Giustizia/Carcere- la campagna elettorale fatta sulla pelle dei detenuti
di Davide Varì -Liberazione, 4 marzo 2007
Non bastava l’uscita di Veltroni che non più di una settimana fa "non escludeva" la castrazione chimica per i pedofili; ora è la volta del leader di An Gianfranco Fini il quale - non potendo sopportare l’idea di un sorpasso a destra - ha pensato bene di rilanciare chiedendo nientemeno che i lavori forzati per chi commette reati.
Ben inteso, "nulla a che vedere con l’immagine del detenuto con la palla al piede", ma un lavoro coatto che può prevedere una pena di un "certo numero di ore o giorni di lavoro fino a quando non si è pagato il debito con lo Stato".
Insomma, tempi duri per il popolo dei detenuti. È infatti evidente che una parte della campagna elettorale si sta giocando proprio sulla loro pelle. Del resto, studiosi come Slavoj Zizek e intellettuali come Stefano Rodotà - che parla esplicitamente di "fabbrica della paura" - vanno denunciando da tempo che la "paura" dei cittadini e il conseguente tema della sicurezza ha un grande impatto mediatico e un buon tornaconto elettorale.
Ma Fini non si ferma di certo, e già pensa a come rendere legge questa sua idea: "Ampliamo le normative già esistenti". E a chi gli ricorda che la Costituzione non prevede certo lo sfruttamento del lavoro - neanche in caso dei condannati - trova la dura difesa di Maurizio Gasparri, "chi sbaglia deve pagare. Anche con il proprio lavoro per risarcire chi ha subito reati".
Stavolta neanche Antonio Di Pietro, non certo un campione di garantismo, è d’accordo con la boutade finiana: "È assurdo dire che il detenuto debba andare a lavorare per pagare il danno che ha compiuto alla società, quando neanche i giovani che non hanno commesso reato trovano lavoro", ha commentato il leader dell’Italia dei Valori. "Per fare lavorare un detenuto - conclude Di Pietro - in una azienda ci vogliono 10 poliziotti che lo controllano e allora quanto ci costa? Teniamo i piedi per terra perché la campagna elettorale è una buona cosa, ma le sparate grosse hanno le gambe corte".
E che si tratti di una boutade ne è convinto anche Franco Corleone. Il presidente di "Fuoriluogo" parla infatti di "trovata elettorale per solleticare la pancia della "gente". Corleone parla senza mezzi termini di imbarbarimento del dibattito e si chiede se Fini, quando pensa ai lavori forzati, pensi ai "colletti bianchi" o alle migliaia di poveracci che popolano le patrie galere. "Il lavoro in carcere è una cosa seria - continua Corleone - è uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale. Ma deve essere un lavoro retribuito così come è previsto dall’ordinamento".
Stesse valutazioni, grosso modo, arrivano da Patrizio Gonnella di Antigone: "È un ritorno all’800 - dice a Liberazione - un ritorno alla pena corporale. Forse, se uno leggesse un po’ di letteratura e manualistica, capirebbe che si parla di un modello superato dalla storia. A questo punto - conclude - spero che tra i due schieramenti politici non inizi una rincorsa a chi la spara più grossa".
Anche l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria, il secondo per numero di iscritti, si dice "sbalordito" dalla proposta di Fini. Partendo dal sindacato, e che in questo senso il lavoro potrebbe anche essere un utile strumento, nella proposta di Fini "sembra che manchino proprio quelle finalità cui deve tendere la pena, e ci sbalordisce il modo con cui sono ventilate certe logiche di riscatto che soverchiano i principi democratici, e di considerazione dell’uomo, su cui si basa la Costituzione italiana".
A far inorridire gli agenti di polizia penitenziaria, spiega il segretario dell’Osapp Beneduci, è "il messaggio di chi considera il delinquente ancora come scarto della società, costretto a lavorare "tanti giorni e tante ore quanti ne servono a pagare il debito con lo Stato"". Ma al di là della proposta, il sindacato non ci sta a sentire Fini parlare di "rispetto delle forze dell’ordine", perché "neppure la destra, per l’affanno delle uscite elettorali sorprendenti, è in grado, oggi, di porsi su posizioni nuove e coraggiose".
Poi l’affondo: se proprio, conclude Beneduci, la destra "vuole avere il rispetto dei 42.000 agenti del corpo che l’Osapp rappresenta, inizi il presidente Fini ad interrogarsi sugli effetti che hanno causato i provvedimenti che portano anche il suo nome, e forse - conclude - solo in quel caso, potremo indirizzare il dibattito sulle gravi questioni che tormentano il nostro sistema". Infine Francesco Caruso che parla di "proposta arcaica e per nulla originale, in quanto contemplata nell’art. 276 del regolamento penitenziario entrato in vigore nel Regno d’Italia nel 1891". "Poi fortunatamente il mondo è andato avanti - spiega - è stata promulgata nel novembre del 1950 la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che all’art. 4 sancisce appunto che nessun detenuto può essere costretto a compiere un lavoro obbligatorio".
