L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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mercoledì 7 maggio 2008

LA DOMANDA DI SICUREZZA PUO' NON INVESTIRE I SERVIZI? Tracce per una discussione pubblica


di FRANCA OLIVETTI MANOUKIAN (Animazione Sociale -8 maggio)

Oggi i servizi non possono banalizzare la domanda di sicurezza che sale dai territori e rischia di trasformare i problemi sociali in problemi di ordine pubblico. Non possono ignorare i rischi di discorsi che invocano «sicurezza pubblica» (più forze dell’ordine) e relegano nell’insignificanza, la «sicurezza sociale» (assicurata dai servizi). È cruciale che i servizi accolgano il disagio collegato alla percezione di insicurezza dilagante e contagiosa, tentino di offrirne letture meno semplificate di quelle circolanti, indichino strade un po’ più promettenti di quelle che paiono riscuotere unanimi consensi.


Nei sussulti e negli scossoni che di questi tempi investono il nostro Paese, i servizi che portano nella loro denominazione il prefisso «socio» in che rapporto stanno con la «società»? I servizi che si occupano di «disagio» contribuiscono, potrebbero, possono contribuire a costruire condizioni di agio, di ben-essere per coloro che abitano e vivono in un territorio?
Sono, questi, interrogativi che mi pongo e che pongo da qualche anno e che ripropongo collegandoli ad alcuni fenomeni che vengono più che in altri momenti sbandierati sui giornali in concomitanza con gli esiti delle recenti consultazioni elettorali. Attraverso attività di formazione realizzate con operatori dei servizi e soprattutto in esperienze di ricerca rivolte a individuare nuove e più specifiche ipotesi sul lavoro nel sociale, sono maturate delle riflessioni, esposte in qualche convegno e in qualche scritto su Animazione Sociale.
Non intendo ripeterle, né ribadirle. Le sollecitazioni che emergono dalla realtà sociale e dalle analisi che ne vengono offerte mi sembra che permettano delle precisazioni e chiarificazioni che vorrei sinteticamente presentare per contribuire, per quel minimo che mi è possibile, a costruire elaborazioni e orientamenti, ad alimentare un bacino di idee e di riferimenti a cui i servizi possano attingere per ricollocarsi e ricollocare gli interventi, le direzioni e le azioni che sostanziano la loro operatività quotidiana.

L’insostenibile schema bisogni/risposte
Nelle descrizioni e prescrizioni con cui abitualmente si individuano i servizi nei documenti formali, nelle normative e nelle direttive o nelle pubblicazioni informative stampate dagli enti locali, dalle aziende sanitarie o da enti privati, ma anche nel linguaggio utilizzato da amministratori e dirigenti nel rivolgersi agli operatori e negli scambi tra gli stessi operatori, è ricorrente l’utilizzo di due termini che vengono accoppiati: «bisogni» e «risposte». Viene dichiarato con varie intonazioni che «i servizi offrono risposte ai bisogni degli utenti », come se questa fosse la funzione che devono svolgere, come se questi fossero gli interventi che sono chiamati a realizzare. Le parole vanno prese alla lettera? Forse sì, forse no. Non so. In ogni caso offrono elementi indiziari. Nella comunicazione esprimono e configurano delle rappresentazioni che vanno a sostenere delle attese rispetto ai modi di interagire tra gli attori in gioco.
Se si parla di «bisogno» e di «risposta», si induce l’idea che la mancanza, lo stato di privazione di qualsiasi genere che è avvertito da qualcuno, possa trovare saturazione, compiutezza ad opera di qualcun altro. Ci si trova pertanto intrappolati, in uno schema comportamentale apparentemente razionale, ma ben poco realistico. Da un lato si induce l’aspettativa di essere soddisfatti e dall’altro si indica un modello di intervento insostenibile.
Nella società in cui viviamo, sempre più attraversata da squilibri e contraddizioni, da frammentazioni e disgregazioni, i bisogni non possono che moltiplicarsi. Più specificamente i bisogni per definizione sono nello stesso tempo inesauribili e diversamente avvertiti a seconda dei contesti culturali. Gli stessi bisogni fisiologici non sono mai colmati una volta per sempre e ogni bisogno soddisfatto ne fa nascere un altro. Intrinsecamente sono incolmabili, inafferrabili, insostenibili e pertanto ingestibili. Per questo nel corso degli anni, per quanto riguarda i bisogni che afferiscono ai servizi, si sono tentate delle classificazioni o più frequentemente si sono condensati alcuni bisogni nelle definizioni di alcune categorie di utenti: ad esempio, anziani e anziani non autosufficienti, minori e minori maltrattati... Come se la qualificazione esprimesse di quali bisogni gli individui siano portatori e indirizzasse il tipo di intervento – «risposta» – da mettere in atto. Parallelamente si sono procedurate le attività da svolgere entro una logica razionale, di per sé ineccepibile. E in questo schema si sono avvitate da un lato le illusioni di poter avere la risoluzione della difficoltà, l’esaudimento delle aspettative e in sostanza l’ottenimento di ciò che può trasformare il malessere in benessere e dall’altro le collusioni nel far presumere che questo sia praticabile.

