SPAZIO: PENSIERI LIBERI-IL DISSENSO DEL PRESIDENTE MARGARA AL PROGETTO DI UTILIZZAZIONE DELLA POLIZIA PENITENZIARIA NEGLI UEPE
Il presente scritto esprime il dissenso più completo rispetto al progetto di utilizzazione di personale di Polizia penitenziaria ad integrazione del personale di servizio sociale nella attività degli Uffici per la esecuzione penale esterna, anche se, come è ovvio, sul solo piano del controllo.
Tale dissenso è fondato su una serie di motivazioni che dimostrano molto di più della sola inopportunità del progetto. Dimostrano, cioè, la ragionevole certezza della compromissione del lavoro svolto sino ad oggi dagli Uffici in questione sia sul piano della qualità, sia sul piano dell’efficacia, sia sul piano dell’ordine interno degli Uffici medesimi, che sarà sostituito dalla conflittualità fra personale appartenente a ruoli sicuramente eterogenei.
L’introduzione della Polizia penitenziaria negli UEPE con funzioni operative nell’ambito della attività degli Uffici è estranea alle previsioni normative.
L’art. 72 dell’Ordinamento penitenziario descrive sinteticamente l’attività degli Uffici e prevede inoltre che la organizzazione degli stessi è disciplinata dal regolamento di esecuzione alla legge. E’ l’art. 118 del regolamento che descrive analiticamente organizzazione ed attività degli uffici. Sembra superfluo osservare che il regolamento adottato dal Ministro e previsto dal comma 1 del nuovo testo dell’art. 72 è norma di livello inferiore al regolamento di esecuzione citato, che ai sensi art.86 O.P. è dato con decreto Presidente repubblica su proposta dei ministri della giustizia e del tesoro, di concerto, in parte, con il Ministro della istruzione.
Circa la organizzazione, mentre, nel regolamento, vi è la previsione esplicita di personale non di servizio sociale per attività amministrativa e contabile e la possibile ed eventuale collaborazione di esperti dell’osservazione alla attività specifica di servizio sociale, non solo manca qualsiasi previsione di una possibile attività di controllo di polizia, ma la attività di controllo è prevista tra quelle proprie del servizio sociale e nel quadro delle specifiche modalità proprie di tale servizio. La lettura del comma 8 dell’art. 118 (relativo agli interventi di servizio sociale nel corso del trattamento in ambiente esterno e, quindi, particolarmente nella misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale) chiarisce come si articolano gli interventi e li descrive e li qualifica come propri della specifica professionalità di servizio sociale.
D’altronde, va puntualizzato che si parla qui essenzialmente della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, per la quale la denominazione stessa è abbastanza perentoria sulla individuazione del servizio sociale come titolare e affidatario della esecuzione della misura. Quanto, infatti, alle altre misure alternative: per la detenzione domiciliare, il controllo è affidato agli organi di polizia ordinari e, per la semilibertà, vale la disposizione del comma 3 dell’art. 101 del regolamento di esecuzione, che va interpretata nel senso che, in primo luogo, "la vigilanza e l’assistenza del soggetto nell’ambiente libero" è svolta dal centro di servizio sociale (oggi UEPE), ma che, affidata "la responsabilità del trattamento" al direttore, questi può coinvolgere il personale dell’istituto penitenziario di cui dispone, compresa la Polizia penitenziaria.
Nella sentenza costituzionale n. 343/1987, puntuale in termini di affidamento in prova al servizio sociale, si sottolinea che, con tale misura, si attua la "imposizione di misure limitative – ma non privative – della libertà personale e l’apprestamento di forme di assistenza… idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione". I due aspetti sono dunque inscindibili e non possono essere gestiti da portatori di professionalità eterogenee.
2. La conferma delle difficoltà di convivenza di attività di servizio sociale (e di sostegno riabilitativo) e di attività di polizia.
Sembra utile rilevare alcune situazione nelle quali l’avvicinamento di personale che opera sul versante del trattamento riabilitativo e del personale di polizia crea aspetti di conflittualità.
Prima situazione. In linea di massima, le comunità che gestiscono programmi terapeutici relativi alla tossicodipendenza accettano solo affidati in prova al servizio sociale e non detenuti domiciliari, in quanto la seconda misura comporta i controlli di polizia, che creano problemi al regolare svolgimento dell’inserimento e della cura comunitaria. In questa situazione, quindi, gli aspetti di incompatibilità fra il trattamento di assistenza e cura in funzione riabilitativa e quello di polizia in funzione di controllo vengono valutati decisamente presente.
