L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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domenica 18 novembre 2007

Il Manifesto

Giustizia: la sicurezza sociale e il "vecchio capro espiatorio"
di Luigi Ferrajoli (Docente di filosofia del diritto)


Si è sviluppata una grave forma di espansione patologica del diritto penale - l’enorme aumento delle pene carcerarie -, frutto di una politica indifferente alle cause strutturali dei fenomeni criminali, promotrice di un diritto penale massimo, incurante delle garanzie, interessata soltanto a assecondare, o peggio a alimentare, le paure e gli umori repressivi nella società.

Criminalità di sussistenza
Il terreno privilegiato di questa politica è quello della sicurezza. Le statistiche storiche sulla criminalità ci dicono che il numero dei delitti, in particolare di quelli contro la persona - omicidi, risse, violenze, lesioni -, è diminuito, in proporzione alla popolazione, rispetto a qualche decennio fa e ancor più rispetto a un secolo fa. Eppure in tutti i paesi occidentali una domanda drogata di sicurezza, enfatizzata dalla stampa e dalla televisione, ha accentuato le vocazioni repressive della politica penale, orientandole unicamente nei confronti di quella che ho chiamato "criminalità di sussistenza".
Il messaggio espresso da questa politica è duplice. Il primo è quello classista, oltre che in sintonia con gli interessi della criminalità del potere, secondo cui la criminalità - la vera criminalità che attenta alla "sicurezza" e che occorre prevenire e perseguire - è solamente quella di strada; non dunque le infrazioni dei potenti - le corruzioni, i falsi in bilancio, i fondi neri e occulti, le frodi fiscali, i riciclaggi, né tanto meno le guerre, i crimini di guerra, le devastazioni dell’ambiente e gli attentati alla salute -, ma solo le rapine, i furti d’auto e in appartamenti e il piccolo spaccio di droga, commessi da immigrati, disoccupati, soggetti emarginati, identificati ancora oggi come le sole "classi pericolose".
È un messaggio che vale a assecondare, nell’opinione pubblica, il riflesso classista e razzista dell’equiparazione dei poveri, dei neri e degli immigrati ai delinquenti, e perciò a deformare l’immaginario collettivo sulla devianza e sul diritto penale: affinché la giustizia penale cessi di perseguire i reati delle "persone per bene" e si occupi - cosa oltre tutto più facile - dei soli reati che attentano alla loro sicurezza.

Pubblica sicurezza
C’è poi un secondo messaggio, ancor più regressivo, che viene trasmesso dalle campagne sulla sicurezza. Esso punta al mutamento, nel senso comune, del significato stesso della parola "sicurezza": che non vuole più dire, nel lessico politico, "sicurezza sociale", cioè garanzia dei diritti sociali e perciò sicurezza del lavoro, della salute, della previdenza e della sopravvivenza, né tanto meno sicurezza delle libertà individuali contro gli arbitri polizieschi, bensì soltanto "pubblica sicurezza", declinata nelle forme dell’ordine pubblico di polizia e degli inasprimenti punitivi anziché in quelle dello stato di diritto, sia liberale che sociale.
Essendo stata la sicurezza sociale aggredita dalle politiche di riduzione dello stato sociale e di smantellamento del diritto del lavoro, le campagne securitarie valgono a soddisfare il sentimento diffuso dell’insicurezza sociale con la sua mobilitazione contro il deviante e il diverso, preferibilmente di colore o extracomunitario.
È il vecchio meccanismo del capro espiatorio, che consente di scaricare sul piccolo delinquente le paure, le frustrazioni e le tensioni sociali irrisolte. Con un duplice effetto: l’identificazione illusoria, nel senso comune, tra sicurezza e diritto penale, quasi che l’intervento penale possa produrre magicamente una cessazione della micro-delinquenza, e la rimozione, dall’orizzonte della politica, delle politiche sociali di inclusione, certamente più costose e impegnative ma anche le sole in grado di aggredirne e ridurne le cause strutturali.

Tolleranza zero
È questo il duplice significato della parola d’ordine "tolleranza zero" sulla cui base è stata promossa, dagli anni Ottanta del secolo scorso, una crescita esponenziale della carcerazione penale. Il fenomeno è stato inaugurato e promosso negli Stati Uniti, dove nello spazio di trent’anni la popolazione carceraria si è moltiplicata per sette, passando da meno di trecentomila detenuti a oltre due milioni. Sostenuta da una pseudoscienza criminologica informata a un’aperta antropologia della disuguaglianza, questa politica di carcerazione di massa si è sviluppata simultaneamente alla riduzione dello stato sociale.
Si è così prodotto un ampliamento del ruolo penale e militare dello Stato, correlativo alla riduzione massiccia del suo ruolo sociale: una sorta di militarizzazione della politica interna, in aggiunta alla militarizzazione della politica estera operata in questi stessi anni dalla superpotenza americana con la riabilitazione della guerra come strumento di governo del mondo. Due strategie accomunate dalla mobilitazione delle paure a sostegno della sicurezza e dalla costruzione e criminalizzazione, quali principali fattori di identità collettiva, di nuovi nemici, interni e esterni: i poveri e gli immigrati all’interno, i paesi poveri del mondo e i loro "Stati canaglia" all’esterno. Non a caso le nuove politiche penali si sono sostituite, negli Stati Uniti d’America, alle pur deboli politiche sociali, all’insegna delle nuove parole d’ordine liberiste: "tolleranza zero" e "mano invisibile" del mercato rivestita da un "guanto di ferro" nei confronti entrambe dei ceti poveri.