I servizi oggi sono mal visti
Nonostante il lavoro che da anni svolgono, nonostante gli investimenti di motivazioni, di energie, di varie forme di finanziamento, possiamo registrare nei confronti dei servizi un’ampia e solida legittimazione? Non credo, non da parte dei cosiddetti utenti, né da parte degli amministratori, né genericamente da parte dell’opinione pubblica, se consideriamo l’immagine che ne viene data nei mass media o che viene rispecchiata ad esempio nei giornali locali. Non sottovaluto il dato, culturale e strutturale, per cui non gode di un grande apprezzamento sociale chi si occupa delle parti oscure e tristi, delle disgrazie, o per parafrasare il titolo del libro di Bauman, delle vite di scarto: ma oggi i rifiuti sono sempre più importanti, sempre più presi in considerazione in tutti gli ambiti e chi riesce a occuparsene in modo soddisfacente è notevolmente apprezzato. «Soddisfacente »: probabilmente in questa parola sta l’insidia che incombe sui servizi, soprattutto se viene usata senza riferimenti più specifici al per chi e per che cosa.

L’utenza diretta è spesso critica.
I servizi hanno diverse tipologie di fruitori. Esiste un’utenza diretta che sommariamente potrebbe essere diversificata entro tre gruppi: «cronici», «assistiti», «nuovi».
I cronici. I «cronici» li indico con questo termine soltanto per sottolineare l’esistenza, nella loro vita, di una condizione permanente di difficoltà in cui fattori di tipo economico, culturale, relazionale, di storia familiare e di patologie si tramandano, si combinano in un quadro di deprivazione, che li rende destinatari privilegiati dei servizi. Nei loro confronti gli interventi si moltiplicano; prendono tutto ciò che viene messo a disposizione, a volte anche con atteggiamenti strumentali; a volte sfidano, a volte occultano, raramente si lamentano ma non smettono mai di chiedere (o di pretendere quello a cui hanno «diritto»).
Gli assistiti. Gli «assistiti» sono coloro che hanno delle ragioni specifiche per rivolgersi ai servizi, ragioni collegate alla presenza di un handicap di varia natura o di una disa- bilità fisica o mentale, a un deterioramento dovuto a qualche tracollo fisico per l’età avanzata, per un trauma, ecc. Questi utenti e soprattutto le loro famiglie si aspettano molto dai servizi e si fanno avanti con domande e anche con proposte: non si sentono sostenuti come vorrebbero. Gli uni e gli altri tendenzialmente non si ritengono soddisfatti del lavoro dei servizi, perché quello che viene messo a disposizione, per ragioni differenti, appare sempre lontano da ciò a cui si aspira.
I nuovi. Infine abbiamo i «nuovi». Sono coloro che provengono da strati sociali che tradizionalmente non si rivolgevano ai servizi, e oggi ricorrono ad essi spinti da problematiche relazionali e comportamentali che li spaventano e li spiazzano. Sono impiegati di livello medio, insegnanti, commercianti, professionisti che si trovano impreparati di fronte alle aggressività di figli adolescenti nei confronti di compagni di scuola, episodi di bullismo e di vandalismo con relative denunce, scoperta dell’esistenza di bande oppure sono persone che hanno perso la propria posizione lavorativa o che per una malattia o una separazione sperimentano il venir meno di qualche fonte di reddito e/o di riferimenti affettivi e non riescono a trovare nuovi equilibri. Nei confronti dei servizi costoro sono spesso critici, tendono a portare le loro visioni e le loro «soluzioni», dividono i professionisti, li giudicano, cercano appoggi, svalutano ciò che viene messo a disposizione. Ho per sommi capi descritto una tipologia e degli atteggiamenti che presentano senz’altro molte variazioni a seconda dei contesti locali.
Segnalo soltanto degli elementi indicativi. Potremmo prenderne altri, ma anche cambiando l’ordine degli addendi il risultato non cambia. Ciò che risulta – e che vorrei mettere in risalto – è che i servizi attraverso i loro utenti diretti non trovano riconoscimenti visibili, pubblici, pubblicamente affermati dell’attività che svolgono.