Seconda situazione. La pratica della esecuzione degli affidamenti in prova conosce già attualmente i controlli dei normali organi di polizia: peraltro molto infrequenti nelle zone urbane da parte della Polizia di Stato, ma molto frequenti, invece, nelle realtà urbane minori, generalmente da parte dei Carabinieri. Tali controlli pongono, in più casi, notevoli difficoltà, nello svolgersi del percorso di reinserimento, sia all’affidato che agli operatori di servizio sociale. Le modalità del controllo di polizia (accessi, per vero non richiesti, sul luogo di lavoro, visite in ore avanzate della notte, facilmente percepibili dal vicinato, da parte di personale sempre in divisa e in genere non informato del significato della misura alternativa e non a conoscenza della persona controllata e delle condizioni sue e della sua famiglia) seguono standard che non possono rispettare le regole minime della privacy e della discrezione. Ma il mancato rispetto di tali regole danneggia il regolare svolgimento del percorso di reinserimento sociale dell’affidato e la attività propria del servizio sociale. L’eterogeneità dei due interventi – di servizio sociale e di polizia – risulta chiaro. Fra l’altro, per quanto si ricava dalla esperienza, l’organo di polizia indirizza il suo rapporto, nel caso di verifica di una violazione delle prescrizioni, al magistrato di sorveglianza, non all’UEPE.
Terza situazione. Questa rivela la differenza di sostanza e di qualità fra intervento di servizio sociale, anche sul versante del controllo, e intervento di polizia. La situazione cui si accenna è quella della esecuzione della liberazione condizionale, misura alternativa attuata attraverso l’applicazione della libertà vigilata, gestita dagli organi di polizia ordinari. Nella esecuzione di tale misura, nei confronti dei condannati, "il servizio sociale svolge interventi di sostegno e di assistenza al fine del loro reinserimento sociale" (art. 55 Ord.penit.). Ora, per conoscere l’effettivo andamento della misura, le notizie che fornisce l’organo di polizia riguardano essenzialmente la conformazione o meno della persone alle prescrizioni formali della libertà vigilata (presentazioni periodiche, permanenza nella abitazione in determinate ore, mancato spostamento da comune o provincia di residenza, etc.), mentre per conoscere il procedere del percorso di reinserimento sociale della persona, cioè la sostanza dell’andamento della misura, sono necessarie le informazioni del servizio sociale sull’inserimento lavorativo e socio-familiare della persona. Il che significa che, anche sul piano del controllo, quello svolto dal servizio sociale è più significativo e si rivela in stretta connessione con le attività di assistenza e sostegno, così come rilevava la sentenza costituzionale n.343/1987, citata al numero precedente.
3. I problemi organizzativi posti dalla presenza di personale di Polizia penitenziaria presso gli UEPE con funzioni di controllo nella attività di servizio sociale.
In passato, nei centri di servizio sociale adulti maggiori, la presenza di alcune unità di Polizia penitenziaria con funzioni esecutive - conduzione automezzi, recapito corrispondenza, servizio di vigilanza interna per l’accesso dei visitatori - così come accade negli istituti penitenziari per la mancata presenza di personale di ruolo in tali funzioni, non ha creato particolari problemi.
Si può, invece, prevedere che questo accada quando il personale di Polizia penitenziaria svolga il proprio servizio, sia pure solo in funzioni di controllo, accanto al personale di servizio sociale nella attività di gestione della misura alternativa, particolarmente di quella dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Si possono prevedere due soluzioni organizzative.
Prima soluzione. Nella prima soluzione, il personale di Polizia penitenziaria è aggregato all’UEPE e dipende gerarchicamente, come tutto il restante personale, dalla direzione dell’Ufficio. E’ molto probabile che, anche in tale situazione, l’esercizio del potere gerarchico del direttore non sarà senza problemi. Il gruppo operativo della Polizia penitenziaria tenderà a considerarsi come autonomo nella gestione del proprio servizio, una volta risolto, il che non è affatto scontato, il legame con il reparto di polizia penitenziaria esistente presso l’istituto penitenziario locale. I problemi saranno vari: si potrà prevedere una ricerca di autonomia nei tempi di svolgimento dei controlli, nella individuazione dei controlli, nella intensità degli stessi, nelle modalità di svolgimento (è scontato che sorgerà il problema se il personale opererà con la divisa o meno), nella autonomia di riferire (fare rapporto, come si dice) al magistrato di sorveglianza e eventualmente anche ad autorità giudiziarie diverse. Insomma: in tale ipotesi organizzativa, la tensione fra potere gerarchico della direzione e ricerca di autonomia nel servizio del nucleo – piccolo o grande che sia – del personale di polizia penitenziaria, si prospetta estremamente probabile: in termini maggiori o minori a seconda delle singole situazioni.
