L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

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sabato 21 novembre 2009

Mozione dell'On. Bernardini sulla Situazione Carceri Italiane

Atto Camera- Mozione 1-00288
presentata da RITA BERNARDINI
giovedì 19 novembre 2009, seduta n.250

La Camera,
premesso che: il numero elevato ed in costante crescita della popolazione detenuta, che ad oggi si avvicina alle 66.000 presenze - a fronte di una capienza regolamentare di 43.074 posti e «tollerabile» di 64.111 -, produce un sovraffollamento insostenibile delle nostre strutture penitenziarie. Si tratta di una cifra record che non è stata mai registrata dai tempi dell'amnistia di Togliatti del 1946; basti pensare al fatto che il tasso di crescita dei detenuti è di poco inferiore alle 800 unità al mese, sicché si prevede che a fine anno la popolazione carceraria potrebbe sfiorare le 67.000 presenze (100,000 nel giugno del 2012). In alcune regioni il numero delle persone recluse è addirittura il doppio di quello consentito: in Emilia Romagna il tasso di affollamento è del 193 per cento in Lombardia, Sicilia, Veneto e Friuli è intorno al 160 per cento;

come riscontrato anche nel corso dell'iniziativa «Ferragosto in carcere 2009» promossa dai Radicali Italiani, alla quale hanno partecipato parlamentari nazionali ed europei, consiglieri regionali ed alcuni garanti dei diritti dei detenuti, i nostri istituti di pena stanno affrontando una fase di profonda regressione che li rende non più aderenti al dettato costituzionale e all'ordinamento penitenziario;

ciò che accade nelle nostre carceri è soltanto l'epifenomeno della ben più ampia e grave situazione in cui versa il nostro apparato giudiziario posto che, attualmente, lo stato della giustizia ha raggiunto livelli di inefficienza assolutamente intollerabili, sconosciuti in altri Paesi democratici, per i quali l'Italia, da anni ed in modo permanente, sconta quella che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare come una situazione di illegalità tale da aver generato numerosissime condanne da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Per questa situazione il nostro Paese è stato richiamato all'ordine a più riprese dal Consiglio d'Europa, che proprio di recente ha riconfermato nei contenuti e nei richiami un rapporto presentato dal Commissario Gil-Robies già nel 2005, il quale sottolineava proprio la necessità di un ripristino della legalità nel sistema giudiziario italiano. Nella relazione presentata alla Camera dei deputati il 27 gennaio 2009, il Ministro della giustizia ha, tra l'altro, detto: «Quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all'attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell'arretrato o meglio ancora del debito giudiziario che lo Stato ha nei confronti dei cittadini: 5 milioni 425mila i procedimenti civili, 3 milioni 262mila quelli penali» (che arrivano a 5 milioni e mezzo con i procedimenti pendenti nei confronti di ignoti). «Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema». Dunque secondo i dati ufficiali, in Italia l'arretrato pendente sfiora la cifra iperbolica di 5 milioni e mezzo di procedimenti penali, che sarebbero molti si più se solo negli ultimi dieci anni non si fossero contate ben 2 milioni di prescrizioni (nel nostro Paese secondo i dati ufficiali forniti dal Ministero della giustizia si contano circa 200 mila procedimenti penali prescritti ogni anno). Occorre essere consapevoli che in un contesto del genere i concetti di «pena certa» e di esecuzione «reale» della stessa rischiano di risultare fortemente limitativi se non del tutto fuorvianti. In questo quadro e per queste ragioni, contro quella che, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, è un'amnistia anonima, banale, di classe ed illegale chiamata prescrizione, solo un ampio e definitivo provvedimento di amnistia e di indulto potrebbe consentire, da un lato, una sensibile riduzione della popolazione carceraria entro i limiti della capienza effettiva e regolamentare e, dall'altro, l'eliminazione di più della metà degli attuali procedimenti penali pendenti, ciò che darebbe il via a quelle riforme strutturali del sistema giudiziario e penitenziario senza le quali appaiono seriamente a rischio gli stessi diritti civili e della persona previsti dalla nostra Costituzione;