L’utenza indiretta si chiede «che cosa fanno i servizi?».
In una cerchia più ampia attorno ai servizi si situa l’utenza indiretta, ovvero l’opinione pubblica locale, quella che si manifesta a livello di regione e anche nel Paese in generale. Per quel che si può capire, sempre a livello di segnali ed elementi indiziari, sembra che non ci siano idee chiare su che cosa fanno i servizi e si oscilla tra il considerare che svolgono un lavoro molto difficile e importante e il pensare che in fondo purtroppo non riescono a realizzare attività significative: si arriva anche a sanzionare esplicitamente gli interventi (ad esempio, nei casi in cui vengono allontanati dei bambini dai genitori) o le omissioni di intervento (ad esempio, là dove persone tossicodipendenti o malate di mente compiono dei reati), fino a chiedersi tutto sommato che cosa facciano. Si potrebbe ipotizzare che la debole legittimazione dei servizi da parte della cittadinanza vada ricondotta al fatto che i servizi non accolgono, non intercettano il disagio che è collegato
alla percezione di insicurezza dilagante e contagiosa, ormai infiltrata più ancora che nella realtà della nostra vita, nelle analisi sommarie dei fatti di cronaca e nei commenti che le circondano. Giustificata o meno, ragionevole o irragionevole che sia, poco importa. Secondo la legge di Thomas ciò che viene ritenuto reale, diventa tale nelle sue conseguenze.
Non ci si può sottrarre alla insistente domanda della gente di trovare protezione e sicurezza e mi sembrerebbe anche importante tentare di offrirne delle letture meno semplificate di quelle normalmente circolanti, indicando delle strade da percorrere un po’ più promettenti di quelle che paiono riscuotere unanimi consensi.

Se la gente chiede sicurezza
Grazie allo sviluppo economico e sociale di cui il nostro Paese ha goduto negli ultimi decenni del ’900 molte famiglie hanno potuto raggiungere condizioni di vita migliori di quelle delle generazioni precedenti. Sono cresciute e crescenti le attese di «stare bene», sotto vari punti di vista, dalla salute, al tempo libero, ai consumi, all’abitazione; attese di vivere in un ambiente ordinato con le strade pulite e senza buche, senza pericolo di incontrare dei malintenzionati o anche degli individui che nelle loro stesse fattezze rappresentano fisicamente l’esistenza di parti della società miserevoli ed emarginate da cui si rifugge.

