SPAZIO: PENSIERI LIBERI
Sono un assistente sociale dell’Amministrazione penitenziaria con uno stato di servizio ventennale e mi inserisco per la prima volta nel dibattito sull’ampliamento dei compiti della Polizia Penitenziaria: l’ipotesi di integrare le funzioni di quella forza di polizia con le prerogative attribuite agli Uffici di Esecuzione Penale Esterna originariamente destinate al servizio sociale professionale. Il dibattito e le scelte hanno assunto una configurazione complessa, controversa, irrituale, finanche incomprensibile. Una ragione che si dice essere il motivo dell’ampliamento sta nella necessità che si eserciti più "controllo" sulla esecuzione delle pene alternative alla detenzione perché sia data più sicurezza al cittadino e perché ci sia più certezza della pena.
E’ sempre più evidente che né la gran parte del personale di Servizio Sociale né la gran parte del personale di Polizia Penitenziaria vogliono che le due professioni - e le due funzioni che esse esprimono - si contaminino tra loro. Vale la pena spendere ancora qualche riga, tra le migliaia che sono già state scritte, per continuare a riflettere a quali idee ed a quali princìpi dovremmo ispirarci.
Il contesto del dibattito e delle scelte in corso è il "modo in cui uno Stato democratico intende che le pene vengano eseguite e le condanne scontate nei casi in cui si sia ritenuto di non limitare la libertà personale con il carcere". Questo assunto, ritengo non contestabile, ha a che fare non solo con l’imposizione al cittadino oggetto di un provvedimento giurisdizionale penale di un perimetro di regole (le prescrizioni) che fanno le veci del perimetro di cemento armato di un carcere. E’ altresì vero, e questo sì che potrebbe essere un punto trascurato da parte di alcuni, che al di sopra e all’interno di questo assunto di esigenza penale c’è il principio di legalità.
Tanto sbandierato quanto misconosciuto, il principio di legalità è a fondamento della convivenza civile e, in misura maggiormente evidente, è sovrano in un sistema penitenziario che vuole i protagonisti tutti in atteggiamento funambolico tra l’imposizione di regole, l’esercizio di diritti, l’assolvimento di doveri, la tutela della sicurezza collettiva, la prevenzione e la repressione dei delitti, il sempre negletto e ostico monito pedagogico del ventisettesimo paradigma dei Padri costituenti.
Per farla breve. Qui, con questa querelle sulla Polizia Penitenziaria negli UEPE la collettività nazionale si gioca più di quello che sembra. Essa appare un dissidio di campanile tra chi ha la divisa e chi no oppure una svirgolata di un esecutivo benemerito o miope; appare una delle tante partite tra reazionari e progressisti oppure un impiccio tutto interno ad una enclave amministrativa di uno Stato affaccendato in ben altre faccende. Credo invece che ci sia più di quello che sembra. Credo che la vicenda PP/UEPE sia assolutamente emblematica perché terreno di esercizio della democrazia sostanziale. Di realizzazione di un postulato democratico nella realtà del concorso di tutti a prendere parte nelle decisioni collettive. Dibattere sui poliziotti negli UEPE "sì" e poliziotti negli UEPE "no" vuole dire assumersi la responsabilità di dare senso, sostanza alla forma democratica di quelle organizzazioni periferiche dello Stato che si chiamano UEPE.
Alcuni stanno decidendo che in tali organizzazioni l’esecuzione delle misure giurisdizionali penali e il principio di legalità saranno garantiti da una forma (l’inserimento di un organo di polizia) che esclude, dopo decenni di riforma dell’ordinamento penitenziario, che un avamposto di assistenti sociali, di figure professionali dedicate alla definizione dei bisogni singoli e collettivi ed alla valorizzazione delle risorse singole e collettive, sia sufficiente a sostenere – insieme ad altre componenti esterne, facenti parte o no del sistema penitenziario – esecuzione certa delle misure e principio di legalità.
