Giustizia/Carcere: Se il carcere è solo scuola specializzata del crimine
di Ester Isaja
Gazzetta del Sud, 25 febbraio 2008
"Il pubblico non sa abbastanza, bisogna vederle certe carceri italiane, bisogna esserci stati per rendersene conto. Vedere, questo è il punto essenziale!".
Ecco quello che diceva il grande giurista Calamandrei nel 1948 al tempo in cui era membro della Camera dei deputati ed esortava il Parlamento a compiere una seria indagine sull’universo carcerario e a squarciare il velo d’ignoranza che copriva inesorabilmente la condizione dei detenuti. In verità, sul tema delle carceri oggi non si indugia più di tanto.
È un argomento che induce il più delle volte a cambiare discorso e, se se ne parla, è unicamente nel dibattito politico solo con riferimento a problemi legati al sovraffollamento o all’edilizia penitenziaria. E ciò, perché il carcere rappresenta nei paesi occidentali industrializzati uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana, come autorevoli studiosi hanno sostenuto evidenziando la necessità di una radicale trasformazione secondo modelli esistenti (quale quello del carcere di Tihar a Nuova Delhi c.d. modello della colomba).
L’intenzione di riabilitare, riformare, risocializzare si rivela qui da noi solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno delle carceri è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare giustizia.
E non c’è da meravigliarsi se il carcere finisce con l’avere un effetto criminogeno e diventa una sorta di scuola specializzata del crimine. Né c’è da meravigliarsi se al momento in cui il detenuto fisicamente e psicologicamente segnato, privo di lavoro e di affetti viene finalmente liberato, si innesca con estrema facilità il meccanismo della porta girevole, così ben illustrato dalle statistiche sulla recidiva e dalla recente esperienza italiana dell’indulto.
La società viene percepita all’interno del carcere come avente un ruolo ostile, negativo (la c.d. cultura dell’avvoltoio) e non esiste logica di reintegrazione del detenuto ma solo di esclusione. La distanza burocratica e fisica tra noi e la prigione rende in verità indifferenti ai detenuti e alla loro vita e ai politici va detto che non saranno certo celle più ampie o più pulite a risolvere il problema. In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve esser messo sotto accusa, ove sveli il suo volto primitivo, quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione.
Nessuna riparazione dei torti subiti dai detenuti è ipotizzabile, ed è possibile solo immaginare provvedimenti giudiziari o legislativi che mettano fine a questi continui torti, nonché l’istituzione capillare su tutto il territorio della figura del Garante dei detenuti al momento istituita solo dai Comuni più rappresentativi.
Le carceri continuano a essere la palese dimostrazione del fallimento dell’idea di risocializzazione. Perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una loro radicale trasformazione.
Gazzetta del Sud, 25 febbraio 2008
"Il pubblico non sa abbastanza, bisogna vederle certe carceri italiane, bisogna esserci stati per rendersene conto. Vedere, questo è il punto essenziale!".
Ecco quello che diceva il grande giurista Calamandrei nel 1948 al tempo in cui era membro della Camera dei deputati ed esortava il Parlamento a compiere una seria indagine sull’universo carcerario e a squarciare il velo d’ignoranza che copriva inesorabilmente la condizione dei detenuti. In verità, sul tema delle carceri oggi non si indugia più di tanto.
È un argomento che induce il più delle volte a cambiare discorso e, se se ne parla, è unicamente nel dibattito politico solo con riferimento a problemi legati al sovraffollamento o all’edilizia penitenziaria. E ciò, perché il carcere rappresenta nei paesi occidentali industrializzati uno strumento di straordinaria ingiustizia e di annullamento della persona umana, come autorevoli studiosi hanno sostenuto evidenziando la necessità di una radicale trasformazione secondo modelli esistenti (quale quello del carcere di Tihar a Nuova Delhi c.d. modello della colomba).
L’intenzione di riabilitare, riformare, risocializzare si rivela qui da noi solo una vuota retorica perché quel che realmente si presenta all’interno delle carceri è un quadro di assoluta ingiustizia mascherata dal pretesto di fare giustizia.
E non c’è da meravigliarsi se il carcere finisce con l’avere un effetto criminogeno e diventa una sorta di scuola specializzata del crimine. Né c’è da meravigliarsi se al momento in cui il detenuto fisicamente e psicologicamente segnato, privo di lavoro e di affetti viene finalmente liberato, si innesca con estrema facilità il meccanismo della porta girevole, così ben illustrato dalle statistiche sulla recidiva e dalla recente esperienza italiana dell’indulto.
La società viene percepita all’interno del carcere come avente un ruolo ostile, negativo (la c.d. cultura dell’avvoltoio) e non esiste logica di reintegrazione del detenuto ma solo di esclusione. La distanza burocratica e fisica tra noi e la prigione rende in verità indifferenti ai detenuti e alla loro vita e ai politici va detto che non saranno certo celle più ampie o più pulite a risolvere il problema. In buona sostanza è il carcere come istituzione che deve esser messo sotto accusa, ove sveli il suo volto primitivo, quale strumento di annullamento della persona umana, quale strumento di de-umanizzazione.
Nessuna riparazione dei torti subiti dai detenuti è ipotizzabile, ed è possibile solo immaginare provvedimenti giudiziari o legislativi che mettano fine a questi continui torti, nonché l’istituzione capillare su tutto il territorio della figura del Garante dei detenuti al momento istituita solo dai Comuni più rappresentativi.
Le carceri continuano a essere la palese dimostrazione del fallimento dell’idea di risocializzazione. Perché le carceri non siano luoghi in cui il senso della vita di ciascun individuo è destinato a scomparire è necessaria una loro radicale trasformazione.
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