Il futuro spaventa.
Forse possiamo ipotizzare che oggi il disagio sociale non sia tanto rappresentato da chi vive in stato di deprivazione, di indigenza, devianza, dipendenza da sostanze, ma dalle difficoltà di interazione che la maggior parte della gente ha con singoli e gruppi che sono «diversi», e che per questo sono immediatamente una minaccia che allarma, un pericolo a cui si è esposti e che suscita immediatamente la paura di essere depredati.
Molti hanno collegato la percezione di insicurezza all’impatto con l’immigrazione (che per il nostro paese è fenomeno recente e tanto più dirompente), alle trasformazioni e delocalizzazioni produttive che hanno portato fuoriuscite dal mercato del lavoro e conseguenti impoverimenti, al venir meno delle grandi fabbriche e della loro funzione di integrazione attraverso il lavoro (così importante all’epoca delle migrazioni interne). Credo che accanto a tutto questo vada anche tenuto conto dell’immaginario rispetto al futuro, che appare carico di incertezze per la propria riuscita professionale, per l’occupazione dei figli, per l’incremento o il mantenimento dei risparmi o delle proprietà faticosamente acquisite: prefigurazioni non promettenti che portano a cercare di difendere il più possibile quello che si è e quello che si ha.

La gente chiede tutele per sé.
Ed è a questo che si ricollegano le rivendicazioni di tutela, di protezione dal disordine e da coloro che lo rappresentano, ma anche le affermazioni di priorità delle proprie esigenze rispetto a quelle di chiunque altro e le pressanti richieste di essere sollevati da situazioni familiari gravate da faticosi e dolorosi carichi assistenziali. Perché i bimbi di famiglie immigrate vengono accolti nei nidi o nelle scuole materne, scavalcando nelle graduatorie i figli di chi abita da tanti anni nella città? Perché devo sollecitare tanto l’assistente sociale per avere l’assistenza domiciliare per mio padre? E dove sono i servizi che dovrebbero occuparsi della vicina del piano di sopra che urla giorno e notte col figlio handicappato e continua a buttar giù la spazzatura dal balcone? Che cosa aspettano ad intervenire in quella classe dove c’è una concentrazione di bambini immigrati ritardati? Le maestre li chiamano, ma loro non si muovono...

La rassicurazione è cercata nelle forze dell’ordine.
L’angoscia per tutto ciò a cui si è esposti a fronte di rischi non prevedibili si riversa in una pluralità di attese/pretese, in domande che devono ottenere risposte innanzi tutto rassicuranti al di là di quello che specificamente contengono, in paure che devono trovare degli oggetti a cui riferirsi per poter almeno essere nominate. E le risposte sono rassicuranti se provengono da autorità forti e se sono immediate.
Per questo si invoca tanto frequentemente l’intervento di polizia e carabinieri, trasformando dei problemi sociali in problemi di ordine pubblico che richiedono un controllo capillare del territorio e vanno trattati con la repressione dura, persino violenta.
Eppure si sa bene che la violenza genera violenza e che affidarsi o abbandonarsi all’uso di poteri forti porta effetti disastrosi. Sono veramente i sindaci impegnati con misure variamente fantasiose a fare piazza pulita di immigrati e prostitute, quelli maggiormente in grado di garantire convivenza civile e relativamente serena?