Seconda soluzione. Ma, le voci insistenti parlano di una ben diversa soluzione organizzativa: quella di commissariati territoriali di Polizia penitenziaria, autonomi dagli UEPE, collocati oppure no presso gli stessi. Ciò vorrebbe dire che il servizio in tutti i suoi aspetti sarebbe organizzato dal personale di polizia penitenziaria in autonomia, con le stesse caratteristiche dei servizi svolti attualmente in modo spontaneo e, come detto, pienamente autonomo dalla Polizia di Stato o dai Carabinieri. Tutti i problemi che abbiamo indicato possibili nell’altra soluzione diverrebbero certi, anche perché sarebbe inevitabile che i due organismi – UEPE e commissariato – presentino organizzazioni gerarchiche diverse ed autonome. Più che mai si manifesterebbe la eterogeneità dei due interventi. Tenuto conto, poi, di quanto analiticamente previsto dal comma 8 dell’art. 118 del Reg.es. all’O.P., e dalla stretta connessione che ne risulta fra aiuto e controllo, si andrebbe incontro al sovrapporsi di due attività che discendono da professionalità diverse, inevitabilmente configgenti nel rapporto che viene costituito fra servizio e affidato. Tornando ancora alla sentenza costituzionale n. 343/87, si assisterebbe alla scissione di ciò che la stessa considerava inscindibile: l’assistenza e il controllo.
Per concludere: è possibile ipotizzare che, per alcuni aspetti della esecuzione della misura alternativa, gli assistenti sociali operanti potrebbero essere convenientemente sussidiati da operatori di minore livello professionale, ma ciò dovrebbe avvenire all’interno della organizzazione degli UEPE, da parte di figure professionali diverse e subalterne agli assistenti sociali e gerarchicamente dipendenti dalla direzione degli Uffici. La soluzione della Polizia penitenziaria negli UEPE, profondamente diversa da quella ora detta, avrebbe l’ulteriore svantaggio di risolvere in modo sbagliato problemi reali e, conseguentemente, di ritardare (sine die) l’adozione di soluzioni corrette.
4. I risultati della misura alternativa dell’affidamento in prova sono molto positivi: una ricerca della Direzione generale esecuzione penale esterna del DAP.
Si tratta di una ricerca presentata nel corso del 2006. La stessa era mirata essenzialmente alla valutazione della recidiva in nuovi reati da parte dei fruitori di affidamento in prova negli anni seguiti alla conclusione della esecuzione dello stesso. Si dispone delle conclusioni generali. Si ricavano dalla stessa le notizie che seguono.
Tre punti fondamentali per conoscere la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, il suo andamento e la sua efficacia:
il numero;
le revoche;
la recidiva dopo la esecuzione della misura.
Il numero.
La crescita delle misure alternative è stata costante. In particolare, dal 1991, in cui le misure alternative erano complessivamente inferiori a 5.000, se ne avuta la decuplicazione, avendo raggiunto quasi quota 50.000 nel 2005 e precisamente: 32.000 affidamenti in prova, 14.000 detenzioni domiciliari; 3.500 semilibertà.
I casi di revoca.
Dai casi di revoca indicati nella ricerca si espungono quelli conseguenti alla intervenuta modifica della posizione giuridica, tale da determinare la cessazione (non si tratta di casi di revoca, ma di cessazione, come indicato dall’art. 51bis, O.P.). Precisato questo, si rileva che, dal 1999 al 2005, le revoche degli affidamenti in prova si sono mantenute a livelli inferiori o superiori al 4% del totale degli affidamenti concessi (dal 3, 85 del 1999 al 4, 64 del 2005).
Risultano anche le cause di revoca: quella ampiamente prevalente è l’andamento negativo della misura. E’ significativo che la revoca per commissione di nuovi reati durante la misura presenta valori irrisori: dallo 0,20% nel 1999 al massimo dello 0,29% nel 2000, scendendo allo 0,16% nel 2005).