Non esiste un modello perfetto di ordinamento, tanto più in un ambito così variegato come quello di contrasto alla violazione delle regole penali. Ed è vero che è un errore storico, specialmente nel moto perpetuo della ricerca imperfetta di democrazia, chiudersi a nuove esperienze, a sperimentazioni. I processi della storia di una democrazia sono sempre aperti per definizione. E, per quello che ci riguarda, chi ha la responsabilità ultima di decidere per la Polizia Penitenziaria negli UEPE lo deve fare essendo convinto che sia effettivamente tenuto in debito conto il parere della maggioranza quantomeno dei lavoratori che dovranno mettere in pratica la riforma, maggioranza che a me sembra, per ragioni diverse, contraria. Con il rischio concreto che la riforma fallisca.
Ma c’è qualcuno che possa aiutarmi a capire perché l’ampliamento dei compiti di una polizia specializzata nella gestione del recluso all’interno degli istituti penitenziari della Repubblica sia per definizione dovuto e benefico sul territorio libero della Repubblica stessa? C’è qualcuno che sa rispondere al perché certuni siano così sicuri che un corpo di polizia, così degno di apprezzamenti per l’evoluzione che lo ha contraddistinto durante gli ultimi lustri, sia l’unica via di riforma di quell’avamposto organizzativo dello Stato che sono gli UEPE?
Una polizia, nell’accezione originaria del termine, controlla, previene, reprime. Il potere simbolico di una divisa genera timore, rispetto, protezione. Questi verbi e questi sostantivi sono da lungo tempo amplificati da altri significati che vengono attribuiti ad un dipendente dello Stato in divisa di polizia: costui sempre più diventa "di prossimità", di aiuto "umano" e di sostegno morale per il cittadino, diventa un nuovo competente in campi dello scibile, da quello scientifico a quello assistenziale. Caratteristiche erose ad altre professioni, ad altrui competenze (e si rifletta sul fatto che i nostri poliziotti penitenziari sono offesi oppure terrorizzati dal venire subordinati o equiparati agli assistenti sociali).
Io dico che confidare in via prioritaria nel ruolo di polizia perché controllo e legalità siano garantiti è un segno di ingenuità ma, peggio, è un sentore di debolezza per una democrazia. Parlamentare per giunta. E’ un alibi offerto all’incapacità dell’essere cittadini rappresentati e rappresentanti (soprattutto coloro a cui è demandato il governo della cosa pubblica).
Bisogna differenziare – e pochi lo fanno – le tipologie di persone sottoposte a provvedimenti giurisdizionali penali. Nel caso di dette tipologie attualmente ricadenti sotto la competenza degli UEPE la maggioranza dei soggetti propone delitti che di grave e abietto hanno in proporzione all’allarme sociale percepito e indotto, che di per sé risentono di una recrudescenza per cause ben definibili. Che comunque giungono al territorio libero per decisione giudicante. L’opinione pubblica o l’amministratore poco attento non si chiedono chi siano gli utenti territoriali degli UEPE, non si chiedono quale sia il loro grado di pericolosità (ma un requisito per accedere alle misure alternative et similia non è l’assenza di pericolosità?), non si rendono conto di quali siano le esigenze "di rieducazione". L’evidenza della tipologia del gran numero di casi non richiede espressamente l’esercizio di un potere di polizia specializzata. Ancorché "attenuata". La divisa, in detti casi, non è un requisito di rieducazione. Perché è molto più pervasivo e dinamico il controllo sociale indotto da figure sociali civili che quello agito da figure sociali di polizia. E perché, come la mia esperienza di lavoro mi insegna, è proprio l’intervento che oggi le forze dell’ordine eseguono, in detti casi, a procurare una inutile attenzione allarmata vuoi in un condomino vuoi in un datore di lavoro. Il punto dirimente di tutta la nostra questione è "l’accertamento della violazione di una prescrizione": ma perché la capacità operativa di accertamento e di trattamento della violazione di un poliziotto penitenziario dovrebbe garantire più di quella di un assistente sociale? Perché non si confida sui compiti ordinari di polizia attivi in ambito extrapenitenziario?
