L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

domenica 8 giugno 2008

LA DOMANDA DI SICUREZZA PUO' NON INVESTIRE I SERVIZI?

Tracce per una discussione pubblica

La domanda di sicurezza è diventata negli ultimi tempi sottofondo mediatico che accompagna la nostra quotidianità di cittadini in generale e di professionisti del sociale in particolare e sta determinando cambiamenti sostanziali per la convivenza civile, generando conflitti sociali inediti nel nostro paese.

Mai in passato l’Italia, che pure ha attraversato momenti difficili, come ad es. il terrorismo degli anni ’70, si era dovuta confrontare con episodi che fanno apertamente riferimento a forme di intolleranza verso la diversità, in qualunque modo essa si evidenzia fino a rasentare forme di vero e proprio razzismo.

La situazione attuale appare come la naturale e-voluzione o meglio in-voluzione della tendenza, affermatasi nella politica degli anni appena trascorsi, spostando sempre di più nell'area del penale le soluzioni a problematici fenomeni sociali, quali: le dipendenze, l’immigrazione, il disagio psichico, il progressivo impoverimento di sempre maggiori strati di popolazione, ecc. Stiamo assistendo di fatto ad un rilevante allargamento dell’area del penale, con la conseguente riduzione, non certamente senza grossi rischi, delle politiche sociali e degli spazi di democrazia. A questo proposito esiste un‘attenta analisi sui fenomeni che stanno caratterizzando i contesti politici e sociali dei giorni nostri nelle società moderne occidentali fatta da D. Garland[1]

Sembra che con l’ultima campagna elettorale e con i risultati emersi dal voto sia caduta ogni remora e ci si senta legittimati ad attuare il controllo sulle aree più povere e marginali, ricorrendo ai soli metodi di pura repressione o di risolvere l'incapacità di gestire adeguatamente enormi emergenze sociali, quali: i processi migratori, la precarizzazione del lavoro, l’impoverimento dei meno abbienti e di aree di ceto medio, l’ aumento della marginalità sociale, attraverso l’uso della forza e trasformando di fatto problemi sociali solo in problemi di ordine pubblico.

Non c’è dubbio che tutto ciò abbia un forte impatto in termini di consenso sociale e politico, ma è necessario che emergano anche le ricadute nei diversi contesti istituzionali e della società.

Il fatto che queste scelte porteranno necessariamente alla ri-proposizione della situazione carceraria pre-indulto con un sovraffollamento ingestibile, sembra preoccupare solo gli addetti ai lavori, mentre la classe politica è preoccupata solo di assecondare un immaginario… di un'opinione pubblica spaventata e vendicativa, disposta ad attribuire consenso solo in cambio di rassicurazione immediate e non razionali e a lungo termine. Ci chiediamo: una volta finita la pena quando si torna nel proprio contesto territoriale, in quali condizioni ci si ritrovi se non si hanno quelle condizioni minime per sopravvivere, quali: casa, lavoro, relazioni affettive e amicali valide? Non si è nei fatti solo spostato nel tempo il problema?

Questo è il quadro che dà ragione ad un inaccettabile paradosso: più emerge con evidenza il fallimento delle funzioni storiche, degli stessi fondamenti teorici della pena (retribuzione, rieducazione, prevenzione), tanto più si ricorre alla stessa, nella sua versione carceraria, massicciamente applicata al di fuori dei necessari criteri di proporzionalità e di garanzia, soprattutto verso quei soggetti e quei comportamenti (di devianza sociale) cui più frequentemente si associano immagini di insicurezza. Riteniamo che non siano queste le soluzioni che risolvono i problemi di una società post industriale confusa, disorientata, abbandonata alla precarietà esistenziale.

Questo non è un fenomeno solo italiano, ma in Italia sta assumendo forme inedite e molto più cruente che negli altri paesi europei, probabilmente a causa sia di un’endemica debolezza del nostro sistema sociale sia dell’assenza di un adeguato sistema di garanzie. Nelle società più avanzate, l’affermazione di una visione economicistica, riduttiva e banalizzante della società riduce la società stessa ad una somma di individui, con spinte molto forti verso l’individualismo, illudendosi, che si possa vivere al di fuori delle relazioni socio emotive tra le persone stesse che la compongono. Questa situazione fa da sfondo alla convinzione che l'individuo che si colloca al di fuori del sistema socio-economico e che esprime un disagio, vada controllato o meglio, contenuto con la forza, tanto da far ritenere prioritario investire nel sistema penale e di polizia riducendo sempre di più le risorse in campo sociale.

