Giustizia/Carcere- Sidipe: perché i detenuti non potrebbero lavorare?
Sidipe, 5 marzo 2008
Tutti gli operatori penitenziari che, effettivamente, lavorano nelle carceri italiane sanno come il lavoro, dopo quello perso della libertà, sia il primo desiderio della generalità delle persone detenute le quali, spesso, sopportano il degradante stato degli istituti penitenziari proprio nella speranza che, nel rispetto della cabala del lavoro (per lavorare occorre fare parte di apposite liste, le quali tengono conto di una serie di requisiti, quali la posizione giuridica, la lunghezza della pena, da quanto tempo si sia disoccupati, quale sia il carico familiare, se si abbiano o meno risorse, se si abbiano abilità professionali certificate, etc.), si individuino "i fortunati" i quali, invece di trascorrere nell’ozio forzato, all’interno di celle sempre più strette, le ore che non passano mai, si vedranno impegnati in attività lavorative, ricevendone in cambio un trattamento economico dignitoso, il quale si richiama ai contratti di categoria, ove si potranno aggiungere gli assegni familiari e dove sono operati anche i contributi previdenziali ai fini pensionistici.
Vi sono detenuti che, pur di lavorare, affronterebbero qualunque difficoltà: spesso è proprio il lavoro che opera la più profonda delle distinzioni tra le persone ristrette, tra gli "in" e gli "out". Chi lavora, con quanto guadagna, può pagarsi una migliore difesa, può aiutare la famiglia, può acquistare generi di conforto, dalle sigarette alle scarpe sportive, dalla "Nutella" alle mutande…
Purtroppo le attuali carceri non sono state pensate per favorire concrete possibilità di lavoro, per consentire l’accesso delle imprese che cercassero una manodopera particolarmente motivata e spesso specializzata: vecchi istituti di pena sorti in manieri o in conventi, così come anche diversi nuovi istituti, quelli delle "carceri d’oro", sono sorti come "grigi e tetri contenitori" piuttosto che come cittadelle penitenziarie, piuttosto che come distretti formativi ed occupazionali, e non consentono l’accesso di TIR, lo stivaggio di materie prime, di semilavorati, l’allestimento di macchinari industriali, etc.
Proprio sul tema del lavoro in carcere, da Trieste, si sta sviluppando una scuola di pensiero, che vede la partecipazione di docenti universitari del mondo del Diritto e perfino della Facoltà di Architettura, di rappresentanti del mondo della formazione professionale, del mondo del lavoro, di psicologi ed esperti, nonché di operatori penitenziari, impegnati a trovare soluzioni concrete, non aria fritta, percorribili per consentire al numero vasto di persone ristrette di poter lavorare, di poter rispettare, almeno in carcere, il primo articolo della Costituzione Italiana.
Sono stati anche organizzati diversi convegni, uno persino nel carcere di Trieste con la presenza degli stessi detenuti, e gli apprezzamenti sono stati lusinghieri.
Il primo convegno, che ha visto come luogo di svolgimento, la solenne Aula Magna dell’Università di Trieste, nell’aprile scorso, quindi in tempi non sospetti di "odore elettorale", organizzato dall’Istituto Internazionale di Studi sui Diritti dell’Uomo e dal Sindacato dei Direttori Penitenziari (Sidipe era intitolato: "Per una nuova idea di carcere, fabbrica del reinserimento sociale".
Attraverso i numerosi interventi, anche riportando esperienze di altri stati europei, si identificava nel lavoro la reale possibilità di riscatto delle persone che si trovano in carcere, in una concezione moderna del concetto di restrizione della libertà. Riconoscendo come il carcere può, all’interno della società, diventare un elemento di sviluppo sociale ed economico, e non esclusivamente un centro di costo.
Quindi non è affatto vero che i detenuti non vogliano lavorare, non è affatto vero che non si possa consentire il lavoro all’interno delle carceri, non è affatto vero che vi siano problemi se non quelli della burocrazia e della volontà politica.
Ma per fare lavorare i detenuti è necessario, nonché rappresenta la base prima di ogni intervento, realizzare nuove, moderne, intelligenti perché "umane" e sicure, strutture penitenziarie.