Detto ciò, io tengo aperta la questione del rispetto del perimetro delle regole imposte (delle prescrizioni) e dell’attenzione massima al principio di legalità in ambito di esecuzione alternativa delle pene e delle misure di sicurezza non detentive.
Sono convinto che l’efficacia del servizio sociale penitenziario richieda maggior rigore nonostante il confortante valore dei dati statistici. Sono convinto che, per molteplici ragioni – da declinare magari in altra sede –, abbia ragione chi affermi che quell’avamposto innovativo dello Stato che una volta si chiamava, con enfasi riformatrice, Centro di Servizio Sociale per Adulti e che oggi si chiama, con enfasi peregrina di extraterritorialità carceraria, Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna sia diventato un’attestazione per difetto di capacità rieducativa. Nulla togliendo, beninteso, alla valenza specialistica (esperienziale e cognitiva) degli assistenti sociali ivi operanti. Esiste il rapporto diadico UEPE–territorio più o meno difficile; esiste una difficoltosa caratterizzazione dell’UEPE quale agenzia dedicata in un determinato territorio, mi si passi il termine, alla riconversione personale e sociale di un cittadino estremo.
Sono convinto che se si vuole dare veramente senso, sostanza alla forma democratica di quel processo di riconversione al fianco di tutte le altre agenzie sociali che rendono possibile ai cittadini ed ai cittadini estremi il perseguimento del benessere, scevro da comportamenti illeciti, in quest’Italia euromediterranea, si debba anche riformare l’UEPE con serietà. Non percorrendo ipotesi e scelte di ibridazione con la Polizia Penitenziaria. La quale ha da assolvere, con altrettanta serietà e competenza, altri compiti di onere diverso.
Io sono per un rafforzamento e per una diversificazione delle prerogative degli UEPE. Dirette sì alla integrazione in essi di altre figure sociali civili ed all’incremento di dotazioni organiche e strumentali. Dirette sì alla promozione di politiche per il penitenziario. Dirette anche, in senso evolutivo, all’attribuzione di capacità d’indagine, di verifica, di analisi – intrinseca e in concorso con altre agenzie - di una miriade di elementi sintomatici del rispetto del principio di legalità che oggi non vengono all’attenzione nella gestione dei singoli casi trattati o all’attenzione delle attuali relazioni di rete degli UEPE stessi. Qualcosa di più della prevista riforma che rassetta solo l’esistente. E un presupposto fondamentale per tale cambiamento sta proprio in quel mandato che nei decenni è stato reso concreto dal servizio sociale penitenziario; quella funzione che è parsa e pare a molti anacronistica e irrealizzabile nel coniugare il processo di cambiamento della persona con il chiedergli conto dei suoi comportamenti; quella originale facoltà degli assistenti sociali di utilizzare il controllo come uno strumento di aiuto. Una generale politica di contrasto e di prevenzione dei delitti e degli illeciti non può liquidare quella funzione – propria del momento rieducativo - abdicando alla presunta e scontata maggiore efficienza di una forza di polizia la soluzione di un problema "sicurezza" che problema non è. La sicurezza sociale, data la presenza su di un territorio di cittadini ai quali è stata data una possibilità di "rieducazione", si persegue semmai razionalizzando i compiti ordinari delle forze di polizia e consentendo ad un UEPE riformato la separazione funzionale da esse perché si rafforzi l’immagine di uno Stato che, nel trattare le misure giurisdizionali penali, sappia presentarsi con volti ben distinti. Distintamente concorrenti a storicizzare la valenza del dettato costituzionale.
