L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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martedì 4 marzo 2008

Carcere/Giustizia- Lavori forzati, anche la polizia ride di Fini

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Lavoro coatto per i carcerati. L’ultima proposta del leader di An Gianfranco Fini fa discutere. Anche chi il carcere lo conosce bene. Ad attaccare la sua idea di infliggere ai detenuti «una pena di un certo numero di ore o giorni di lavoro fino a quando non si è pagato il debito con lo Stato» non sono solo i Radicali, il Prc e il disobbediente Luca Casarini, che domenica hanno ironizzato sulla proposta, ma persino gli agenti di polizia penitenziaria. Il giorno dopo la sparata del leader del centrodestra, l’Osapp, il sindacato della polizia penitenziaria, il secondo per numero di iscritti, si dice «sbalordito». Partendo dal presupposto «che la pena deve tendere alla riabilitazione», spiegano dal sindacato, e che in questo senso il lavoro potrebbe anche essere un utile strumento, nella proposta di Fini «sembra che manchino proprio quelle finalità cui deve tendere la pena, e ci sbalordisce il modo con cui sono ventilate certe logiche di riscatto che soverchiano i principi democratici, e di considerazione dell'uomo, su cui si basa la Costituzione italiana». A far inorridire gli agenti di polizia penitenziaria, spiega il segretario dell’Osapp Beneduci, è «il messaggio di chi considera il delinquente ancora come scarto della società, costretto a lavorare “tanti giorni e tante ore quanti ne servono a pagare il debito con lo Stato”». Ma al di là della proposta, il sindacato non ci sta a sentire Fini parlare di «rispetto delle forze dell’ordine», perché «neppure la destra, per l'affanno delle uscite elettorali sorprendenti, è in grado, oggi, di porsi su posizioni nuove e coraggiose».L’affondo prosegue su un tasto dolente, quello della legge sull’immigrazione voluta da Bossi e Fini: se proprio, conclude Beneduci, la destra «vuole avere il rispetto dei 42.000 agenti del corpo che l'Osapp rappresenta, inizi il presidente Fini ad interrogarsi sugli effetti che hanno causato i provvedimenti che portano anche il suo nome, e forse – conclude – solo in quel caso, potremo indirizzare il dibattito sulle gravi questioni che tormentano il nostro sistema».