A tal proposito si è proposto di riqualificare le caserme recentemente dismesse ed impegnare anche il mondo della finanza e dell’imprenditoria privata, realizzando carceri in project financing, assicurando i flussi di cassa a quanti vorranno investire nella produzione carceraria, attraverso il contestuale affidamento complessivo, per un congruo numero di anni, di quei servizi che già oggi, si ripete già oggi, a legislazione "ferma", sono o possono essere conferiti ai privati: appalto mantenimento pasti dei detenuti, appalti di pulizie, appalti di manutenzione degli impianti tecnologici, appalti del servizio di lavanderia, appalto della mensa aziendale del personale, appalto dei servizi di bar, etc.
In questo modo, con ogni probabilità si troverebbero finanziatori ed imprenditori interessati a realizzare, su aree pubbliche, e seguendo le istruzioni di massima della parte pubblica, nuovi istituti penitenziari, con tempi di esecuzione dei lavori certamente inferiori di quelli di 15-20 anni che appartengono allo Stato, e con costi sicuramente più bassi.
I nuovi istituti non dovranno avere una capienza superiore alle 300 unità, affinché non diventino luoghi spersonalizzati, che penalizzino sia il personale penitenziario che gli stessi detenuti.
Piccole cittadelle penitenziarie capaci di attirare le imprese industriali ed artigiane, capaci di fare innovazione tecnologica e di interessare il mercato. Già oggi esistono realtà penitenziarie produttive, dove sono presenti laboratori di panetteria, pasticceria, di sartoria, etc.
Non è un sogno, bensì una lucida razionale progettualità che, se soltanto si sapranno buttare alle ortiche luoghi comuni e ogni sorta di ideologismo, sarà sicuramente possibile realizzare, con qualunque serio governo che verrà.
La pretesa di far lavorare i detenuti non è una boutade, come molti, istituzionalmente pigri, si sono affannati a rappresentare, ma una strategia reale e possibile, anche se meno attraente rispetto alla vulgata di "liberiamoli tutti": meglio avere a che fare con migliaia di detenuti lavoratori, che avanzano pretese sindacali anche rumorose, piuttosto che con le bande organizzate di mafiosi, camorristi, etc. etc.
Il Segretario Nazionale Sidipe
Dr. Enrico Sbriglia
Tutti gli operatori penitenziari che, effettivamente, lavorano nelle carceri italiane sanno come il lavoro, dopo quello perso della libertà, sia il primo desiderio della generalità delle persone detenute le quali, spesso, sopportano il degradante stato degli istituti penitenziari proprio nella speranza che, nel rispetto della cabala del lavoro (per lavorare occorre fare parte di apposite liste, le quali tengono conto di una serie di requisiti, quali la posizione giuridica, la lunghezza della pena, da quanto tempo si sia disoccupati, quale sia il carico familiare, se si abbiano o meno risorse, se si abbiano abilità professionali certificate, etc.), si individuino "i fortunati" i quali, invece di trascorrere nell’ozio forzato, all’interno di celle sempre più strette, le ore che non passano mai, si vedranno impegnati in attività lavorative, ricevendone in cambio un trattamento economico dignitoso, il quale si richiama ai contratti di categoria, ove si potranno aggiungere gli assegni familiari e dove sono operati anche i contributi previdenziali ai fini pensionistici.
Vi sono detenuti che, pur di lavorare, affronterebbero qualunque difficoltà: spesso è proprio il lavoro che opera la più profonda delle distinzioni tra le persone ristrette, tra gli "in" e gli "out". Chi lavora, con quanto guadagna, può pagarsi una migliore difesa, può aiutare la famiglia, può acquistare generi di conforto, dalle sigarette alle scarpe sportive, dalla "Nutella" alle mutande…
Purtroppo le attuali carceri non sono state pensate per favorire concrete possibilità di lavoro, per consentire l’accesso delle imprese che cercassero una manodopera particolarmente motivata e spesso specializzata: vecchi istituti di pena sorti in manieri o in conventi, così come anche diversi nuovi istituti, quelli delle "carceri d’oro", sono sorti come "grigi e tetri contenitori" piuttosto che come cittadelle penitenziarie, piuttosto che come distretti formativi ed occupazionali, e non consentono l’accesso di TIR, lo stivaggio di materie prime, di semilavorati, l’allestimento di macchinari industriali, etc.
