L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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domenica 13 maggio 2007

FP CGIL NAZIONALE


Lettera aperta al Ministro della Giustizia
Sen. Clemente Mastella
Signor Ministro,
abbiamo ascoltato con attenzione le parole che lei ha voluto rivolgere al Presidente della Repubblica ed al personale penitenziario in occasione della visita al carcere romano di Rebibbia Nuovo Complesso e, ancora, ci troviamo a condividerne lunghi tratti.
E’ anche nostra la convinzione sul valore democratico di un sistema penitenziario che deve avere a fondamento del proprio mandato istituzionale le persone, i loro diritti inalienabili, la protezione della loro salute, il sostegno e lo sviluppo della loro partecipazione sociale, le opportunità e le tutele del lavoro.
Così come condividiamo l’esigenza che si avvii un articolato e rilevante processo riformatore del sistema delle pene e della loro esecuzione che abbia come prospettiva finale quella del ricorso alla detenzione come misura estrema, in un quadro più organico che renda sistematico il ricorso a misure penali diverse dal carcere.
Queste, d’altronde, erano orientamenti ed impegni che, oltre ad essere parte integrante dei programmi elettorali dell’Unione, erano stati già formalmente assunti da Lei all’atto del suo insediamento, ripetutamente rinnovati in occasioni pubbliche, non ultimo proprio nel suo discorso alla festa del Corpo della Polizia penitenziaria.
Non possiamo, quindi, non riconoscerLe coerenza e continuità.
Il provvedimento d’indulto, inoltre, per le difficoltà della sua genesi e per il contraddittorio alone d’incertezza politica che ne ha contraddistinto il percorso, Le imponeva, in quanto riconosciuto attore protagonista di quella scelta, l’adozione di un percorso organico di riforme e di interventi che operasse per evitare il drammatico rischio di una lettura postuma di quella decisione.
Non si può rischiare di dare ragione a chi, strumentalmente, non riconoscendo le drammatiche condizioni di vita detentiva che l’esperienza di Governo delle destre riconsegnava al Paese, ne paventava i rischi di inutilità, oltre che di pericolosità sociale.
Emblematico di tutto ciò il fatto che mentre lei dichiarava, di fronte alla più alta carica dello Stato, che il provvedimento di indulto oltre che "comportare l’adeguamento della presenza dei detenuti entro i limiti regolamentari, non ha prodotto – statistiche alla mano – alcuna crescita dei fenomeni criminali ", il Dipartimento della Pubblica Sicurezza rendeva noti i dati di un dossier che, quantomeno, rischiano di mettere in dubbio le sue affermazioni.
Tutto ciò non poteva che costringerla, in questo anno di Governo, ad assumere una strategia organica di interventi, normativi, ordinamentali, di riorganizzazione e di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro negli istituti penitenziari che desse senso ad un provvedimento di clemenza più che contrastato.
V’è, quindi, egregio Ministro una sostanziale condivisione della nostra organizzazione sindacale sui principi riformatori ripetutamente enunciati da Lei.
E’ proprio per dare sostanza a questa condivisione che l’abbiamo ripetutamente invitata ad operare fattivamente, non solo all’interno di quel quadro di interventi che deve vedere modificare quella parte scadente di legislazione offerta dal Governo di centro destra, come reputiamo siano le criminogene scelte assunte in tema di recidiva (ex Cirielli), di immigrazione clandestina (Bossi-Fini) e sulle tossicodipendenze (Fini–Giovanardi), ma anche per una vera operazione di riforma organica delle leggi penali, a partire dal secolare codice penale.
Le abbiamo, però, ripetutamente espresso anche il bisogno che, proprio a partire dalle formidabili prospettive che il provvedimento di indulto poteva offrire per un recupero di condizioni dignitose di vivibilità delle nostre carceri, Lei procedesse ad un piano di investimenti straordinari e di riorganizzazione che avesse l’ambizione di passare, almeno per quel che è nelle potestà di un Guardasigilli, dalle parole ai fatti.
Ma per costruire quel percorso nel quale la volontà politica, i valori del mondo del lavoro e quelli della solidarietà civile e sociale contribuiscano a quel ripetuto bisogno di riscatto del mondo penitenziario, è inevitabile partire da un dato: la condizione materiale in cui vivono oggi i cittadini privati della libertà personale, in cui operano le donne e gli uomini dell’amministrazione penitenziaria, quelli della polizia penitenziaria.
In estrema sintesi, egregio Ministro, ciò che il sindacato le ha chiesto è quello di preparare il sistema penitenziario a progetti riformatori più grandi recuperando preventivamente condizioni minime di rispetto della dignità di chi nelle carceri opera, di chi nelle carceri vive.
Su questo aspetto, egregio Ministro, avvertiamo, però, ritardi e "distrazioni", per usare eufemismi.
Ai riconoscimenti che lei ripetutamente tributa agli operatori penitenziari, ai dirigenti, agli educatori, agli assistenti sociali alle professionalità sanitarie penitenziarie, agli operatori delle aree tecniche amministrative e non ultima alla grande ed importante platea delle donne e degli uomini della Polizia penitenziaria non ha ancora fatto seguito alcun intervento concreto, alcun risultato spendibile proprio in quella necessaria attività di recupero di quelle condizioni materiali ormai più che degradate.
Continuano a permanere le stesse scoperture di organico (dal 30 al 50% rispetto ai fabbisogni) per le professionalità socio trattamentali, per quelle tecnico amministrative, per quelle dirigenziali e, nonostante ciò e le sue affermazioni sul bisogno di "stimolare l’area del trattamento" e della risocializzazione nessuna assunzione di personale può essere vantata a riguardo; come dichiarato dallo stesso direttore del carcere di Rebibbia, per circa 1.200 detenuti in quella struttura operano all’incirca 13 educatori, e quella romana non è l’esperienza più disastrata a riguardo.