da un recente studio del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria risulta che, degli oltre 65.000 detenuti presenti nelle carceri italiane, circa la metà (il 50 per cento è costituito da persone in attesa di giudizio, e tra questi circa un 30 per cento verrà assolto all'esito del processo; un dato abnorme, un'anomalia tipicamente italiana che non trova riscontro negli altri Pesi europei; in pratica il ricorso sempre più frequente alla misura cautelare in carcere e la lunga durata dei processi costringe centinaia di migliaia di presunti innocenti a scontare lunghe pene in condizioni spesso poco disgnitose;

sulla base delle statistiche e di alcuni studi dell'amministrazione penitenziaria, la metà degli imputati che lascia il carcere vi è rimasto non più di dieci giorni, mentre circa il 35 per cento esce dopo appena 48 ore; questo pesante turnover non fa altro che alimentare l'intasamento, il sovraffollamento ed il blocco dell'intero sistema penitenziario, dissipando energie nonché risorse umane ed economiche;

quasi il 40 per cento dei 65.000 carcerati si trova recluso in cella per aver violato le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (testo unico sulle droghe); mentre il 27 per cento della popolazione detenuta è tossicodipendente. Secondo il sesto rapporto sulle carceri redatto dalla associazione Antigone, il numero di tossicodipendenti che annualmente transitano dalle carceri italiane (26.646 nel 2006, 24.371 nel 2007, solo per fare un esempio) è decisamente superiore a quello di coloro che transitano dalle comunità terapeutiche (17.042 nel 2006; 16.433 nel 2007), il che dimostra come l'approccio terapeutico per questo tipo di detenuti sia Stato concretamente dismesso. Quanto poi al sistema delle misure alternative per la presa in carico dei tossicodipendenti previsto dal citato testo unico sulle droghe (così come modificato dal decreto-legge n. 272 del 2005, va purtroppo segnalato come l'accesso alle stesse sia fermo a un quinto di quel che era prima dell'indulto. Al sistema penitenziario viene dunque affidata la maggiore responsabilità nel contrasto al fenomeno delle tossicodipendenze, quando è ormai noto che i tassi di recidiva per chi esce dal carcere sono estremamente elevati, assai più di quelli di chi sconta la propria pena in misura alternativa, e che il gruppo con il maggior tasso di recidiva è proprio quello dei tossicodipendenti;

al 10 novembre 2009, i detenuti stranieri reclusi negli istituti di pena risultavano essere 24.190 (pari a circa il 37 per cento del totale); gli stranieri ristretti nei nostri istituti di pena sono, nella maggioranza dei casi, esclusi dall'accesso ai benefici penitenziari per la carenza di supporti esterni (famiglia, lavoro e altro) ed il loro reinserimento sociale appare sempre più problematico a causa della condizioni di irregolarità che li riguarda;

tra quanti in Italia stanno scontando una condanna definitiva, il 32,4 per cento ha un residuo di pena inferiore ad un anno, addirittura il 64,9 per cento inferiore a tre anni, soglia che rappresenta il limite di pena per l'accesso alle misure alternative della semilibertà e dell'affidamento in prova, il che dimostra come in Italia il sistema delle misure alternative si sia sostanzialmente inceppato; ciò accade nonostante le statistiche abbiano dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che il detenuto che sconta la pena con una misura alternativa ha un tasso di recidiva molto basso (circa il 28 per cento), mentre chi sconta la pena in carcere torna a delinquere con una percentuale del 68 per cento; le misure alternative quindi abbattono i costi della detenzione, riducono la possibilità che la persona reclusa commetta nuovi reati, aumentando la sicurezza sociale, e sconfiggono il deleterio «ozio del detenuto», avviandolo a lavori socialmente utili con diretto vantaggio per l'intera comunità;