I casi di recidiva
La ricerca della Direzione generale della esecuzione penale esterna del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, cui ci si riferisce, è stata condotta su 8.817 casi di affidamento, conclusi nel 1998 in tutta Italia. La stessa ha riscontrato che solo nel 19% dei casi vi era stata recidiva negli anni successivi al 1998 fino al 2005 e, quindi, per 7 anni. Parallelamente si è verificato, fra tutti gli scarcerati a fine pena nel 1998 (5772), non fruitori pertanto di misure alternative, che aveva recidivato il 68,45%. Incontestabile la maggiore efficacia delle misure alternative, con riferimento a questo indicatore decisivo di recupero rappresentato dalla mancata ricaduta nel reato degli affidati.
Se si scende, poi, ad una ulteriore analisi dei casi di recidiva si vedrà che i valori cambiano notevolmente nei casi di affidamenti in prova in casi particolari per tossicodipendenti. Per questi:
nei casi di ammessi dalla detenzione (che rappresentano solo il 4% del totale degli affidati), i casi di recidiva salgono al 42%;
nei casi di ammessi dalla libertà (che rappresentano il 22% del totale degli affidati), la recidiva riguarda il 30%.
Per gli affidamenti ordinari - 20% del totale dalla detenzione e 48% del totale dalla libertà - la percentuale di casi di recidiva è molto inferiore e contribuisce (insieme agli affidati militari: solo il 6% del totale, ma con recidiva del 5%) al valore finale riferito sopra: per i primi è il 21%, per i secondi (quasi la metà del totale complessivo) il 17%.
Da altra ricerca (MISURA, svolta dall’Università di Firenze insieme al PRAP e ai CSSA toscani, per i soli affidati di questa regione, nel 2004) risulta fra l’altro che, in un numero molto elevato di casi, i fruitori della misura alternativa venivano da storie giudiziarie con frequenti recidive.
Conclusioni.
I Centri di servizio sociale adulti (oggi UEPE), nel quadro del sistema delle misure alternative esistente, hanno funzionato in modo eccellente. Bisogna rilevare, poi, che, essendo stata espletata la ricerca sui casi conclusi nel 1998, a tale data i CSSA avevano ancora un organico molto modesto, elevato e quasi raddoppiato solo con la legge Simeone (27/5/1998, n. 165). Allo stato, pertanto, gli UEPE hanno migliorato la loro organizzazione e non hanno certamente bisogno che venga turbata da interventi organizzativi sbagliati, come quelli indicati ai n. 1, 2 e 3 di questo documento.
5. La precedente esperienza USA sull’abbandono della linea di servizio sociale nelle misure alternative.
Si dà atto che il nostro sistema di misure alternative è molto diverso da quello degli USA. Si resta, però, colpiti dalla precedente esperienza verificatasi in quel sistema proprio in relazione al progressivo abbandono della gestione di servizio sociale nelle misure alternative.
Ricavo la citazione che segue dal libro di Loic Wacquant ("Punire i poveri, Il nuovo governo della insicurezza sociale", Ed. Derive/approdi, 2006): "Trent’anni fa i parole officers uscivano dalle scuole per assistenti sociali e studiavano i fondamenti della psicologia e della sociologia. Oggi, mentre i casi da seguire sono raddoppiati, essi si formano in scuole di giustizia criminale dove apprendono le tecniche di polizia e l’uso delle armi da fuoco. La nuova filosofia panottica che li guida è sottolineata da questo slittamento semantico: i programmi di parole sono stati recentemente ribattezzati "liberazione sotto controllo" in Florida e "controllo di comunità" nello stato di Washington. Sotto il nuovo regime liberal-paternalista, infatti, l’individuo liberato con la condizionale non è tanto un ex-pregiudicato restituito alla libertà quanto un quasi prigioniero in attesa di un imminente ritorno dietro le sbarre"(pg. 144). E, in precedenza (pg. 143), si leggono alcuni dati: "Da "trampolino", la liberazione con la condizionale è diventata una "trappola": tra il 1985 e il 1997, il tasso degli individui in libertà vigilata che completano con successo la fase di "supervisione esterna" è crollato dal 70% al 44%. E nel giro di vent’anni, l’impatto di quelli ripresi e rispediti in carcere è raddoppiato, passando dal 16% di nuovi ingressi nel 1980 al 34% nel 1997".
Utile una precisazione: questi dati non riguardano la recidiva dopo il completamento della misura, ma riguardano gli insuccessi durante la esecuzione della misura, cioè quei casi che si sono esaminati sopra come revoche.
Non c’è bisogno di commento. C’è solo da prepararsi all’aumento del tasso di recidiva che seguirà la attuazione di un sistema di affidamento in prova congiunto al servizio sociale e ad organi di polizia.
