Giustizia/Carcere- Ucpi: più attenzione per carcere e legge Gozzini
di Oreste Dominioni (Presidente Unione Camere Penali)
www.camerepenali.it, 6 marzo 2008
La prossima legislatura, a differenza delle precedenti, non può perdere l’occasione di affrontare con coraggio i temi della giustizia, a dispetto della demagogia che trapela nelle prime uscite della politica in campagna elettorale. È indispensabile muoversi nel senso della efficienza del processo attraverso uno stanziamento di risorse adeguate e la gestione delle stesse al di fuori di dinamiche burocratiche. L’avvocatura penale intende confrontarsi sul tema della lunghezza dei processi, chiarendo però che è inaccettabile scendere sul terreno di chi sostiene che i tempi lunghi dipendano dalle "troppe garanzie".
Studi molto seri dimostrano che sono i tempi morti, le disfunzioni organizzative, l’impreparazione gestionale, la carenza di personale a determinare i ritardi. Sono perciò da respingere gravi proposte di marca autoritaria come la pretesa di eliminare il grado di appello avanzata recentemente dal Procuratore antimafia, tra l’altro sull’erroneo presupposto che i sistemi accusatori non lo prevederebbero.
Il codice penale andrà riformato sulla falsariga dei lavori di questa legislatura, e certamente sono auspicabili interventi su quello di procedura (per recuperarne funzionalità in senso accusatorio), ma non certo in favore di quel "processo esemplare" sotteso ai disegni governativi dell’ultima legislatura che qualcuno vuole riciclare.
Carcere e legge Gozzini dovranno essere al centro della attenzione, in entrambi i casi per non sacrificare il principio costituzionale di rieducazione e la extrema ratio della misura carceraria.
Quanto alla certezza della pena sfugge ai più che se le strutture consentissero al processo una durata ragionevole la sanzione raggiungerebbe il proprio effetto deterrente senza necessità di aggravamenti indiscriminati di pene o riduzioni di garanzie.
Quanto agli aspetti ordinamentali, è imprescindibile una seria riforma dell’avvocatura che affronti la sua qualificazione professionale anche in sede d’accesso; che istituisca gli elenchi di specialità; che incanali la preparazione degli avvocati in percorsi rigorosi sottratti a verifiche di mera facciata.
La riforma forense non potrà poi che prevedere una legge autonoma dalle altre professioni intellettuali: non per invocare privilegi ma per accostare allo statuto della magistratura (l’ordinamento giudiziario) quello della avvocatura, unica professione intellettuale richiamata dalla Costituzione in quanto garante della tutela dei diritti dei cittadini.
Imprescindibile, infine, una riforma in senso liberaldemocratico della magistratura. Dovrà essere rivalutata la presenza esclusiva e militante della magistratura all’interno delle compagini ministeriali, che determina un’interferenza ormai non più accettabile del potere giudiziario su quello esecutivo. Non si tratta di un tema polemico ma di una questione di cultura istituzionale.
Quanto alla questione delle carriere, non dovrebbe essere necessario, in un paese di democrazia liberale, ricordare l’anomalia della unicità delle carriere dei magistrati. In sintesi, si tratta di impedire che l’unità organizzativa consenta che un soggetto sia nominato magistrato per esercitare indifferentemente la funzione d’accusa o quella di decisione, come se fossero riconducili a un unico genus.
Per affermare il valore dell’imparzialità della decisione non basta definire il giudice in una posizione di terzietà nel processo: occorre che questa sia protetta da contaminazioni di origine ordinamentale, non essendo seriamente prospettabile che i magi-strati d’accusa e di decisione siano uguali nell’ordinamento e radicalmente diversi nel processo.
Nella impostazione vigente è palese la concezione autoritativa dell’amministrazione della giustizia: la cosiddetta cultura della giurisdizione quale piattaforma che accomuni giudice e pubblico ministero è espressione della volontà che gli organi di decisione e di accusa esercitino una funzione uni-taria, emanazione dello Stato soverchiante i diritti dei singoli e cioè, nel processo, la difesa.
Questa concezione però, e la prassi giudiziaria ne è testimone, trasferisce al giudice la cultura dell’accusa piuttosto che favorire la trasmissione al pubblico ministero della cultura della giurisdizione. Una cosa è, allora, la cultura della giurisdizione, che informa la funzione di decisione, ed altro la "cultura della legalità", base comune di tutti i soggetti del processo, pm e difensore compresi, e delle loro funzioni. Restringere un’identità di cultura ("della giurisdizione") ai soli soggetti pubblici, giudice e pm, significa riproporre visioni statuali-autoritative.