Non bastava l’uscita di Veltroni che non più di una settimana fa "non escludeva" la castrazione chimica per i pedofili; ora è la volta del leader di An Gianfranco Fini il quale - non potendo sopportare l’idea di un sorpasso a destra - ha pensato bene di rilanciare chiedendo nientemeno che i lavori forzati per chi commette reati.
Ben inteso, "nulla a che vedere con l’immagine del detenuto con la palla al piede", ma un lavoro coatto che può prevedere una pena di un "certo numero di ore o giorni di lavoro fino a quando non si è pagato il debito con lo Stato".
Insomma, tempi duri per il popolo dei detenuti. È infatti evidente che una parte della campagna elettorale si sta giocando proprio sulla loro pelle. Del resto, studiosi come Slavoj Zizek e intellettuali come Stefano Rodotà - che parla esplicitamente di "fabbrica della paura" - vanno denunciando da tempo che la "paura" dei cittadini e il conseguente tema della sicurezza ha un grande impatto mediatico e un buon tornaconto elettorale.
Ma Fini non si ferma di certo, e già pensa a come rendere legge questa sua idea: "Ampliamo le normative già esistenti". E a chi gli ricorda che la Costituzione non prevede certo lo sfruttamento del lavoro - neanche in caso dei condannati - trova la dura difesa di Maurizio Gasparri, "chi sbaglia deve pagare. Anche con il proprio lavoro per risarcire chi ha subito reati".
Stavolta neanche Antonio Di Pietro, non certo un campione di garantismo, è d’accordo con la boutade finiana: "È assurdo dire che il detenuto debba andare a lavorare per pagare il danno che ha compiuto alla società, quando neanche i giovani che non hanno commesso reato trovano lavoro", ha commentato il leader dell’Italia dei Valori. "Per fare lavorare un detenuto - conclude Di Pietro - in una azienda ci vogliono 10 poliziotti che lo controllano e allora quanto ci costa? Teniamo i piedi per terra perché la campagna elettorale è una buona cosa, ma le sparate grosse hanno le gambe corte".
E che si tratti di una boutade ne è convinto anche Franco Corleone. Il presidente di "Fuoriluogo" parla infatti di "trovata elettorale per solleticare la pancia della "gente". Corleone parla senza mezzi termini di imbarbarimento del dibattito e si chiede se Fini, quando pensa ai lavori forzati, pensi ai "colletti bianchi" o alle migliaia di poveracci che popolano le patrie galere. "Il lavoro in carcere è una cosa seria - continua Corleone - è uno strumento fondamentale per il reinserimento sociale. Ma deve essere un lavoro retribuito così come è previsto dall’ordinamento".
Stesse valutazioni, grosso modo, arrivano da Patrizio Gonnella di Antigone: "È un ritorno all’800 - dice a Liberazione - un ritorno alla pena corporale. Forse, se uno leggesse un po’ di letteratura e manualistica, capirebbe che si parla di un modello superato dalla storia. A questo punto - conclude - spero che tra i due schieramenti politici non inizi una rincorsa a chi la spara più grossa".
Anche l’Osapp, il sindacato di polizia penitenziaria, il secondo per numero di iscritti, si dice "sbalordito" dalla proposta di Fini. Partendo dal sindacato, e che in questo senso il lavoro potrebbe anche essere un utile strumento, nella proposta di Fini "sembra che manchino proprio quelle finalità cui deve tendere la pena, e ci sbalordisce il modo con cui sono ventilate certe logiche di riscatto che soverchiano i principi democratici, e di considerazione dell’uomo, su cui si basa la Costituzione italiana".
A far inorridire gli agenti di polizia penitenziaria, spiega il segretario dell’Osapp Beneduci, è "il messaggio di chi considera il delinquente ancora come scarto della società, costretto a lavorare "tanti giorni e tante ore quanti ne servono a pagare il debito con lo Stato"". Ma al di là della proposta, il sindacato non ci sta a sentire Fini parlare di "rispetto delle forze dell’ordine", perché "neppure la destra, per l’affanno delle uscite elettorali sorprendenti, è in grado, oggi, di porsi su posizioni nuove e coraggiose".
Poi l’affondo: se proprio, conclude Beneduci, la destra "vuole avere il rispetto dei 42.000 agenti del corpo che l’Osapp rappresenta, inizi il presidente Fini ad interrogarsi sugli effetti che hanno causato i provvedimenti che portano anche il suo nome, e forse - conclude - solo in quel caso, potremo indirizzare il dibattito sulle gravi questioni che tormentano il nostro sistema". Infine Francesco Caruso che parla di "proposta arcaica e per nulla originale, in quanto contemplata nell’art. 276 del regolamento penitenziario entrato in vigore nel Regno d’Italia nel 1891". "Poi fortunatamente il mondo è andato avanti - spiega - è stata promulgata nel novembre del 1950 la Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che all’art. 4 sancisce appunto che nessun detenuto può essere costretto a compiere un lavoro obbligatorio".
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