SIDIPE
COME CAMBIA IL SISTEMA PENITENZIARIO ITALIANO
(GENERALI AL POSTO DEI DIRETTORI)
Mentre le carceri tornano a riempirsi, il nostro sistema penitenziario sembra cambiare fisionomia.
Abbandona, progressivamente, l’impegnativa funzione di mediazione tra pena e rieducazione, mostrando, al contrario, maggiore interesse verso risposte sicuritarie tradizionali, di tipo retributivo, ed incardina Generali di brigata, cioè personale militare, lì dove si sarebbero aspettati dei dirigenti penitenziari di diritto pubblico.
I direttori penitenziari, da sempre presidio di equilibrio tra le istanze di sicurezza e quelle di legalità, rapidamente, vengono, “silenziati”: ad essi non viene data la possibilità concreta di dire la propria sulle scelte “riorganizzative” (nonostante che il legislatore del 2005 li avesse caratterizzati tra i corpi dei funzionari civili più delicati, come per i prefetti, il personale diplomatico…), e di natura sicuritaria che, con singolare disinvoltura, vengono proposte e, velocemente, messe in atto: eppure, per legge, i direttori continuano ad essere i massimi responsabili sul territorio della sicurezza penitenziaria.
L’attenzione dei nostri governanti sembra essere ormai rivolta “alla spada” e non alla più difficile
“scienza” della prevenzione e comprensione dei fenomeni criminali e della loro genesi: così
operando, però, cambia il nostro sistema penitenziario, sempre meno “inclusivo”, sempre più rivolto al silenzio piuttosto che alla discussione.
La sensazione ormai diffusa tra gli operatori penitenziari “laici”, cioè non in uniforme, è che abbia
preso piede una sorta di distorsione dell’interpretazione del termine “sicurezza”: in realtà si sta
edificando un sistema basato sulla insicurezza.
Il primo principio d’applicare per fare sicurezza dovrebbe essere quello di rispettare lo speculare
della LEGALITA’: poca credibilità, ha infatti l’interlocutore che, sbandierando, a parole, motteggi anglofani di tipo “Law and order”, fosse esso stesso certificazione di costante strisciante illegalità: ed allora guardate le nostre carceri, “pesate” le risorse che ci vengono attribuite, guardate quanta attenzione viene dedicata nel dotare gli istituti penitenziari di mezzi, di personale da destinare alle attività rieducative, all’osservazione della personalità dei detenuti, finanche per la “pulizia” non delle coscienze, ma almeno degli ambienti, dei servizi igienici, delle cucine, delle celle, ed allora comprenderete…
Osservate la solitudine che talvolta circonda molti Direttori e quei Comandanti che abbiano
esperienza, costretti a confrontarsi con quanti, cultori della forza, del bisogno di gesta esaltanti, di visibilità, credano che il riconoscimento e la legittimazione delle proprie azioni debbano essere
costituite da gesta plateali, cavalli bardati, pigli severi, sciabole sguainate e modi spicci.
Si prenda in esame la modestia numerica delle risorse umane “laiche”, costituite da sconfortati
manipoli di assistenti sociali, educatori, psicologi “ad ore” (come le domestiche precarie…), i quali
dovrebbero penetrare la coscienza, la personalità, di persone detenute le più diverse, per fornire
complete ed esaurienti istruttorie alla magistratura di sorveglianza).
Abbandona, progressivamente, l’impegnativa funzione di mediazione tra pena e rieducazione, mostrando, al contrario, maggiore interesse verso risposte sicuritarie tradizionali, di tipo retributivo, ed incardina Generali di brigata, cioè personale militare, lì dove si sarebbero aspettati dei dirigenti penitenziari di diritto pubblico.
I direttori penitenziari, da sempre presidio di equilibrio tra le istanze di sicurezza e quelle di legalità, rapidamente, vengono, “silenziati”: ad essi non viene data la possibilità concreta di dire la propria sulle scelte “riorganizzative” (nonostante che il legislatore del 2005 li avesse caratterizzati tra i corpi dei funzionari civili più delicati, come per i prefetti, il personale diplomatico…), e di natura sicuritaria che, con singolare disinvoltura, vengono proposte e, velocemente, messe in atto: eppure, per legge, i direttori continuano ad essere i massimi responsabili sul territorio della sicurezza penitenziaria.
L’attenzione dei nostri governanti sembra essere ormai rivolta “alla spada” e non alla più difficile
“scienza” della prevenzione e comprensione dei fenomeni criminali e della loro genesi: così
operando, però, cambia il nostro sistema penitenziario, sempre meno “inclusivo”, sempre più rivolto al silenzio piuttosto che alla discussione.