nella realtà del nostro ordinamento giuridico, la misura di sicurezza detentiva è divenuta una variante solo nominalistica della pena, riducendosi a strumento per aggirare i principi di garanzia propri delle sanzioni. La questione è diventata ancora più grave laddove si consideri che la misura di sicurezza - che, è d'uopo ricordare, non è correlata alla colpevolezza ma alla pericolosità sociale non solo si è trasformata nella sua pratica attuazione in una pena mascherata, ma è addirittura una pena a tempo indeterminato. Il rilievo va riferito, in particolar modo, alla misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro, in quanto misura riservata agli imputabili, a differenza della casa di cura e di custodia, dell'ospedale psichiatrico giudiziario e del riformatorio giudiziario, applicabili ai non imputabili. A tal proposito, si segnalano i principali progetti di riforma del codice penale (progetto Commissione Pagliaro; progetto Commissione Grosso; progetto Commissione Nordio e in ultimo il progetto della Commissione Pisapia), tutti ugualmente concordi nel proporre l'abolizione del sistema del doppio binario, limitando l'applicazione delle misure di sicurezza ai soli soggetti non imputabili;

solo un detenuto su quattro ha la possibilità di svolgere un lavoro, spesso peraltro a stipendio dimezzato perché condiviso con un altro detenuto che altrimenti non avrebbe questa opportunità; mentre la percentuale delle persone recluse impegnate in corsi professionali è davvero irrisoria e non arriva al 10 per cento. Circa l'85 per cento dei lavoranti è alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e svolge lavori di pulizia o di preparazione e distribuzione del vitto; il restante 15 per cento è costituito per la maggior parte da semiliberi che svolgono attività lavorativa in proprio o alle dipendenze di datori di lavoro esterni. Nella stragrande maggioranza dei casi, l'impossibilità di avviare a programmi di lavoro i detenuti è dovuta all'insufficienza degli educatori presenti in carcere, cioè di coloro che sono chiamati a stilare le relazioni a sostegno della concessione del lavoro esterno;

attualmente nelle carceri poco meno di 650 persone sono sottoposte al cosiddetto «carcere duro», ossia a quel regime detentivo speciale di cui all'articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario che è stato sensibilmente inasprito con l'approvazione della recente legge n. 94 del 2009, la quale ha definitivamente reso la detenzione speciale una modalità ordinaria e stabile di esecuzione della pena, ciò, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, in evidente e aperto contrasto non solo con i nostri principi costituzionali che vietano qualsiasi trattamento contrario al senso di umanità e prevedono la funzione rieducativa della pena, ma anche con l'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che vieta ogni forma di pena inumana e degradante;

a causa del sovraffollamento, un numero sempre maggiore di detenuti è costretto a scontare la condanna all'interno di istituti di pena situati a notevole distanza dalla propria regione di residenza, il che - oltre a contrastare con il principio della territorialità della pena previsto dall'ordinamento penitenziario - non consente di esercitare al meglio tutte quelle attività di sostegno e trattamento del detenuto che richiedono relazioni stabili e assidue della persona reclusa con i propri familiari e con i servizi territoriali della regione di residenza; senza considerare gli ingenti ed elevati costi, sia in termini economici che umani, che le continue e lunghe traduzioni dei detenuti, dal luogo di esecuzione della detenzione al luogo di celebrazione del processo, comportano per i bilanci dell'amministrazione penitenziaria;

in una recente occasione pubblica, il Ministro della giustizia ha dichiarato che la detenzione carceraria consiste nella privazione della libertà, ma non deve comportare anche la privazione della dignità delle persone. Dall'affermazione di questo elementare, ma fondamentale principio, che deve ispirare lo Stato di diritto in rapporto alle persone detenute, consegue la necessità di affrontare il problema del diritto all'affettività in carcere (affettività intesa in senso ampio, dalla sessualità, all'amicizia, al rapporto sessuale); un diritto all'affettività che sia, in primo luogo, diritto ad avere incontri, in condizioni di intimità, con le persone con le quali si intrattiene un rapporto di affetto;

da un recente rapporto sullo stato della sanità all'interno degli istituti di pena predisposto dalla Commissione giustizia del Senato risulta che appena il 20 per cento dei detenuti risulta sano, mentre il 38 per cento di essi si trova in condizione di salute mediocri, il 37 per cento in condizioni scadenti ed il 4 per cento in condizioni gravi e con alto indice di co-morbosità, vale a dire più criticità ed handicap in uno stesso paziente. Solo per limitarsi alle cinque patologie maggiormente diffuse, ben il 27 per cento dei detenuti è tossicodipendente (2.159 di loro sono in terapia metadonica), il 15 per cento ha problemi di masticazione, altrettanti soffrono di depressione e di altri disturbi psichiatrici, il 13 per cento soffre di malattie osteo-articolari ed il 10 per cento di malattie al fegato; oltre al fatto che la stessa tossicodipendenza è spesso associata ad AIDS (circa il 2 per cento dei detenuti è sieropositivo), epatite C e disturbi mentali;