(Sandro Margara)
Tale dissenso è fondato su una serie di motivazioni che dimostrano molto di più della sola inopportunità del progetto. Dimostrano, cioè, la ragionevole certezza della compromissione del lavoro svolto sino ad oggi dagli Uffici in questione sia sul piano della qualità, sia sul piano dell’efficacia, sia sul piano dell’ordine interno degli Uffici medesimi, che sarà sostituito dalla conflittualità fra personale appartenente a ruoli sicuramente eterogenei.
L’introduzione della Polizia penitenziaria negli UEPE con funzioni operative nell’ambito della attività degli Uffici è estranea alle previsioni normative.
L’art. 72 dell’Ordinamento penitenziario descrive sinteticamente l’attività degli Uffici e prevede inoltre che la organizzazione degli stessi è disciplinata dal regolamento di esecuzione alla legge. E’ l’art. 118 del regolamento che descrive analiticamente organizzazione ed attività degli uffici. Sembra superfluo osservare che il regolamento adottato dal Ministro e previsto dal comma 1 del nuovo testo dell’art. 72 è norma di livello inferiore al regolamento di esecuzione citato, che ai sensi art.86 O.P. è dato con decreto Presidente repubblica su proposta dei ministri della giustizia e del tesoro, di concerto, in parte, con il Ministro della istruzione.
Circa la organizzazione, mentre, nel regolamento, vi è la previsione esplicita di personale non di servizio sociale per attività amministrativa e contabile e la possibile ed eventuale collaborazione di esperti dell’osservazione alla attività specifica di servizio sociale, non solo manca qualsiasi previsione di una possibile attività di controllo di polizia, ma la attività di controllo è prevista tra quelle proprie del servizio sociale e nel quadro delle specifiche modalità proprie di tale servizio. La lettura del comma 8 dell’art. 118 (relativo agli interventi di servizio sociale nel corso del trattamento in ambiente esterno e, quindi, particolarmente nella misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale) chiarisce come si articolano gli interventi e li descrive e li qualifica come propri della specifica professionalità di servizio sociale.
D’altronde, va puntualizzato che si parla qui essenzialmente della misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, per la quale la denominazione stessa è abbastanza perentoria sulla individuazione del servizio sociale come titolare e affidatario della esecuzione della misura. Quanto, infatti, alle altre misure alternative: per la detenzione domiciliare, il controllo è affidato agli organi di polizia ordinari e, per la semilibertà, vale la disposizione del comma 3 dell’art. 101 del regolamento di esecuzione, che va interpretata nel senso che, in primo luogo, "la vigilanza e l’assistenza del soggetto nell’ambiente libero" è svolta dal centro di servizio sociale (oggi UEPE), ma che, affidata "la responsabilità del trattamento" al direttore, questi può coinvolgere il personale dell’istituto penitenziario di cui dispone, compresa la Polizia penitenziaria.
Nella sentenza costituzionale n. 343/1987, puntuale in termini di affidamento in prova al servizio sociale, si sottolinea che, con tale misura, si attua la "imposizione di misure limitative – ma non privative – della libertà personale e l’apprestamento di forme di assistenza… idonee a funzionare ad un tempo come strumenti di controllo sociale e di promozione della risocializzazione". I due aspetti sono dunque inscindibili e non possono essere gestiti da portatori di professionalità eterogenee.
2. La conferma delle difficoltà di convivenza di attività di servizio sociale (e di sostegno riabilitativo) e di attività di polizia.
Sembra utile rilevare alcune situazione nelle quali l’avvicinamento di personale che opera sul versante del trattamento riabilitativo e del personale di polizia crea aspetti di conflittualità.
Prima situazione. In linea di massima, le comunità che gestiscono programmi terapeutici relativi alla tossicodipendenza accettano solo affidati in prova al servizio sociale e non detenuti domiciliari, in quanto la seconda misura comporta i controlli di polizia, che creano problemi al regolare svolgimento dell’inserimento e della cura comunitaria. In questa situazione, quindi, gli aspetti di incompatibilità fra il trattamento di assistenza e cura in funzione riabilitativa e quello di polizia in funzione di controllo vengono valutati decisamente presente.