I servizi non potrebbero intercettare questo disagio diffuso?
I servizi non potrebbero effettivamente intercettare questo disagio diffuso? Non potrebbero offrire o contribuire a offrire sostegni e protezioni? Sono presenti in modo capillare sul territorio e lo sono da anni, avendo quindi l’opportunità di conoscere e farsi conoscere. Forse i servizi sono più orientati a svolgere degli interventi individuali che a realizzare lavoro sociale nel sociale. Intervengono infatti per lo più nei confronti di coloro che esplicitamente lo chiedono e lo chiedono contattandoli negli uffici e negli orari previsti. Ma quelli che dormono per la strada o nelle stazioni, i bambini che chiedono l’elemosina, le persone che si ritrovano senza appoggi e si abituano a vivere di piccoli furti, i gruppi di ragazzi che si divertono a distruggere giardinetti e panchine... costoro non accedono ai servizi.
Le difficoltà che questi comportamenti esprimono non costituiscono manifestazioni di disagio?
Non è forse opportuno e consigliabile che i servizi li prendano seriamente in considerazione?
È improponibile che come ci si mobilita per un piano educativo individualizzato nei confronti di un adolescente, ci si interroghi sulle minacce che una banda di ragazzini, nota per vari atti di vandalismo, continua a esercitare nei confronti di alcuni coetanei sotto gli occhi di insegnanti, genitori, bidelli, negozianti che non vedono e non sentono nulla? La domanda di sicurezza, che è segnale rilevante di un disagio sociale diffuso, può non investire i servizi? Non li tocca, non li interroga, non li sollecita a capirne meglio i fattori scatenanti e le derive illusorie e regressive?

A quale sicurezza aspiriamo?
Chi può avere competenze per affrontare la questione della sicurezza? Nei discorsi che circolano ovunque si tende a fare una netta separazione tra sicurezza «pubblica» e sicurezza «sociale»: la prima è compito delle forze dell’ordine, la seconda non si sa più se possa esistere e possa essere tutelata dalle nuove fisionomie che va prendendo il welfare. In ogni caso mi pare che gli assessorati degli enti locali, che fino a quindici anni avevano nella loro denominazione il riferimento alla «sicurezza sociale», oggi abbiano altre titolazioni.

Dipende dal progetto di società che vogliamo.
Vorrei sottolineare che non è così chiaro ed evidente a quale sicurezza si aspiri e forse si sorvola troppo rapidamente sulle connessioni che esistono tra qualità della sicurezza e qualità della vita sociale. Le scelte delle strategie per la sicurezza sono collegate al progetto di società che ci si propone di realizzare per l’oggi e per il domani.

Vogliamo una società stile Sudamerica?
Si tende a costruire una società in cui il benessere è fatto coincidere con l’ordine garantito dall’autoreferenzialità etnocentrica e dalla chiusura entro aree residenziali ben protette, attraverso l’espulsione del diverso, la repressione esercitata da corpi di guardie armate, la netta separazione tra gruppi sociali?
Ci proponiamo di andare verso un modello di società come quello che si è instaurato in certe aree del Sudamerica o del Libano (cito paesi che ho visitato) in cui la gente per bene vive e lavora in quartieri e in edifici guardati a vista, protetti da sentinelle e da filo spinato?
Se è questa la méta da raggiungere per noi e per i nostri figli è logico moltiplicare finanziamenti e organici di polizia e carabinieri, istituire nuove figure di vigilanti, insistere nelle punizioni esemplari, inventare ulteriori misure repressive.
O vogliamo una società in cui vivere in pace? Ma la sicurezza che si pretende con tanta insistenza non viene forse riferita nelle rappresentazioni di molti a una società in cui si può vivere in pace, a una vita sociale in cui esistono legami di reciprocità, in cui convivono gruppi disomogenei, in cui gli scambi fiduciosi prevalgono sulle competizioni per avere il dominio e sulle lotte per eliminare l’avversario?
Marcel Mauss lo metteva in evidenza con grande lucidità più o meno un secolo fa. Se è verso questo tipo di società che ci si propone di andare, la strada da imboccare è quella del coinvolgimento e del convincimento, della ricerca di ciò che unifica e accomuna, della negoziazione con chi è portatore di orientamenti e interessi diversi e non può essere totalmente sottomesso o inglobato, come ricordano Bruno Latour, Isabelle Stengers e tanti altri.