Ci si illude che lo spostamento dei costi da un’organizzazione (servizi sociali) all’altra (polizia) possa corrispondere ad un risparmio (tutto da dimostrare), invece è indicatore della fragilità della società moderna.

Una società che sente il bisogno di usare la forza per garantire la sicurezza dei propri cittadini e non è capace di gestire le proprie paure, attraverso l’inclusione della diversità, la ricerca delle soluzioni ai problemi piuttosto che attraverso la repressione, dimostra di fatto tutta la sua impotenza di fronte a tali problemi.

Come operatori del sociale e in particolare del settore penale raccogliamo la sfida lanciata da Franca Olivetti Manoukian di “….farci carico del disagio collegato alla percezione della insicurezza dilagante e contagiosa e di offrire letture meno semplificate di quelle circolanti”.

E’ innanzitutto importante premettere che la lettura semplificata di questi fenomeni trova uno spazio sui “media” impensabile, al contrario non trovano lo stesso spazio gli episodi di quotidiana positività (fa più rumore un albero che cade di una foresta che cresce).

Nell’articolo di F. Olivetti Manoukian si fa presente che: “… nonostante il lavoro che da anni svolgono, nonostante gl’investimenti di motivazione, di energie, di varie forme di finanziamenti (n.d.r.pochi) non possiamo registrare nei confronti dei servizi sociali un’ampia e solida legittimazione…né da parte dell’utenza diretta né da parte di quella indiretta (società, opinione pubblica)”.

E’ opportuno segnalare che negli ultimi anni le numerose ricerche finalizzate a valutare la utilità e a misurare l’efficacia delle misure alternative al carcere e quindi dei servizi preposti ad esse, hanno dato risultati positivi, sia per quanto attiene la percentuale di revoche (dati rilevati dal sito del Ministero della Giustizia), sia per la recidiva.

La crescita delle misure alternative è stata costante ed esponenziale: in particolare, dal 1991, anno in cui le misure alternative erano complessivamente inferiori a 5.000, se ne è avuta la decuplicazione, avendo raggiunto nel 2005 quasi quota 50.000.


Le misure alternative seguite dagli UEPE nell’anno 2006 sono state 45.546 mentre Il totale delle revoche di tutte le misure alternative solo 2564 (6,06%)


Per quanto riguarda le recidive:

le conclusioni di una ricerca della Direzione Generale Esecuzione Penale Esterna del DAP, condotta su 8.817 casi di affidamento, conclusasi nel 1998 in tutta Italia, mirata essenzialmente alla valutazione della recidiva in nuovi reati da parte dei fruitori di affidamento in prova negli anni seguiti alla conclusione della esecuzione dello stesso, ha riscontrato che solo nel 19% dei casi vi era stata recidiva negli anni successivi al 1998 fino al 2005 e, quindi, per 7 anni.

Parallelamente si è verificato, fra tutti gli scarcerati a fine pena nel 1998 (5772), non fruitori pertanto di misure alternative, che aveva recidivato il 68,45%.

Mentre da altra ricerca condotta nel 2005 dall’ UEPE di Firenze (Progetto Misura), in collaborazione con l’Università di Firenze, è stato messo in evidenza che una modalità di esecuzione della pena diversa da quella del carcere, svolta con forme di gestione diversa da parte di assistenti sociali e operatori sociali e con strumenti tecnico-professionali di tipo relazionale, risulta più efficace.

Non si pretende che i dati statistici spieghino tutto, ma che essi ci diano una visuale diversa da quella data dai mass media e più oggettiva della situazione, certamente si; la loro valutazione, infatti, porta a concludere che il sistema di implementazione della misura dell'affidamento, imperniato sulle modalità operative del servizio sociale, che utilizza il lavoro di rete con i servizi territoriali pubblici e privati, ha complessivamente funzionato nel raggiungimento del duplice obiettivo di rafforzare i processi di inclusione e coesione sociale, attraverso il rispetto delle prescrizioni e della legalità e favorendo, in tal modo, una maggiore sicurezza dei contesti di vita dei cittadini.

Quando i dati non c’erano, tutti ne rimarcavano l’assenza e ci si affannava a dimostrare che le MM.AA in realtà funzionavano, ora che i dati ci sono, sembrano non avere alcuna importanza.

Il fatto che un vasto numero di condannati abbia usufruito di percorsi d’inclusione e che la maggioranza ne abbia fatto anche buon uso sembra non interessi proprio a nessuno.