Seconda situazione. La pratica della esecuzione degli affidamenti in prova conosce già attualmente i controlli dei normali organi di polizia: peraltro molto infrequenti nelle zone urbane da parte della Polizia di Stato, ma molto frequenti, invece, nelle realtà urbane minori, generalmente da parte dei Carabinieri. Tali controlli pongono, in più casi, notevoli difficoltà, nello svolgersi del percorso di reinserimento, sia all’affidato che agli operatori di servizio sociale. Le modalità del controllo di polizia (accessi, per vero non richiesti, sul luogo di lavoro, visite in ore avanzate della notte, facilmente percepibili dal vicinato, da parte di personale sempre in divisa e in genere non informato del significato della misura alternativa e non a conoscenza della persona controllata e delle condizioni sue e della sua famiglia) seguono standard che non possono rispettare le regole minime della privacy e della discrezione. Ma il mancato rispetto di tali regole danneggia il regolare svolgimento del percorso di reinserimento sociale dell’affidato e la attività propria del servizio sociale. L’eterogeneità dei due interventi – di servizio sociale e di polizia – risulta chiaro. Fra l’altro, per quanto si ricava dalla esperienza, l’organo di polizia indirizza il suo rapporto, nel caso di verifica di una violazione delle prescrizioni, al magistrato di sorveglianza, non all’UEPE.
Terza situazione. Questa rivela la differenza di sostanza e di qualità fra intervento di servizio sociale, anche sul versante del controllo, e intervento di polizia. La situazione cui si accenna è quella della esecuzione della liberazione condizionale, misura alternativa attuata attraverso l’applicazione della libertà vigilata, gestita dagli organi di polizia ordinari. Nella esecuzione di tale misura, nei confronti dei condannati, "il servizio sociale svolge interventi di sostegno e di assistenza al fine del loro reinserimento sociale" (art. 55 Ord.penit.). Ora, per conoscere l’effettivo andamento della misura, le notizie che fornisce l’organo di polizia riguardano essenzialmente la conformazione o meno della persone alle prescrizioni formali della libertà vigilata (presentazioni periodiche, permanenza nella abitazione in determinate ore, mancato spostamento da comune o provincia di residenza, etc.), mentre per conoscere il procedere del percorso di reinserimento sociale della persona, cioè la sostanza dell’andamento della misura, sono necessarie le informazioni del servizio sociale sull’inserimento lavorativo e socio-familiare della persona. Il che significa che, anche sul piano del controllo, quello svolto dal servizio sociale è più significativo e si rivela in stretta connessione con le attività di assistenza e sostegno, così come rilevava la sentenza costituzionale n.343/1987, citata al numero precedente.
3. I problemi organizzativi posti dalla presenza di personale di Polizia penitenziaria presso gli UEPE con funzioni di controllo nella attività di servizio sociale.
In passato, nei centri di servizio sociale adulti maggiori, la presenza di alcune unità di Polizia penitenziaria con funzioni esecutive - conduzione automezzi, recapito corrispondenza, servizio di vigilanza interna per l’accesso dei visitatori - così come accade negli istituti penitenziari per la mancata presenza di personale di ruolo in tali funzioni, non ha creato particolari problemi.
Si può, invece, prevedere che questo accada quando il personale di Polizia penitenziaria svolga il proprio servizio, sia pure solo in funzioni di controllo, accanto al personale di servizio sociale nella attività di gestione della misura alternativa, particolarmente di quella dell’affidamento in prova al servizio sociale.
Si possono prevedere due soluzioni organizzative.
Prima soluzione. Nella prima soluzione, il personale di Polizia penitenziaria è aggregato all’UEPE e dipende gerarchicamente, come tutto il restante personale, dalla direzione dell’Ufficio. E’ molto probabile che, anche in tale situazione, l’esercizio del potere gerarchico del direttore non sarà senza problemi. Il gruppo operativo della Polizia penitenziaria tenderà a considerarsi come autonomo nella gestione del proprio servizio, una volta risolto, il che non è affatto scontato, il legame con il reparto di polizia penitenziaria esistente presso l’istituto penitenziario locale. I problemi saranno vari: si potrà prevedere una ricerca di autonomia nei tempi di svolgimento dei controlli, nella individuazione dei controlli, nella intensità degli stessi, nelle modalità di svolgimento (è scontato che sorgerà il problema se il personale opererà con la divisa o meno), nella autonomia di riferire (fare rapporto, come si dice) al magistrato di sorveglianza e eventualmente anche ad autorità giudiziarie diverse. Insomma: in tale ipotesi organizzativa, la tensione fra potere gerarchico della direzione e ricerca di autonomia nel servizio del nucleo – piccolo o grande che sia – del personale di polizia penitenziaria, si prospetta estremamente probabile: in termini maggiori o minori a seconda delle singole situazioni.