Come può essere ragionevolmente credibile qualsiasi affermazione di rilancio di questa attività se non si modificano le condizioni date?
Identico ragionamento vale per le professionalità dell’assistenza sociale i cui carichi di lavoro, a condizioni normali, contemperano casi da seguire per ogni operatore da far rabbrividire un senso pur minino di logica e di ragionevole fattibilità.
Così come appaiono ormai "azzardate" le dichiarazioni tese a rilanciare il ruolo della Polizia penitenziaria avendo a riferimento esclusivamente l’assunzione di altri incarichi istituzionali al di fuori delle "mura domestiche" di un carcere e non perché questa non debba essere una strategia da assumere, anzi, ma perché, rendendola ormai unica distrae Lei, e con Lei l’Amministrazione da Lei orientata, dalla vera, urgente, imprescindibile esigenza di affrontare anche ciò che succede dentro quelle mura; le stesse che Lei, ci pare, continua a guardare da fuori (ovviamente al netto delle sue positive incursioni nei vari istituti del Paese).
Alla Polizia penitenziaria ancora oggi vengono negati i più elementari diritti contrattualmente sanciti: nel carcere femminile di Rebibbia, ad esempio, luogo visitato da Lei e dal Capo dello Stato, il dirigente ha formalizzato non più di qualche giorno fa l’impossibilità di garantire le ferie alle poliziotte penitenziarie! E non è, anche in questo caso, la parte "peggiore" di questo degradato mondo.
Le scoperture d’organico della Polizia penitenziaria nelle realtà del nord Italia, frutto della scellerata politica di gestione del personale dell’era Castelli, non sono state affatto recuperate né con assunzioni, né, ed è la cosa più importante, con adeguati piani di rientro, a partire da quella sciagurata situazione che vede circa un quarto della forza lavoro della Polizia penitenziaria adibita ad incarichi non istituzionali; in quest’ultimo anno quelle scoperture sono addirittura aumentate.
In Lombardia, ad esempio, regione in cui l’effetto indulto si è ormai drammaticamente consumato, sono circa 500 le unità di polizia penitenziaria distolte, per ragioni non facilmente accessibili, dai servizi istituzionali nella regione; stessa situazione in Emilia Romagna dove la fuga dalle realtà penitenziarie territoriali ha prodotto "evasioni" fuori regione per circa trecento unità di Polizia penitenziaria.
Tanto ovvia quanto inevitabile la contraddizione fra questo modo di interpretare l’attività di direzione di un Ministero così importante come la Giustizia e l’atteggiamento più complessivo del suo Governo sul lavoro pubblico. Altrettanto contraddittorio rischia di essere l’investimento, l’unico concretamente esigibile, per la stabilizzazione dei 500 ex ausiliari della Polizia penitenziaria.
Cominciamo ad avvertire, come contraltare a tutto ciò, le stesse sensazioni che abbiamo provato nella passata esperienza di governo, dove le esigenza concrete ed irrinunciabili delle singole realtà penitenziarie sono state ripetutamente sacrificate in nome di bisogni diversi e spesse volte pericolosissimi per la tenuta dell’intero sistema.
Nessun intervento strutturale teso a ricondurre a condizioni di legalità i luoghi detentivi e gli ambienti di lavoro: il regolamento penitenziario continua a non essere applicato, la legge 626 per la sicurezza sul lavoro, tanto per citare un tema caro al Capo dello Stato, è ripetutamente violata.
Sperequazioni ordinamentali nella Polizia penitenziaria rispetto alle altre Forze di Polizia permangono così come irrisolte le vertenze contrattuali afferenti all’intera platea dei lavoratori penitenziari, dal negato diritto al rimborso per le spese sostenute in servizio di missione a quelle di una ridotta agibilità professionale per mancanza di strumentazione e fondi.
Lei, egregio Ministro, ha assunto, comunque sia e con determinazione, la direzione di marcia del "fuori le mura domestiche" e su quella strada avremo, con l’amministrazione penitenziaria, possibilità e modi di interloquire, almeno lo speriamo. Avremmo voluto che Lei offrisse ai tanti poliziotti che l’8 giugno
l’ascoltavano anche atti concreti che guardassero con attenzione e sensibilità alla loro condizione di lavoro,
di oggi, non di domani.
Oggi, in quella realtà ciò che rischia di rimanere del suo messaggio è questa proiezione "altrove" dei loro bisogni; ciò che sicuramente resta è la stessa, identica condizione di lavoro in un ambiente che lei stesso ha definito "connotato da sofferenza e oggi più che mai, espressione di disagio, di povertà, di malattie".
Si occupi, egregio Ministro anche di quel che resta il giorno successivo un appuntamento così importante come la visita del Capo dello Stato e cominci concretamente ad interessarsi di ciò che resterà comunque, anche dopo i processi di riforma che lei sta sostenendo; perché, appare chiaro, o si rinuncia all’idea del carcere, anche come estrema ratio, o con quegli ambienti degradati, incivili, e non rispettosi della dignità del lavoro dei suoi dipendenti, bisognerà sempre farci i conti.
Tenteremo con i modi propri della rappresentanza sindacale di costringerla a misurarsi su quel terreno certi che, anche sotto il profilo del gradimento e del consenso che un Ministro della Repubblica deve poter perseguire sulle scelte operate, quella sia la strada giusta anche per Lei.
Con cordialità
Roma 10 Maggio 2007
Fabrizio Rossetti
Responsabile Nazionale Fp Cgil
Settore Penitenziario