Inoltre gli episodi negativi riportati ed enfatizzati dalla stampa e dalle televisioni riguardano singoli soggetti che rappresentano una minima parte di coloro che vivono, lavorano e hanno un’esistenza del tutto normale a contatto quotidianamente con la cittadinanza, senza che nessuno si accorga della diversità e che si senta minacciato dal “deviante”.

Questa descrizione dettagliata dell’ambito in cui operiamo, quotidianamente, come assistenti sociali del settore penale è stata fatta per mettere in evidenza che la percezione di insicurezza ha origini molto diverse e che non sempre è collegata ad episodi concreti e reali.

Spesso le persone intervistate dichiarano di non aver subito direttamente reati, ma di avere paura in base ad un copione già sentito e ripetuto in televisione.

Questo non vuol dire che si tratta di un falso problema, ma bisogna avere la consapevolezza che la paura che attraversa le nostre società post industriali è una paura profonda che riguarda l’incertezza del futuro e la paura concreta di dover modificare il tenore di vita che si è conquistato e che si affronta prendendosela con l’ultimo arrivato (l’immigrato) o con il più debole (il malato psichico o il tossicodipendente ecc.)

Dicendo questo non si vuole negare il problema della sicurezza, né si vuole dire che i servizi sociali non possano fare di più e meglio per intercettare questo disagio dilagante e farsene carico, però una cosa è certa e cioè che i servizi non possono farlo da soli.

I servizi sociali, (sia quelli presenti sul territorio sia quelli più specialistici), non possono operare concretamente per farsi carico del disagio che attraversa i vari strati di società, se non c’è una volontà sociale e politica, quello che si chiama “mandato istituzionale” che legittimi il loro intervento, anche attraverso le risorse necessarie, i finanziamenti e le politiche finalizzate all’ascolto e alla rassicurazione delle persone. Una società avanzata come la nostra non può considerare i servizi sociali un optional o uno spreco, ma essi sono l’espressione di una società evoluta che intende andare alla radice dei problemi, cercando di trovare soluzioni adeguate agli stessi.

Fino a quando la classe dirigente del nostro paese continuerà, invece, a seguire per ragioni di puro consenso le richieste della popolazione, rafforzandone le forme di pulsioni più basse ed emotive, anziché guidarla e indirizzarla attraverso l’individuazione delle soluzioni ai problemi che l’angosciano, i servizi avranno difficoltà a raggiungere i propri obiettivi.

La legislazione emanata nell’anno 2000 sia in campo sociale con la legge Quadro sui servizi integrati alla persona (l. 328/2000)” che attraverso la coniugazione dei bisogni della popolazione con le risorse messe a disposizione sia dalle istituzioni locali e statali, ma soprattutto dalla comunità territoriale in forme di solidarietà e imprenditorialità sociale, forme che si erano molto sviluppate nel corso degli anni in un’ottica di sussidiarietà con l’ente pubblico, sia in campo penale: “Nuovo regolamento di esecuzione dell’Ordinamento Penitenziario L. 230/2000”, che recepiva le istanze più innovative della legislazione sociale e dava indicazioni chiare agli allora CSSA oggi UEPE, circa le modalità con cui dovevano integrarsi con il territorio, per soddisfare i bisogni dei soggetti sottoposti ad esecuzione penale. avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per le politiche sociali in risposta alle esigenze delle popolazioni, attraverso una programmazione integrata a livello territoriale che tenesse conto dei fenomeni sociali più evidenti ed emergenti, con il contributo dei servizi pubblici e privati, operanti su quel territorio e anche della popolazione attraverso le sue forme organizzate.

Questo però non è avvenuto o non è avvenuto dappertutto, perché sono mancati i finanziamenti necessari e la volontà politica di realizzare una vera integrazione, nonché la necessaria divulgazione e affermazione di questa nuova cultura dei servizi.

Occorre, quindi che ciascuno riveda, superando le superficiali e semplificate rappresentazioni mediatiche, l’idea che ha della società, della convivenza civile, della struttura che vuole dare al sistema dei servizi e alla persona e della concezione della pena. Noi siamo convinti che la sicurezza e una vita sociale soddisfacente per tutti è garantita da un sistema democratico che si rivolga al cittadino in quanto persona nel suo ”Intero” al di là della sua condizione particolare di ricco, povero, malato, disoccupato, detenuto, immigrato ecc.

Anna Muschitiello, Segretaria nazionale
Coordinamento assistenti sociali della giustizia (CASG)