Seconda soluzione. Ma, le voci insistenti parlano di una ben diversa soluzione organizzativa: quella di commissariati territoriali di Polizia penitenziaria, autonomi dagli UEPE, collocati oppure no presso gli stessi. Ciò vorrebbe dire che il servizio in tutti i suoi aspetti sarebbe organizzato dal personale di polizia penitenziaria in autonomia, con le stesse caratteristiche dei servizi svolti attualmente in modo spontaneo e, come detto, pienamente autonomo dalla Polizia di Stato o dai Carabinieri. Tutti i problemi che abbiamo indicato possibili nell’altra soluzione diverrebbero certi, anche perché sarebbe inevitabile che i due organismi – UEPE e commissariato – presentino organizzazioni gerarchiche diverse ed autonome. Più che mai si manifesterebbe la eterogeneità dei due interventi. Tenuto conto, poi, di quanto analiticamente previsto dal comma 8 dell’art. 118 del Reg.es. all’O.P., e dalla stretta connessione che ne risulta fra aiuto e controllo, si andrebbe incontro al sovrapporsi di due attività che discendono da professionalità diverse, inevitabilmente configgenti nel rapporto che viene costituito fra servizio e affidato. Tornando ancora alla sentenza costituzionale n. 343/87, si assisterebbe alla scissione di ciò che la stessa considerava inscindibile: l’assistenza e il controllo.
Per concludere: è possibile ipotizzare che, per alcuni aspetti della esecuzione della misura alternativa, gli assistenti sociali operanti potrebbero essere convenientemente sussidiati da operatori di minore livello professionale, ma ciò dovrebbe avvenire all’interno della organizzazione degli UEPE, da parte di figure professionali diverse e subalterne agli assistenti sociali e gerarchicamente dipendenti dalla direzione degli Uffici. La soluzione della Polizia penitenziaria negli UEPE, profondamente diversa da quella ora detta, avrebbe l’ulteriore svantaggio di risolvere in modo sbagliato problemi reali e, conseguentemente, di ritardare (sine die) l’adozione di soluzioni corrette.
4. I risultati della misura alternativa dell’affidamento in prova sono molto positivi: una ricerca della Direzione generale esecuzione penale esterna del DAP.
Si tratta di una ricerca presentata nel corso del 2006. La stessa era mirata essenzialmente alla valutazione della recidiva in nuovi reati da parte dei fruitori di affidamento in prova negli anni seguiti alla conclusione della esecuzione dello stesso. Si dispone delle conclusioni generali. Si ricavano dalla stessa le notizie che seguono.
Tre punti fondamentali per conoscere la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale, il suo andamento e la sua efficacia:
il numero;
le revoche;
la recidiva dopo la esecuzione della misura.
Il numero.
La crescita delle misure alternative è stata costante. In particolare, dal 1991, in cui le misure alternative erano complessivamente inferiori a 5.000, se ne avuta la decuplicazione, avendo raggiunto quasi quota 50.000 nel 2005 e precisamente: 32.000 affidamenti in prova, 14.000 detenzioni domiciliari; 3.500 semilibertà.
I casi di revoca.
Dai casi di revoca indicati nella ricerca si espungono quelli conseguenti alla intervenuta modifica della posizione giuridica, tale da determinare la cessazione (non si tratta di casi di revoca, ma di cessazione, come indicato dall’art. 51bis, O.P.). Precisato questo, si rileva che, dal 1999 al 2005, le revoche degli affidamenti in prova si sono mantenute a livelli inferiori o superiori al 4% del totale degli affidamenti concessi (dal 3, 85 del 1999 al 4, 64 del 2005).
Risultano anche le cause di revoca: quella ampiamente prevalente è l’andamento negativo della misura. E’ significativo che la revoca per commissione di nuovi reati durante la misura presenta valori irrisori: dallo 0,20% nel 1999 al massimo dello 0,29% nel 2000, scendendo allo 0,16% nel 2005).
I casi di recidiva
La ricerca della Direzione generale della esecuzione penale esterna del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, cui ci si riferisce, è stata condotta su 8.817 casi di affidamento, conclusi nel 1998 in tutta Italia. La stessa ha riscontrato che solo nel 19% dei casi vi era stata recidiva negli anni successivi al 1998 fino al 2005 e, quindi, per 7 anni. Parallelamente si è verificato, fra tutti gli scarcerati a fine pena nel 1998 (5772), non fruitori pertanto di misure alternative, che aveva recidivato il 68,45%. Incontestabile la maggiore efficacia delle misure alternative, con riferimento a questo indicatore decisivo di recupero rappresentato dalla mancata ricaduta nel reato degli affidati.