Una politica dell’esecuzione delle misure giurisdizionali penali non può eludere – proprio perché in permanente correlazione con l’universo dei fenomeni sociali – l’interesse, per esempio, per il rispetto della legislazione fiscale oppure della legislazione del lavoro oppure del rispetto delle norme civilistiche quando interviene nella trattazione del singolo caso del "soggetto penale in rieducazione". E ciò non con fare meramente inquisitorio o, per altri versi, strumentale per il solo rispetto irrinunciabile della legalità. Perché ciò è deputato ad altre agenzie. Le finalità che la legge conferisce agli UEPE verrebbero direttamente orientate al rispetto della legalità nella più ampia platea dei soggetti impegnati in azioni di pedagogia della legalità.
Ci ritroviamo in un Paese in cui sempre più la vulnerabilità penale di cittadini deboli o indeboliti da politiche sociali deficitarie è alta. E’ diffuso il senso di liceità dell’illegalità che assolve chi è forte e mortifica la repressione di comportamenti penalmente rilevanti commessi da chi debole non è. Ecco che il contrasto al crimine pone tutti su un crinale che non ammette distrazioni. Richiede competenza civile nel distinguere sempre tra repressione e rieducazione.
Ci deve pur essere un luogo in cui lo Stato si riserva uno spazio esclusivo di autorevolezza nei confronti di quei cittadini già passati al vaglio dell’Autorità giudiziaria, giudicati meritevoli di esecuzione territoriale senza bisogno di irrobustirsi a tutti i costi con prerogative di polizia illusoriamente innovative. Uno spazio che gli UEPE occupano, forse inconsapevolmente, dal 1975. Alla mancanza di lavoro, alla mancanza di assistenza, alla malafede, alla recidiva, alle malattie che predispongono al delitto, alla propensione al reato, a una seria intenzione di recupero, ai microconflitti di una società, all’ignoranza non si risponde con l’aumento o con la distrazione di organici di polizia. Si risponde anche con la riforma di una risorsa che lo Stato già possiede mantenendone integre le prerogative e non stravolgendole.
La fibrillazione in atto sul destino del servizio sociale penitenziario non può attestarsi sulla difesa dell’esistente o sul solo richiamo ad una specificità che è stata sinora mortificata. La richiesta del rispetto della dignità del lavoro del servizio sociale penitenziario è al tempo stesso la richiesta di tutela dell’interesse collettivo. La convinzione di essere, noi fautori del rifiuto della ibridazione voluta a tutti i costi ormai non so più da chi veramente, ci deve dare la stura perché noi per primi si riesca a proporre scenari nuovi.
18 settembre 2007 Paolo Volontè
E’ sempre più evidente che né la gran parte del personale di Servizio Sociale né la gran parte del personale di Polizia Penitenziaria vogliono che le due professioni - e le due funzioni che esse esprimono - si contaminino tra loro. Vale la pena spendere ancora qualche riga, tra le migliaia che sono già state scritte, per continuare a riflettere a quali idee ed a quali princìpi dovremmo ispirarci.
Il contesto del dibattito e delle scelte in corso è il "modo in cui uno Stato democratico intende che le pene vengano eseguite e le condanne scontate nei casi in cui si sia ritenuto di non limitare la libertà personale con il carcere". Questo assunto, ritengo non contestabile, ha a che fare non solo con l’imposizione al cittadino oggetto di un provvedimento giurisdizionale penale di un perimetro di regole (le prescrizioni) che fanno le veci del perimetro di cemento armato di un carcere. E’ altresì vero, e questo sì che potrebbe essere un punto trascurato da parte di alcuni, che al di sopra e all’interno di questo assunto di esigenza penale c’è il principio di legalità.
Tanto sbandierato quanto misconosciuto, il principio di legalità è a fondamento della convivenza civile e, in misura maggiormente evidente, è sovrano in un sistema penitenziario che vuole i protagonisti tutti in atteggiamento funambolico tra l’imposizione di regole, l’esercizio di diritti, l’assolvimento di doveri, la tutela della sicurezza collettiva, la prevenzione e la repressione dei delitti, il sempre negletto e ostico monito pedagogico del ventisettesimo paradigma dei Padri costituenti.
