regole sociali.
Eppure i nostri risultati evidenziano l’effetto opposto: quanto più il carcere è efficace nel porre i condannati in un contesto di solitudine, tanto meno lo è nel ridurne il potenziale di recidività. Il risultato dell’isolamento non sembra quindi essere la rieducazione del condannato, quanto semmai un’ulteriore mortificazione che riduce la capacità di reintegrarsi.
Questi risultati pongono seri interrogativi circa l’efficacia del carcere come strumento di rieducazione dei condannati. Come dal precedente lavoro, emerge anche da questa analisi una tendenza della prigione a creare la propria materia prima.
Per concludere, vale la pena di menzionare quanto affermava Cesare Beccaria in "Dei diritti e delle pene": "In generale il peso della pena e la conseguenza di un delitto deve essere la più efficace per gli altri e la meno dura che sia possibile per chi la soffre, perché non si può chiamare legittima società quella dove non sia principio infallibile che gli uomini si siano voluti assoggettare ai minori mali possibili".
*Università di Napoli Parthenope
**Università dell’Insubria e Università Bocconi
***Università di Bergamo
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