Se si scende, poi, ad una ulteriore analisi dei casi di recidiva si vedrà che i valori cambiano notevolmente nei casi di affidamenti in prova in casi particolari per tossicodipendenti. Per questi:
nei casi di ammessi dalla detenzione (che rappresentano solo il 4% del totale degli affidati), i casi di recidiva salgono al 42%;
nei casi di ammessi dalla libertà (che rappresentano il 22% del totale degli affidati), la recidiva riguarda il 30%.
Per gli affidamenti ordinari - 20% del totale dalla detenzione e 48% del totale dalla libertà - la percentuale di casi di recidiva è molto inferiore e contribuisce (insieme agli affidati militari: solo il 6% del totale, ma con recidiva del 5%) al valore finale riferito sopra: per i primi è il 21%, per i secondi (quasi la metà del totale complessivo) il 17%.
Da altra ricerca (MISURA, svolta dall’Università di Firenze insieme al PRAP e ai CSSA toscani, per i soli affidati di questa regione, nel 2004) risulta fra l’altro che, in un numero molto elevato di casi, i fruitori della misura alternativa venivano da storie giudiziarie con frequenti recidive.
Conclusioni.
I Centri di servizio sociale adulti (oggi UEPE), nel quadro del sistema delle misure alternative esistente, hanno funzionato in modo eccellente. Bisogna rilevare, poi, che, essendo stata espletata la ricerca sui casi conclusi nel 1998, a tale data i CSSA avevano ancora un organico molto modesto, elevato e quasi raddoppiato solo con la legge Simeone (27/5/1998, n. 165). Allo stato, pertanto, gli UEPE hanno migliorato la loro organizzazione e non hanno certamente bisogno che venga turbata da interventi organizzativi sbagliati, come quelli indicati ai n. 1, 2 e 3 di questo documento.
5. La precedente esperienza USA sull’abbandono della linea di servizio sociale nelle misure alternative.
Si dà atto che il nostro sistema di misure alternative è molto diverso da quello degli USA. Si resta, però, colpiti dalla precedente esperienza verificatasi in quel sistema proprio in relazione al progressivo abbandono della gestione di servizio sociale nelle misure alternative.
Ricavo la citazione che segue dal libro di Loic Wacquant ("Punire i poveri, Il nuovo governo della insicurezza sociale", Ed. Derive/approdi, 2006): "Trent’anni fa i parole officers uscivano dalle scuole per assistenti sociali e studiavano i fondamenti della psicologia e della sociologia. Oggi, mentre i casi da seguire sono raddoppiati, essi si formano in scuole di giustizia criminale dove apprendono le tecniche di polizia e l’uso delle armi da fuoco. La nuova filosofia panottica che li guida è sottolineata da questo slittamento semantico: i programmi di parole sono stati recentemente ribattezzati "liberazione sotto controllo" in Florida e "controllo di comunità" nello stato di Washington. Sotto il nuovo regime liberal-paternalista, infatti, l’individuo liberato con la condizionale non è tanto un ex-pregiudicato restituito alla libertà quanto un quasi prigioniero in attesa di un imminente ritorno dietro le sbarre"(pg. 144). E, in precedenza (pg. 143), si leggono alcuni dati: "Da "trampolino", la liberazione con la condizionale è diventata una "trappola": tra il 1985 e il 1997, il tasso degli individui in libertà vigilata che completano con successo la fase di "supervisione esterna" è crollato dal 70% al 44%. E nel giro di vent’anni, l’impatto di quelli ripresi e rispediti in carcere è raddoppiato, passando dal 16% di nuovi ingressi nel 1980 al 34% nel 1997".
Utile una precisazione: questi dati non riguardano la recidiva dopo il completamento della misura, ma riguardano gli insuccessi durante la esecuzione della misura, cioè quei casi che si sono esaminati sopra come revoche.
Non c’è bisogno di commento. C’è solo da prepararsi all’aumento del tasso di recidiva che seguirà la attuazione di un sistema di affidamento in prova congiunto al servizio sociale e ad organi di polizia.
(Sandro Margara)
Margara Alessandro- già presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, presidente della Fondazione Michelucci, autore di una proposta di riforma dell'Ordinamento penitenziario
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