Per farla breve. Qui, con questa querelle sulla Polizia Penitenziaria negli UEPE la collettività nazionale si gioca più di quello che sembra. Essa appare un dissidio di campanile tra chi ha la divisa e chi no oppure una svirgolata di un esecutivo benemerito o miope; appare una delle tante partite tra reazionari e progressisti oppure un impiccio tutto interno ad una enclave amministrativa di uno Stato affaccendato in ben altre faccende. Credo invece che ci sia più di quello che sembra. Credo che la vicenda PP/UEPE sia assolutamente emblematica perché terreno di esercizio della democrazia sostanziale. Di realizzazione di un postulato democratico nella realtà del concorso di tutti a prendere parte nelle decisioni collettive. Dibattere sui poliziotti negli UEPE "sì" e poliziotti negli UEPE "no" vuole dire assumersi la responsabilità di dare senso, sostanza alla forma democratica di quelle organizzazioni periferiche dello Stato che si chiamano UEPE.
Alcuni stanno decidendo che in tali organizzazioni l’esecuzione delle misure giurisdizionali penali e il principio di legalità saranno garantiti da una forma (l’inserimento di un organo di polizia) che esclude, dopo decenni di riforma dell’ordinamento penitenziario, che un avamposto di assistenti sociali, di figure professionali dedicate alla definizione dei bisogni singoli e collettivi ed alla valorizzazione delle risorse singole e collettive, sia sufficiente a sostenere – insieme ad altre componenti esterne, facenti parte o no del sistema penitenziario – esecuzione certa delle misure e principio di legalità.
Non esiste un modello perfetto di ordinamento, tanto più in un ambito così variegato come quello di contrasto alla violazione delle regole penali. Ed è vero che è un errore storico, specialmente nel moto perpetuo della ricerca imperfetta di democrazia, chiudersi a nuove esperienze, a sperimentazioni. I processi della storia di una democrazia sono sempre aperti per definizione. E, per quello che ci riguarda, chi ha la responsabilità ultima di decidere per la Polizia Penitenziaria negli UEPE lo deve fare essendo convinto che sia effettivamente tenuto in debito conto il parere della maggioranza quantomeno dei lavoratori che dovranno mettere in pratica la riforma, maggioranza che a me sembra, per ragioni diverse, contraria. Con il rischio concreto che la riforma fallisca.
Ma c’è qualcuno che possa aiutarmi a capire perché l’ampliamento dei compiti di una polizia specializzata nella gestione del recluso all’interno degli istituti penitenziari della Repubblica sia per definizione dovuto e benefico sul territorio libero della Repubblica stessa? C’è qualcuno che sa rispondere al perché certuni siano così sicuri che un corpo di polizia, così degno di apprezzamenti per l’evoluzione che lo ha contraddistinto durante gli ultimi lustri, sia l’unica via di riforma di quell’avamposto organizzativo dello Stato che sono gli UEPE?
Una polizia, nell’accezione originaria del termine, controlla, previene, reprime. Il potere simbolico di una divisa genera timore, rispetto, protezione. Questi verbi e questi sostantivi sono da lungo tempo amplificati da altri significati che vengono attribuiti ad un dipendente dello Stato in divisa di polizia: costui sempre più diventa "di prossimità", di aiuto "umano" e di sostegno morale per il cittadino, diventa un nuovo competente in campi dello scibile, da quello scientifico a quello assistenziale. Caratteristiche erose ad altre professioni, ad altrui competenze (e si rifletta sul fatto che i nostri poliziotti penitenziari sono offesi oppure terrorizzati dal venire subordinati o equiparati agli assistenti sociali).
Io dico che confidare in via prioritaria nel ruolo di polizia perché controllo e legalità siano garantiti è un segno di ingenuità ma, peggio, è un sentore di debolezza per una democrazia. Parlamentare per giunta. E’ un alibi offerto all’incapacità dell’essere cittadini rappresentati e rappresentanti (soprattutto coloro a cui è demandato il governo della cosa pubblica).