Non banalizzare la questione sicurezza.
Credo che la questione della sicurezza non vada ba nalizzata, né stigmatizzata e neppure assecondata:
va presa in considerazione senza procedere per parole e azioni ad effetto, rivolte più ad acquisire battimani che ad affrontare i problemi.
Prendiamo ad esempio la formula che viene costantemente ripetuta: «tolleranza zero».
Che cosa significa? In una accezione più esplicita e più drastica esprime un contenuto pesantemente repressivo che richiama il pugno di ferro, l’intransigenza più dura, un atteggiamento «razzista», ma per altro verso esprime l’esigenza di usare fermezza verso comportamenti illegali e trasgressioni di regole, che sono necessarie per mantenere la convivenza. Forse se ci si riferisce al primo significato si intende implicitamente delegare gli auspicati interventi drastici e definitivi a qualche figura forte e goderne gli effetti. La pratica della fermezza invece non può essere affidata soltanto a qualcuno ma richiede un impegno più ampio, più trasversale e diffuso che chiama in causa l’operato di tanti ruoli, dai genitori, agli insegnanti, ai responsabili e operatori di servizi di ogni genere.
Le riflessioni che sto cercando di esporre nell’intento di essere sintetiche rischiano di essere schematiche. Non immagino certo che si possano progettare dei modelli di società da realizzare. Le dinamiche sociali si sottraggono per larga parte a ogni indirizzo voluto, ma non si può esimersi dall’interagire con esse e lo si fa alla luce di alcuni orientamenti e anche di alcune opzioni che appaiono preferibili rispetto
ad altre. È in questo senso, che mi sembra che i servizi abbiano un ruolo importante perché possono contribuire a rendere più esplicite e leggibili le scelte che si fanno rispetto al disagio sociale.

Riaprire il dialogo con la società
I servizi lavorano oggi in un quadro molto diverso da quello in cui sono stati istituiti. Come possono ricollocarsi nel nuovo quadro?

Una funzione che è da reinterpretare.
I servizi oggi lavorano in un clima culturale in cui le speranze allora intense e largamente condivise di un futuro migliore e di una società più equa si sono tramutate in inquietudini e preoccupazioni per incognite e minacce incombenti, in vissuti angoscianti di possibile perdita e di ripiego nell’accettazione conformistica di squilibri e disparità che si ampliano.
È comprensibile e ragionevole che si ricerchino orientamenti e modalità diverse di trattare il disagio. Non è facile perché si tratta di ideare, inventare, intraprendere e sperimentare in mezzo a contraddizioni e confusioni, con risorse limitate e soprattutto con il dispiacere di lasciare o trasformare dei contenuti di lavoro in cui si è creduto e in cui ci si è identificati, che sono stati affinati nel tempo e che hanno anche avuto tanti riscontri positivi. Forse si può pensare che le nuove forme di disagio con cui si ha a che fare siano una opportunità per assumere una nuova e diversa impostazione delle attività, più visibile e riconoscibile, più consistente e congruente con attese che non riescono a essere intercettate da altri. Gli operatori dei servizi hanno conoscenze e competenze importanti da valorizzare e mettere in circolo e potranno farlo quanto più saranno in grado di ricollocarsi e reinterpretare la propria funzione in un contesto profondamente mutato.