a fronte di una morbosità così elevata, la medicina penitenziaria continua a scontare una evidente insufficienza di risorse, di strumenti e di mezzi, il che svilisce i servizi e la professionalità degli operatori sanitari, oltre ovviamente a pregiudicare le attività di trattamento, cura e assistenza degli stessi detenuti. L'attuale situazione di sofferenza in cui versa la medicina penitenziaria è anche dovuta al fatto che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 aprile 2008, recante «modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria», non risulta essere stato ancora attuato nella parte in cui stabilisce il trasferimento alle regioni delle risorse finanziarie relative all'ultimo trimestre dell'anno 2008 (per una somma pari ad 84 milioni di euro) e a tutto il 2009, il che non consente di attuare una seria e radicale riorganizzazione del servizio sanitario all'interno degli istituti di pena;

nonostante il passaggio delle competenze al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria, non risultano ancora essere stati definiti modelli operativi adeguati all'assistenza in carcere, ciò a causa del fatto che le stesse regioni sono ben lungi dall'essere attrezzate in modo da poter fornire i servizi medici nei penitenziari, così come peraltro ancora ambigua risulta la gestione dei relativi contratti di lavoro e ruoli professionali;

negli istituti di pena italiani sono rinchiusi 71 bambini sotto i tre anni che vivono in carcere con le madri detenute, il che continua ad accadere nonostante risulti ampiamente dimostrato quanto lo stato di reclusione prolungato possa esporre questi soggetti a seri rischi per la loro salute. A questo proposito, nella XVI legislatura è stato depositato un progetto di legge alla cui elaborazione ha contribuito l'Associazione Il Detenuto Ignoto, che attende ancora di essere calendarizzato e discusso;

le piante organiche della polizia penitenziaria, stabilite con decreto ministeriale dell'8 febbraio 2001, prevedono l'impiego di 41.268 unità negli istituti di pena per adulti; al 20 settembre 2009 nelle carceri italiane risultavano in forza 35.343 persone, con uno scoperto di 5.925 unità (circa il 14 per cento); per il personale amministrativo è previsto un organico di 9.486 unità, mentre i posti coperti risultano essere 6.300, con uno scarto di 3.186 persone. Complessivamente, quindi, nell'amministrazione penitenziaria il personale mancante è pari a 8.882 unità;

anche il numero degli educatori è insufficiente, posto che in pianta organica ne sono previsti 1.088, mentre sono appena 686 quelli effettivamente in servizio; così come risulta deficitaria l'assistenza psicologica, a cominciare da quella legata alle attività di osservazione e trattamento dei detenuti,
visto e considerato che a fronte di quasi 66.000 detenuti gli psicologi che prestano effettivamente servizio sono appena 352, il che comporta, come naturale conseguenza, che gli istituti di pena siano diventati una istituzione a carattere prevalentemente, se non esclusivamente, afflittivo. A questo proposito il Ministero della giustizia, proprio al fine di coprire almeno parzialmente la totale carenza di organico di tali figure professionali, aveva avviato, fin dal 2004, un concorso per l'assunzione di 39 psicologi, arrivando anche ad approvare la relativa graduatoria nel 2006; nonostante ciò, da quel momento, l'Amministrazione penitenziaria, pur in presenza di tutte le risorse economiche, non ha proceduto ad alcuna assunzione dei vincitori del concorso, di fatto preferendo affidarsi, a quanto consta ai firmatari del presente atto di indirizzo, ad un sistema di frammentare collaborazioni precarie e insufficienti;