Bisogna differenziare – e pochi lo fanno – le tipologie di persone sottoposte a provvedimenti giurisdizionali penali. Nel caso di dette tipologie attualmente ricadenti sotto la competenza degli UEPE la maggioranza dei soggetti propone delitti che di grave e abietto hanno in proporzione all’allarme sociale percepito e indotto, che di per sé risentono di una recrudescenza per cause ben definibili. Che comunque giungono al territorio libero per decisione giudicante. L’opinione pubblica o l’amministratore poco attento non si chiedono chi siano gli utenti territoriali degli UEPE, non si chiedono quale sia il loro grado di pericolosità (ma un requisito per accedere alle misure alternative et similia non è l’assenza di pericolosità?), non si rendono conto di quali siano le esigenze "di rieducazione". L’evidenza della tipologia del gran numero di casi non richiede espressamente l’esercizio di un potere di polizia specializzata. Ancorché "attenuata". La divisa, in detti casi, non è un requisito di rieducazione. Perché è molto più pervasivo e dinamico il controllo sociale indotto da figure sociali civili che quello agito da figure sociali di polizia. E perché, come la mia esperienza di lavoro mi insegna, è proprio l’intervento che oggi le forze dell’ordine eseguono, in detti casi, a procurare una inutile attenzione allarmata vuoi in un condomino vuoi in un datore di lavoro. Il punto dirimente di tutta la nostra questione è "l’accertamento della violazione di una prescrizione": ma perché la capacità operativa di accertamento e di trattamento della violazione di un poliziotto penitenziario dovrebbe garantire più di quella di un assistente sociale? Perché non si confida sui compiti ordinari di polizia attivi in ambito extrapenitenziario?
Detto ciò, io tengo aperta la questione del rispetto del perimetro delle regole imposte (delle prescrizioni) e dell’attenzione massima al principio di legalità in ambito di esecuzione alternativa delle pene e delle misure di sicurezza non detentive.
Sono convinto che l’efficacia del servizio sociale penitenziario richieda maggior rigore nonostante il confortante valore dei dati statistici. Sono convinto che, per molteplici ragioni – da declinare magari in altra sede –, abbia ragione chi affermi che quell’avamposto innovativo dello Stato che una volta si chiamava, con enfasi riformatrice, Centro di Servizio Sociale per Adulti e che oggi si chiama, con enfasi peregrina di extraterritorialità carceraria, Ufficio Locale di Esecuzione Penale Esterna sia diventato un’attestazione per difetto di capacità rieducativa. Nulla togliendo, beninteso, alla valenza specialistica (esperienziale e cognitiva) degli assistenti sociali ivi operanti. Esiste il rapporto diadico UEPE–territorio più o meno difficile; esiste una difficoltosa caratterizzazione dell’UEPE quale agenzia dedicata in un determinato territorio, mi si passi il termine, alla riconversione personale e sociale di un cittadino estremo.
Sono convinto che se si vuole dare veramente senso, sostanza alla forma democratica di quel processo di riconversione al fianco di tutte le altre agenzie sociali che rendono possibile ai cittadini ed ai cittadini estremi il perseguimento del benessere, scevro da comportamenti illeciti, in quest’Italia euromediterranea, si debba anche riformare l’UEPE con serietà. Non percorrendo ipotesi e scelte di ibridazione con la Polizia Penitenziaria. La quale ha da assolvere, con altrettanta serietà e competenza, altri compiti di onere diverso.