Alcuni orientamenti per l’azione.
Provo a indicare alcuni elementi da tener presenti per aprire – oggi – un dialogo più diretto tra servizi e società. Se si assume che nella nostra società esiste un disagio dilagante, che ha complesse e oscure componenti, ma viene sommariamente denunciato come stato di insicurezza
a cui va posto rimedio con l’adozione di misure punitive e coercitive, immaginate come potenti e decisive, per i servizi si tratta di confrontarsi più apertamente e direttamente con questa situazione e di attrezzarsi mentalmente e operativamente per individuare e sostenere delle azioni più pertinenti e ragionevolmente fondate.
Riscoprire un ascolto rivolto a costruire fiducia. Un primo aspetto da riscoprire e po- tenziare è costituito dall’ascolto che i servizi attivano nei confronti delle condizioni di disagio per cui vengono richiesti degli interventi.
Da sempre gli operatori sanno che non è positivo classificare subito le richieste di chi accede ai servizi e intervenire in corto circuito, entro uno schema per cui posta una domanda a quella si reagisce in modo speculare, accettandola o respingendola. Non si eroga un sussidio appena viene chiesto e neppure si dispone l’inserimento di una persona disabile in una semiresidenza o in un centro diurno o si accoglie la denuncia di un genitore che il coniuge accusa di maltrattamenti. Oggi arrivano ai servizi persone che provengono da diversi ambienti sociali e culturali e rispetto ai tradizionali utenti portano richieste più articolate, più specifiche o più ampie, e in parte inedite, che è importante accogliere e cogliere con un ascolto più approfondito, attento a collocarle nel clima generale. Spesso accanto o dietro richieste di supporto «materiale », sono presenti attese di trovare qualcuno a cui raccontare l’angoscia per aver scoperto le bugie della figlia sedicenne e per non sapere come comportarsi, lo smarrimento per non aver più un lavoro e un reddito fisso e sentirsi indegno come marito e come genitore, la disperazione repressa per un padre demente, diventato un peso insopportabile, l’isolamento in cui ci si sente relegati, perché si è diversi.
Rispetto a vicende di questo tipo le persone cercano rassicurazioni che non sono date da interventi risolutivi – che non esistono – ma dal poter confidarsi e confidare, perché si trova un aiuto a comprendere le difficoltà, a riconsiderare le situazioni per vedere qualche risvolto positivo, a immaginare piccole iniziative da prendere, a sentirsi un po’ meno soli. In un certo senso per i servizi sembrerebbe cruciale mettere in campo un ascolto non tanto finalizzato al decidere erogazioni di prestazioni, quanto rivolto al costruire fiducia e allo stabilire interazioni e relazioni significative, all’accrescere relazionalità.

Saper ascoltare in campo aperto.
L’entrare in contatto con il disagio vissuto ed espresso in situazioni singole non può esimere i servizi dall’ascolto di quelle forme di disagio che si manifestano con indizi e segnali deboli nei comportamenti collettivi, come ho ricordato più sopra. Qui l’ascolto è più complicato perché non può avvenire in un ambito protetto dalla sede istituzionale e dalle prerogative professionali: si realizza per così dire «in campo aperto» e richiede di lasciarsi «impressionare », da ciò che tendenzialmente si è portati a non vedere, persino da ciò che tutti pensano sia «normale».
Talvolta agli operatori può sembrare che questo sia poco professionale ma in realtà fa riferimento a rilevazioni di diversi dati in ambiti e momenti diversi e a elaborazioni sostenute da qualche ipotesi sui rapporti tra gruppi sociali, tra generazioni, tra cittadini e istituzioni, tra fenomeni generali e vicende circoscritte a un territorio. Chiama in causa competenze che connettano saperi specialistici con conoscenze offerte da altre discipline e investimenti per apprendere dall’esperienza.