La sensazione ormai diffusa tra gli operatori penitenziari “laici”, cioè non in uniforme, è che abbia
preso piede una sorta di distorsione dell’interpretazione del termine “sicurezza”: in realtà si sta
edificando un sistema basato sulla insicurezza.
Il primo principio d’applicare per fare sicurezza dovrebbe essere quello di rispettare lo speculare
della LEGALITA’: poca credibilità, ha infatti l’interlocutore che, sbandierando, a parole, motteggi anglofani di tipo “Law and order”, fosse esso stesso certificazione di costante strisciante illegalità: ed allora guardate le nostre carceri, “pesate” le risorse che ci vengono attribuite, guardate quanta attenzione viene dedicata nel dotare gli istituti penitenziari di mezzi, di personale da destinare alle attività rieducative, all’osservazione della personalità dei detenuti, finanche per la “pulizia” non delle coscienze, ma almeno degli ambienti, dei servizi igienici, delle cucine, delle celle, ed allora comprenderete…
Osservate la solitudine che talvolta circonda molti Direttori e quei Comandanti che abbiano
esperienza, costretti a confrontarsi con quanti, cultori della forza, del bisogno di gesta esaltanti, di visibilità, credano che il riconoscimento e la legittimazione delle proprie azioni debbano essere
costituite da gesta plateali, cavalli bardati, pigli severi, sciabole sguainate e modi spicci.
Si prenda in esame la modestia numerica delle risorse umane “laiche”, costituite da sconfortati
manipoli di assistenti sociali, educatori, psicologi “ad ore” (come le domestiche precarie…), i quali
dovrebbero penetrare la coscienza, la personalità, di persone detenute le più diverse, per fornire
complete ed esaurienti istruttorie alla magistratura di sorveglianza).
Intendiamo, perciò, suonare un campanello d’allarme verso quanti hanno il dovere costituzionale di “ricondurre” ad una vera politica della sicurezza penitenziaria il nostro sistema che appare politicamente disorientato (basti pensare che gli stessi che, appena un anno fa, hanno chiesto l’indulto, i cui effetti in termini di scarcerazioni, persistono e si protrarranno anche per il futuro, oggi esigono la modifica della “Gozzini”…), affinché si investa davvero in risorse umane, e non solo in quelle parallele, seppure più numerose, della Polizia Penitenziaria, affinché si torni a ricostruire un modello di carcere rispettoso della dignità umana il quale – per contaminazione – in quanto esso stesso esprima LEGALITA’, TRASPARENZA, GIUSTIZIA, sia immediatamente compreso da quanti la legge hanno, invece, violato, il che non dovrà necessariamente tradursi per quest’ultimi in un “veloce ritorno alla libertà”, ma nell’aver acquisito coscienza del male che si è fatto agli altri, dando prova concreta di recuperare credibilità, attraverso delle condotte fattive, positive, rispettose della Legge.
Ed allora, a quanti del Governo hanno stilato, in accordo o meno con le espressioni “tradizionali”
della sicurezza, il relativo Patto, chiediamo di conoscere quante risorse aggiuntive, e superiori alle precedenti, abbiano conferito per la progettazione di nuove carceri, per la loro effettiva realizzazione, per l’assunzione di personale educativo, di quello medico e paramedico, per dotare gli istituti di psicologi, d’interpreti, mediatori culturali, nonché di agenti, e solo quella cifra ci darà l’unica vera risposta concreta dell’attenzione posta al nostro sistema, altrimenti saranno mere chiacchiere.
Solo con un reale conferimento di risorse si potrà restituire senso e dignità al nostro mandato di dirigenti penitenziari: quello di essere punto di mediazione, “balance”, tra la forza e la persuasione.
Nel frattempo non vorremmo continuare a vedere il dipartimento dell’amm.ne penitenziaria riempirsi di magistrati, sottratti alle funzioni giudicanti e requirenti, per assicurare, innaturalmente, attività amministrative, e di generali di un corpo che non c’è, perché sciolto nel lontano 1990 (i sottotenenti di allora, senza operare di regola negli istituti penitenziari, sono divenuti i generali di oggi…), i quali occupano posti che, anche a motivo dell’esperienza sul campo, i direttori‐dirigenti penitenziari saprebbero valorizzare di contenuti diversi, d’ideali “laici” di una giustizia che solleva e non calpesta.
Probabilmente oggi sono di troppo i direttori, domani potrà essere il turno di altri…
Il Segretario Nazionale
Dr. Enrico SBRIGLIA
Dr. Enrico SBRIGLIA
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