Proprio sul tema del lavoro in carcere, da Trieste, si sta sviluppando una scuola di pensiero, che vede la partecipazione di docenti universitari del mondo del Diritto e perfino della Facoltà di Architettura, di rappresentanti del mondo della formazione professionale, del mondo del lavoro, di psicologi ed esperti, nonché di operatori penitenziari, impegnati a trovare soluzioni concrete, non aria fritta, percorribili per consentire al numero vasto di persone ristrette di poter lavorare, di poter rispettare, almeno in carcere, il primo articolo della Costituzione Italiana.
Sono stati anche organizzati diversi convegni, uno persino nel carcere di Trieste con la presenza degli stessi detenuti, e gli apprezzamenti sono stati lusinghieri.
Il primo convegno, che ha visto come luogo di svolgimento, la solenne Aula Magna dell’Università di Trieste, nell’aprile scorso, quindi in tempi non sospetti di "odore elettorale", organizzato dall’Istituto Internazionale di Studi sui Diritti dell’Uomo e dal Sindacato dei Direttori Penitenziari (Sidipe era intitolato: "Per una nuova idea di carcere, fabbrica del reinserimento sociale".
Attraverso i numerosi interventi, anche riportando esperienze di altri stati europei, si identificava nel lavoro la reale possibilità di riscatto delle persone che si trovano in carcere, in una concezione moderna del concetto di restrizione della libertà. Riconoscendo come il carcere può, all’interno della società, diventare un elemento di sviluppo sociale ed economico, e non esclusivamente un centro di costo.
Quindi non è affatto vero che i detenuti non vogliano lavorare, non è affatto vero che non si possa consentire il lavoro all’interno delle carceri, non è affatto vero che vi siano problemi se non quelli della burocrazia e della volontà politica.
Ma per fare lavorare i detenuti è necessario, nonché rappresenta la base prima di ogni intervento, realizzare nuove, moderne, intelligenti perché "umane" e sicure, strutture penitenziarie.
A tal proposito si è proposto di riqualificare le caserme recentemente dismesse ed impegnare anche il mondo della finanza e dell’imprenditoria privata, realizzando carceri in project financing, assicurando i flussi di cassa a quanti vorranno investire nella produzione carceraria, attraverso il contestuale affidamento complessivo, per un congruo numero di anni, di quei servizi che già oggi, si ripete già oggi, a legislazione "ferma", sono o possono essere conferiti ai privati: appalto mantenimento pasti dei detenuti, appalti di pulizie, appalti di manutenzione degli impianti tecnologici, appalti del servizio di lavanderia, appalto della mensa aziendale del personale, appalto dei servizi di bar, etc.
In questo modo, con ogni probabilità si troverebbero finanziatori ed imprenditori interessati a realizzare, su aree pubbliche, e seguendo le istruzioni di massima della parte pubblica, nuovi istituti penitenziari, con tempi di esecuzione dei lavori certamente inferiori di quelli di 15-20 anni che appartengono allo Stato, e con costi sicuramente più bassi.
I nuovi istituti non dovranno avere una capienza superiore alle 300 unità, affinché non diventino luoghi spersonalizzati, che penalizzino sia il personale penitenziario che gli stessi detenuti.
Piccole cittadelle penitenziarie capaci di attirare le imprese industriali ed artigiane, capaci di fare innovazione tecnologica e di interessare il mercato. Già oggi esistono realtà penitenziarie produttive, dove sono presenti laboratori di panetteria, pasticceria, di sartoria, etc.
Non è un sogno, bensì una lucida razionale progettualità che, se soltanto si sapranno buttare alle ortiche luoghi comuni e ogni sorta di ideologismo, sarà sicuramente possibile realizzare, con qualunque serio governo che verrà.
La pretesa di far lavorare i detenuti non è una boutade, come molti, istituzionalmente pigri, si sono affannati a rappresentare, ma una strategia reale e possibile, anche se meno attraente rispetto alla vulgata di "liberiamoli tutti": meglio avere a che fare con migliaia di detenuti lavoratori, che avanzano pretese sindacali anche rumorose, piuttosto che con le bande organizzate di mafiosi, camorristi, etc. etc.
Il Segretario Nazionale Sidipe
Dr. Enrico Sbriglia
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