Attrezzarsi a gestire le emergenze.
Un’area critica nei rapporti tra servizi e società riguarda le modalità con cui i servizi affrontano quelle situazioni-limite, non così infrequenti, che potremmo definire «emergenze sociali».
Sono situazioni caratterizzate da comportamenti anomali e devianti, particolarmente allarmanti per il loro significato dirompente e disconfermante dei rapporti «normali», normalmente messi in atto dai singoli e praticati all’interno delle famiglie.
Penso ad esempio a un marito che accoltella per gelosia la moglie sotto gli occhi di due bimbi piccoli, a una madre che tenta di buttar giù il figlioletto dal balcone, a degli immigrati che dormono sotto una tettoia e vengono picchiati a sangue, o più semplicemente a una ragazzina che scappa di casa e non si fa trovare per qualche giorno o anche a due gemellino che restano soli perché il padre è in carcere e la madre viene ricoverata con urgenza per una grave emorragia, o a un ragazzo adottato che aggredisce violentemente la madre, ecc.
In tutti questi casi è vero che c’è da rivolgersi a polizia e carabinieri, ma è anche vero che accanto a reati che vanno accertati e puniti, esistono dei fallimenti nei rapporti familiari, delle esigenze di accoglienza e accudimento, che sono più propriamente sociali, che vanno trattate con competenze sociali e psico-sociali, socio-educative e socio-assistenziali.
Non sempre e non tutti i servizi sono attrezzati per far fronte alle emergenze, mentre credo che oggi questa sia una questione prioritaria. È in questi frangenti che si dà un’immagine dei servizi e del loro funzionamento e
che si misura nel contesto locale l’efficacia del loro operato e quindi la loro utilità. È in questi momenti che si sperimenta se qualcuno entra in gioco e prende in mano le cose, se c’è qualcuno che ci pensa e interviene tempestivamente, tranquillizzando e rassicurando.
Probabilmente per gestire le emergenze si tratta di sviluppare un lavoro su due fronti. Da un lato individuare in tempi brevissimi le coordinate essenziali che caratterizzano la situazione, identificare i problemi prioritari e la loro gravità sotto diversi punti di vista, dall’altro predisporre collaborazioni e appoggi di altri servizi pubblici e privati, di famiglie, di volontari (la famosa rete!) che possano essere attivati rapidamente per ricostituire un minimo di tessuto relazionale a fronte delle lacerazioni e dei traumi che si sono verificati.
Ambedue sono attività non nuove per i servizi che andrebbero potenziate e perfezionate, anche con investimenti formativi e organizzativi specifici.

Sviluppare integrazioni tra le risorse territoriali.
Il lavoro sui «casi», quello più tradizionale e a contenuto assistenziale che attualmente svolgono soprattutto i servizi sociali, impegna molte risorse e molto tempo degli operatori. Spesso grava a tal punto da costituire la parte preponderante dell’attività, con un andamento che rischia di routinizzarsi entro copioni standard e anche di burocratizzarsi.
Le più recenti disposizioni normative, e le stesse direttive espresse da vari enti locali orientano a sviluppare maggiore progettualità e soprattutto integrazione tra varie risorse territoriali ma le evoluzioni verso questi indirizzi sono lente. Spesso si scontrano con spinte in senso contrario. Si sono avviati degli spostamenti, ma il percorso è faticoso e incontra molti ostacoli di varia natura, sia all’interno dei servizi stessi che all’esterno.
Stare nella vita quotidiana
Le emergenze sociali, l’ascolto in campo aperto, la stessa promozione di progettualità e integrazione degli interventi offrono ai servizi delle notevoli opportunità di contatto e di comunicazione non solo con singoli e gruppi che vivono sofferenze e devianze, difficoltà di adattamento ed eventi traumatici, ma anche con coloro che abitano nello stesso territorio e giudicano comportamenti e atteggiamenti, per lo più semplificando i problemi e immaginando che possano essere facilmente eliminati con decisioni appropriate, in quanto autoritarie.
Sono queste occasioni assai interessanti e propizie per incontrare la gente e per fare opera di acculturazione, per proporre e diffondere delle visioni un po’ meno unilaterali e un po’ più realistiche, in cui non domini soltanto l’attribuzione di colpe e la denuncia di carenze, in cui si dia spazio a comparazioni e ad analisi che mettano in luce complessità e ambivalenze.
Si pongono questioni che stanno a cuore, che riguardano la vita quotidiana e hanno molto a che fare con le richieste di sicurezza. Se si riescono a comprendere, a districare un po’ meglio si può anche meglio fare la propria parte per affrontarle, attraverso co-operazioni nel conoscere e nell’agire che costruiscono socialità e comunanze, ovvero i più efficaci antidoti alle paure e alle violenze, e all’insicurezza che esse generano.

Franca Olivetti Manoukian - psicosociologa - Studio APS - via San Vittore 38/a - 20123 Milano - tel.02 4694610 - e-mail: olivettimanoukian@studioaps.it