Io sono per un rafforzamento e per una diversificazione delle prerogative degli UEPE. Dirette sì alla integrazione in essi di altre figure sociali civili ed all’incremento di dotazioni organiche e strumentali. Dirette sì alla promozione di politiche per il penitenziario. Dirette anche, in senso evolutivo, all’attribuzione di capacità d’indagine, di verifica, di analisi – intrinseca e in concorso con altre agenzie - di una miriade di elementi sintomatici del rispetto del principio di legalità che oggi non vengono all’attenzione nella gestione dei singoli casi trattati o all’attenzione delle attuali relazioni di rete degli UEPE stessi. Qualcosa di più della prevista riforma che rassetta solo l’esistente. E un presupposto fondamentale per tale cambiamento sta proprio in quel mandato che nei decenni è stato reso concreto dal servizio sociale penitenziario; quella funzione che è parsa e pare a molti anacronistica e irrealizzabile nel coniugare il processo di cambiamento della persona con il chiedergli conto dei suoi comportamenti; quella originale facoltà degli assistenti sociali di utilizzare il controllo come uno strumento di aiuto. Una generale politica di contrasto e di prevenzione dei delitti e degli illeciti non può liquidare quella funzione – propria del momento rieducativo - abdicando alla presunta e scontata maggiore efficienza di una forza di polizia la soluzione di un problema "sicurezza" che problema non è. La sicurezza sociale, data la presenza su di un territorio di cittadini ai quali è stata data una possibilità di "rieducazione", si persegue semmai razionalizzando i compiti ordinari delle forze di polizia e consentendo ad un UEPE riformato la separazione funzionale da esse perché si rafforzi l’immagine di uno Stato che, nel trattare le misure giurisdizionali penali, sappia presentarsi con volti ben distinti. Distintamente concorrenti a storicizzare la valenza del dettato costituzionale.
Una politica dell’esecuzione delle misure giurisdizionali penali non può eludere – proprio perché in permanente correlazione con l’universo dei fenomeni sociali – l’interesse, per esempio, per il rispetto della legislazione fiscale oppure della legislazione del lavoro oppure del rispetto delle norme civilistiche quando interviene nella trattazione del singolo caso del "soggetto penale in rieducazione". E ciò non con fare meramente inquisitorio o, per altri versi, strumentale per il solo rispetto irrinunciabile della legalità. Perché ciò è deputato ad altre agenzie. Le finalità che la legge conferisce agli UEPE verrebbero direttamente orientate al rispetto della legalità nella più ampia platea dei soggetti impegnati in azioni di pedagogia della legalità.
Ci ritroviamo in un Paese in cui sempre più la vulnerabilità penale di cittadini deboli o indeboliti da politiche sociali deficitarie è alta. E’ diffuso il senso di liceità dell’illegalità che assolve chi è forte e mortifica la repressione di comportamenti penalmente rilevanti commessi da chi debole non è. Ecco che il contrasto al crimine pone tutti su un crinale che non ammette distrazioni. Richiede competenza civile nel distinguere sempre tra repressione e rieducazione.
Ci deve pur essere un luogo in cui lo Stato si riserva uno spazio esclusivo di autorevolezza nei confronti di quei cittadini già passati al vaglio dell’Autorità giudiziaria, giudicati meritevoli di esecuzione territoriale senza bisogno di irrobustirsi a tutti i costi con prerogative di polizia illusoriamente innovative. Uno spazio che gli UEPE occupano, forse inconsapevolmente, dal 1975. Alla mancanza di lavoro, alla mancanza di assistenza, alla malafede, alla recidiva, alle malattie che predispongono al delitto, alla propensione al reato, a una seria intenzione di recupero, ai microconflitti di una società, all’ignoranza non si risponde con l’aumento o con la distrazione di organici di polizia. Si risponde anche con la riforma di una risorsa che lo Stato già possiede mantenendone integre le prerogative e non stravolgendole.
La fibrillazione in atto sul destino del servizio sociale penitenziario non può attestarsi sulla difesa dell’esistente o sul solo richiamo ad una specificità che è stata sinora mortificata. La richiesta del rispetto della dignità del lavoro del servizio sociale penitenziario è al tempo stesso la richiesta di tutela dell’interesse collettivo. La convinzione di essere, noi fautori del rifiuto della ibridazione voluta a tutti i costi ormai non so più da chi veramente, ci deve dare la stura perché noi per primi si riesca a proporre scenari nuovi.
18 settembre 2007 Paolo Volontè
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