il sovraffollamento, la mancanza di spazi, l'inadeguatezza delle strutture carcerarie, la carenza degli organici e del personale civile, lo stato di sofferenza in cui versa la sanità all'interno delle carceri, tutto ciò provoca una situazione contraria ai principi costituzionali ed alle norme del regolamento penitenziario impedendo il trattamento rieducativo e minando l'equilibrio psico-fisico dei detenuti, con incremento, nel 2009, dei suicidi e di gravi malattie; ed invero il sovraffollamento ha effetti dirompenti, tra l'altro, proprio sulle condizioni di salute dei reclusi, ai quali non vengono garantite le più elementari norme igieniche e sanitarie, atteso che gli stessi sono costretti a vivere in uno spazio che non corrisponde a quello minimo vitale, con una riduzione della mobilità che è causa di patologie specifiche;

l'alto numero dei suicidi in carcere registrato nel 2009 dipende anche dalle condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena e dalle aspettative frustrate di migliori condizioni di vita al loro interno, soprattutto per quanto riguarda le persone sottoposte a regimi carcerari più restrittivi rispetto a quello ordinario - ad esempio quello di cui all'articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975, sull'ordinamento penitenziario - i quali, non a caso, registrano una percentuale di suicidi più elevata rispetto a chi sconta la pena senza essere sottoposto a particolari restrizioni;

senza l'indulto approvato tre anni fa, le nostre carceri oggi sarebbero al collasso ed il sovraffollamento assumerebbe dimensioni tali da creare addirittura problemi di ordine pubblico; in questa situazione di emergenza la funzione rieducativa e riabilitativa della pena è venuta meno; il rapporto numerico tra detenuti ed educatori e assistenti sociali ha frustrato ogni possibile serio tentativo di intraprendere e seguire, per la maggior parte dei reclusi, percorsi individualizzati così come previsto dall'ordinamento penitenziario;

nel 2006 il dottor Sebastiano Ardita - responsabile della Direzione generale dei detenuti e trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - ha dichiarato: «siamo consapevoli di versare in una situazione di grave, perdurante, quanto involontaria ed inevitabile divergenza dalle regole, per il fatto di non essere nella materiale possibilità di garantire, a causa del sovraffollamento, quanto previsto dalle normative vigenti e dal recente regolamento penitenziario; la salute dei detenuti, ad esempio, non è solo un problema politico e neanche solo una questione tecnica o medico legale. È molto altro ancora. È il luogo privilegiato per valutare le politiche sociali di uno Stato. È una questione di politica criminale. È il banco di prova della pena costituzionalmente intesa» (fonte ANSA 1° marzo 2006); lo stesso Ministro della giustizia, onorevole Angelino Alfano, ha definito la situazione attuale del nostro sistema penitenziario sostanzialmente al di fuori della legalità costituzionale;

l'enorme tasso di sovraffollamento comporta automaticamente porsi fuori dalle regole minime, costituzionalmente previste, della funzione rieducativa della pena per scadere in quei trattamenti contrari al senso di umanità sanzionati non solo dal nostro ordinamento giuridico, ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, se è vero, come è vero, che recentemente lo Stato italiano è stato condannato a mille euro di risarcimento per aver costretto un detenuto a vivere due mesi e mezzo all'interno di una cella in uno spazio di appena 2,7 metri quadrati (Sulejmanovic c. Italia - ricorso n. 22635/03); nella circostanza la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che la mancanza di spazio personale per i detenuti (meno di 3 metri quadrati) giustifica, di per sé, la constatazione della violazione dell'articolo 3 della Convenzione (divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti);

i fondi della Cassa delle ammende, con i quali lo Stato dovrebbe investire in progetti educativi e/o di reinserimento sociale dei detenuti, non vengono utilizzati o vengono destinati ad altre finalità, il che continua ad accadere nonostante il sostegno economico-finanziario delle iniziative volte al reinserimento sociale e alla riabilitazione dei detenuti, insieme all'applicazione delle misure alternative alla detenzione, costituisca lo strumento più significativo di contrasto alla recidiva e quindi di tutela e sicurezza dei cittadini. Ed invero la bassa percentuale di detenuti che lavorano, unita alla cronica esiguità delle risorse finanziarie destinate al loro reinserimento sociale, comporta un alto tasso di recidiva, come dimostrato dalle più recenti evidenze statistiche sopra richiamate;