Quanto alla presunta non incidenza della riforma sulla funzionalità del processo è semplice replicare che ogni iniziativa che incida positivamente sulla qualità della giurisdizione migliora l’efficienza del processo, che non è valutabile soltanto sotto l’aspetto statistico.
www.camerepenali.it, 6 marzo 2008
La prossima legislatura, a differenza delle precedenti, non può perdere l’occasione di affrontare con coraggio i temi della giustizia, a dispetto della demagogia che trapela nelle prime uscite della politica in campagna elettorale. È indispensabile muoversi nel senso della efficienza del processo attraverso uno stanziamento di risorse adeguate e la gestione delle stesse al di fuori di dinamiche burocratiche. L’avvocatura penale intende confrontarsi sul tema della lunghezza dei processi, chiarendo però che è inaccettabile scendere sul terreno di chi sostiene che i tempi lunghi dipendano dalle "troppe garanzie".
Studi molto seri dimostrano che sono i tempi morti, le disfunzioni organizzative, l’impreparazione gestionale, la carenza di personale a determinare i ritardi. Sono perciò da respingere gravi proposte di marca autoritaria come la pretesa di eliminare il grado di appello avanzata recentemente dal Procuratore antimafia, tra l’altro sull’erroneo presupposto che i sistemi accusatori non lo prevederebbero.
Il codice penale andrà riformato sulla falsariga dei lavori di questa legislatura, e certamente sono auspicabili interventi su quello di procedura (per recuperarne funzionalità in senso accusatorio), ma non certo in favore di quel "processo esemplare" sotteso ai disegni governativi dell’ultima legislatura che qualcuno vuole riciclare.
Carcere e legge Gozzini dovranno essere al centro della attenzione, in entrambi i casi per non sacrificare il principio costituzionale di rieducazione e la extrema ratio della misura carceraria.
Quanto alla certezza della pena sfugge ai più che se le strutture consentissero al processo una durata ragionevole la sanzione raggiungerebbe il proprio effetto deterrente senza necessità di aggravamenti indiscriminati di pene o riduzioni di garanzie.
Quanto agli aspetti ordinamentali, è imprescindibile una seria riforma dell’avvocatura che affronti la sua qualificazione professionale anche in sede d’accesso; che istituisca gli elenchi di specialità; che incanali la preparazione degli avvocati in percorsi rigorosi sottratti a verifiche di mera facciata.
La riforma forense non potrà poi che prevedere una legge autonoma dalle altre professioni intellettuali: non per invocare privilegi ma per accostare allo statuto della magistratura (l’ordinamento giudiziario) quello della avvocatura, unica professione intellettuale richiamata dalla Costituzione in quanto garante della tutela dei diritti dei cittadini.
Imprescindibile, infine, una riforma in senso liberaldemocratico della magistratura. Dovrà essere rivalutata la presenza esclusiva e militante della magistratura all’interno delle compagini ministeriali, che determina un’interferenza ormai non più accettabile del potere giudiziario su quello esecutivo. Non si tratta di un tema polemico ma di una questione di cultura istituzionale.
Quanto alla questione delle carriere, non dovrebbe essere necessario, in un paese di democrazia liberale, ricordare l’anomalia della unicità delle carriere dei magistrati. In sintesi, si tratta di impedire che l’unità organizzativa consenta che un soggetto sia nominato magistrato per esercitare indifferentemente la funzione d’accusa o quella di decisione, come se fossero riconducili a un unico genus.
Per affermare il valore dell’imparzialità della decisione non basta definire il giudice in una posizione di terzietà nel processo: occorre che questa sia protetta da contaminazioni di origine ordinamentale, non essendo seriamente prospettabile che i magi-strati d’accusa e di decisione siano uguali nell’ordinamento e radicalmente diversi nel processo.
Nella impostazione vigente è palese la concezione autoritativa dell’amministrazione della giustizia: la cosiddetta cultura della giurisdizione quale piattaforma che accomuni giudice e pubblico ministero è espressione della volontà che gli organi di decisione e di accusa esercitino una funzione uni-taria, emanazione dello Stato soverchiante i diritti dei singoli e cioè, nel processo, la difesa.
Questa concezione però, e la prassi giudiziaria ne è testimone, trasferisce al giudice la cultura dell’accusa piuttosto che favorire la trasmissione al pubblico ministero della cultura della giurisdizione. Una cosa è, allora, la cultura della giurisdizione, che informa la funzione di decisione, ed altro la "cultura della legalità", base comune di tutti i soggetti del processo, pm e difensore compresi, e delle loro funzioni. Restringere un’identità di cultura ("della giurisdizione") ai soli soggetti pubblici, giudice e pm, significa riproporre visioni statuali-autoritative.
Quanto alla presunta non incidenza della riforma sulla funzionalità del processo è semplice replicare che ogni iniziativa che incida positivamente sulla qualità della giurisdizione migliora l’efficienza del processo, che non è valutabile soltanto sotto l’aspetto statistico.
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