alcuni dei più rilevanti interventi legislativi adottati in questi ultimi anni - a partire dalla legge n. 251 del 2005, (cosiddetta legge «ex Cirielli») - hanno introdotto forti limitazioni all'applicazione dei vari benefici «extramurari» ai recidivi, i quali costituiscono la maggior parte degli attuali detenuti: si pensi all'aumento della popolazione carceraria a seguito delle introdotte limitazioni per i recidivi specifici o infraquinqennali reiterati per quanto riguarda i permessi premio, la detenzione domiciliare o l'affidamento in prova al servizio sociale, posto che gli stessi non possono più usufruire della sospensione dell'esecuzione della pena ex articolo n. 656, comma 5, del codice di procedura penale, ciò a seguito dell'inserimento di una nuova lettera e) al comma 9 del predetto articolo;

occorre dunque riavviare il sistema delle misure alternative, ripensando quel meccanismo di preclusioni automatiche che - soprattutto con riferimento ai condannati a pene brevi - ha finito per imprimere il colpo «mortale» alla capacità di assorbimento del sistema penitenziario; su tale versante è anche necessario generalizzare l'applicazione della detenzione domiciliare quale strumento centrale nell'esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità anche attraverso l'attivazione di serie ed efficaci misure di controllo a distanza dei detenuti;

è pertanto necessaria ed urgente un'azione riformatrice che - partendo da una comune riflessione sulle cause che hanno generato quella che per i firmatari del presente atto di indirizzo è l'attuale situazione di illegalità in cui versa il nostro sistema penitenziario - favorisca la reale attuazione del principio costituzionale di cui all'articolo 27, comma 3, della Costituzione; dette riforme devono procedere nel senso di garantire al detenuto il rispetto delle norme sul «trattamento» all'interno delle carceri e sull'accesso alle misure alternative, risolvendo in maniera radicale non solo il problema del sovraffollamento delle carceri ma anche tutti i problemi del mondo giudiziario che ruotano intorno ad esso,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, volte ad attuare, con il più ampio confronto con le forze politiche presenti in Parlamento, una riforma davvero radicale in materia di custodia cautelare preventiva, di tutela dei diritti dei detenuti, di esecuzione pena e, più in generale, di trattamenti sanzionatori e rieducativi, che preveda:

a) la riduzione dei tempi di custodia cautelare, perlomeno per i reati meno gravi, nonché del potere della magistratura nell'applicazione delle misure cautelari personali a casi tassativamente previsti dal legislatore, previa modifica dell'articolo 280 del codice di procedura penale;

b) l'introduzione di meccanismi in grado di garantire una reale ed efficace protezione, del principio di umanizzazione della pena e del suo fine rieducativo, assicurando al detenuto un'adeguata tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei suoi diritti;

c) l'istituzione a livello nazionale del Garante dei diritti dei detenuti, ossia di un soggetto che possa lavorare in coordinamento e su un piano di reciproca parità con la magistratura di sorveglianza, in modo da integrare quegli spazi che non possono essere tutti occupati in via giudiziaria;

d) il rafforzamento sia degli strumenti alternativi al carcere previsti dalla cosiddetta legge «Gozzini», da applicare direttamente anche nella fase di cognizione, sia delle sanzioni penali alternative alla detenzione intramuraria, a partire dalla estensione dell'istituto della messa alla prova, previsto dall'ordinamento minorile, anche nel procedimento penale ordinario;

e) l'applicazione della detenzione domiciliare, quale strumento centrale nell'esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità, anche attraverso l'attivazione di serie ed efficaci misure di controllo a distanza dei detenuti;

f) l'istituzione di centri di accoglienza per le pene alternative degli extra-comunitari, quale strumento per favorirne l'integrazione ed il reinserimento sociale e quindi ridurre il rischio di recidiva;

g) la creazione di istituti «a custodia attenuata» per tossicodipendenti, realizzabili in tempi relativamente brevi anche ricorrendo a forme di convenzioni e intese con il settore privato e del volontariato che già si occupa dei soggetti in trattamento;

h) la piena attuazione del principio della territorialità della pena previsto dall'ordinamento penitenziario, in modo da poter esercitare al meglio tutte quelle attività di sostegno e trattamento del detenuto che richiedono relazioni stabili e assidue tra quest'ultimo, i propri familiari e i servizi territoriali della regione di residenza;

i) la revisione del sistema di sospensione della pena al momento della definitività della sentenza di condanna, abolendo i meccanismi di preclusione per i recidivi specifici e infraquinquennali reiterati nonché per coloro che rientrano nell'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, sull'ordinamento penitenziario; introducendo, nel contempo, termini perentori entro i quali i tribunali di sorveglianza devono decidere sulla misura alternativa richiesta;

l) l'abolizione del meccanismo delle preclusioni di cui all'articolo 4-bis della citata legge n. 394 del 1975 sull'ordinamento penitenziario con recupero da parte della magistratura di sorveglianza e degli organi istituzionalmente competenti del potere di valutare i singoli percorsi rieducativi in base alla personalità del condannato, alla sua pericolosità sociale e a tutti gli altri parametri normativamente previsti;

m) la radicale modifica dell'articolo 41-bis della citata legge n. 394 del 1975, sull'ordinamento penitenziario in modo da rendere il cosiddetto «carcere duro» conforme alle ripetute affermazioni della Corte costituzionale sulla necessità che sia rispettato, in costanza di applicazione del regime in questione, il diritto alla rieducazione e ad un trattamento penitenziario conseguente;

n) l'adeguamento degli organici del personale penitenziario ed amministrativo, nonché dei medici, degli infermieri, degli assistenti sociali, degli educatori e degli psicologi, non solo per ciò che concerne la loro consistenza numerica, ma anche per ciò che riguarda la promozione di qualificazioni professionali atte a facilitare il reinserimento sociale dei detenuti;

o) il miglioramento del servizio sanitario penitenziario, dando seguito alla riforma della medicina penitenziaria già avviata con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008, in modo che la stessa possa trovare, finalmente, effettiva e concreta applicazione;

p) l'applicazione concreta della legge 22 giugno 2000 n. 193 (cosiddetta legge «Smuraglia»), anche incentivando la trasformazione degli istituti penitenziari, da meri contenitori di persone senza alcun
impegno ed in condizioni di permanente inerzia, in soggetti economici capaci di stare sul mercato, e, come tali, anche capaci di ritrovare sul mercato stesso le risorse necessarie per operare, riducendo gli oneri a carico dello Stato e, quindi, della collettività;

q) l'esclusione dal circuito carcerario delle donne con i loro bambini;

r) la limitazione dell'applicazione delle misure di sicurezza ai soli soggetti non imputabili (abolendo il sistema del doppio binario) o comunque l'adozione degli opportuni provvedimenti legislativi volti ad introdurre una maggiore restrizione dei presupposti applicativi delle misure di sicurezza a carattere detentivo, magari sostituendo al criterio della «pericolosità» (ritenuto di dubbio fondamento empirico) quello del «bisogno di trattamento»;

s) la possibilità per i detenuti e gli internati di coltivare i propri rapporti affettivi anche all'interno del carcere, consentendo loro di incontrare le persone autorizzate ai colloqui in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi;

t) l'istituzione di un'anagrafe digitale pubblica delle carceri in modo da rendere la gestione degli istituti di pena trasparente al pubblico;

u) una forte spinta all'attività di valutazione e finanziamento dei progetti di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, nonché di aiuti alle loro famiglie, prevista dalla legge istitutiva della Cassa delle ammende;

v) la modifica del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, in particolare prevedendo che anche l'attività di coltivazione di sostanza stupefacente il cui ricavato sia destinato ad un uso esclusivamente personale venga depenalizzata ed assuma quindi una rilevanza meramente amministrativa in conformità a quanto previsto dal referendum del 1993.

(1-00288)
«Bernardini, Maurizio Turco, Beltrandi, Farina Coscioni, Mecacci, Zamparutti, Della Vedova, Mario Pepe (PD), Melis, Duilio, Giachetti, Calvisi, Touadi».