SocialNews- Non devono esserci più morti sospette
SocialNews- Dicembre
Il carcere che vorremmo
Il Direttore, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’agente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore, il cappellano, il medico, ecc., devono essere una costante espressione di legalità e di buon senso, attori di una logica che si armi della “forza della persuasione” e non della persuasione della forza.
In queste giornate, dove si affastellano le notizie gravi che, come un fiume carsico, sono improvvisamente (ma non per noi direttori penitenziari…) sgorgate dal Mondo delle Carceri, un’ondata di insinuazioni e di luoghi comuni ci ha colpito, un’ondata che ha travolto la comunità degli operatori penitenziari, ulteriori vittime di un’ingiusta crocifissione. La nostra colpa vera è d’esserci, la colpa è di avere preferito un lavoro che, per molti di noi, è una missione, nei luoghi più difficili dell’umanità: la colpa è di lavorare in carcere… Le nostre sono sensazioni dolorose, finanche umilianti, perché, per chi creda nel lavoro penitenziario, esserci nel sistema è immedesimarsi anche in tutti gli avvenimenti che lo riguardano, addirittura confondendosi con il grigiore degli ambienti che, quando riusciamo a portare avanti i mille progetti di reinserimento che pure pullulano nelle carceri italiane, ai nostri occhi perdono la loro disumanità e bruttezza, e non sono più fatte di sole grate e cancelli, di mura scrostate o dipinte con i colori di fortuna, di stanze sovraffollate dalle temperature tropicali d’estate e rigide d’inverno, ma luoghi d’incontro, di scommessa, di speranza, di visi e di occhi che si intrecciano e che cercano, insieme, il recupero della dignità nella responsabilità.Pur non declinando al dovere che si ha verso tutti i cittadini e le istituzioni di fare “sicurezza”, di evitare che le persone, prigioniere, scappino, evadano dal carcere e tornino a delinquere, il nostro pensiero parallelo, la nostra quotidiana azione, pur a fronte di risorse risibili, offensive e “razionalmente” distanti dagli obiettivi che ci imponiamo, è rivolto verso quella parola magica, che è per noi la sublimazione della sicurezza, la sicurezza “nobile” e duratura, che indichiamo come RECUPERO della persona detenuta alla Società.
Quando però accadono fatti inquietanti, come la morte ancora non chiarita di un giovane uomo, di un detenuto (ma uguale sensazione dolorosa troveremmo ove anche si trattasse del decesso violento e/o suicidario di un nostro operatore…), al di la di qualunque accertamento della verità che pretendiamo senza sconti ed in tempi rapidi, ci sentiamo comunque coinvolti, pur senza colpa, perché a noi non basta la giustificazione: “non potevo farci nulla, non ho responsabilità, non dipende da me…”, provando come mortificazione profonda ogni fatto dove l’uomo, la persona, risulti sopraffatta, annichilita, numero perso nella moltitudine, senza più speranza. È un lavoro difficile il nostro, spartiacque tra la forza e la ragionevolezza, “freddi” nelle situazioni “calde”, “caldi” nelle situazioni “fredde”: tra la pena e la speranza, tra la voglia di giustizia fai da te e truculenta di quanti, “fuori”, si alimentano d’odio e di banalità da regimi illiberali, e che sempre tentano l’agguato verso i valori della legalità e del rispetto dei diritti umani, e la corrente “opposta”, non meno dannosa, di quanti sottostimano la centralità della responsabilità individuale, preferendosi quella “cosmica ed universale”, possibilmente degli altri, in primo luogo dello Stato, ripetendo una lettura ideologica e minimalista, fastidiosa e perdonista, di chi dimentica in modo tranciante che dietro un reato spesso ci sono vittime inascoltate e che se anche non ci fossero le leggi, non sarebbe accettabile fare del male agli altri... I flussi di risorse economiche ed umane che da anni sono destinate al serraglio penitenziario sono la prova di un’attenzione sociale e politica a corrente alternata: in verità, se si vuole fare del carcere duro, non c’è forse neanche bisogno di produrre nuove norme, basta rallentare e/o ridurre gli stanziamenti dei finanziamenti destinati all’assunzione del personale penitenziario necessario, o quelli finalizzati per assicurare i servizi essenziali negli istituti, per ammodernare le strutture carcerarie, per rendere la pena detentiva utile, produttiva e meno stupida, ponte necessario tra una situazione di deprivazione, anche morale, ad altra ed alternativa, di conquista di diritti di cittadinanza.
Se si vuole fare carcere duro, basta non assumere nuovi direttori penitenziari e non distribuire ragionevolmente quelli presenti, talché accadrà che tante prigioni risulteranno “governate” a distanza, o da direttori “saltellanti” e temporanei, veramente mobility-manager, ma di se stessi, talchè che, inevitabilmente, i “vuoti” saranno riempiti da altre figure semmai presenti, le più diverse, pure “specialistiche” e brave, ma altre… Quante volte si dovrà ripetere che i Direttori nelle carceri rappresentano il punto di equilibrio, il riferimento al sistema delle garanzie e dei doveri, di tutti, nessuno escluso… Eppure c’è chi li vorrebbe “far fuori”, e non sono le nuove BR (basterebbe navigare su diversi siti di alcuni sindacati per rendersene conto…), chi li vorrebbe relegare a meri notabili e sacerdoti laici di attività e compiti amministrativi, a dispetto delle leggi attuali e di una concezione dell’esecuzione penale trasversale negli ambiti sensibili al sociale in qualunque parte del mondo civile, sia a dritta che a manca. C’è chi sostiene l’idea di un nuovo carcere del futuro senza direttori penitenziari, o meglio dove il direttore non è più responsabile della sicurezza globale, dell’ordine e della disciplina: sicurezza, ordine e disciplina che, nell’ottica dei direttori, sono categorie di valori rivolti anzitutto, prima di tutto, alla struttura, all’organizzazione penitenziaria nella generalità delle sue componenti umane, a se stessi perché significano il primato della legalità, ancorché verso i detenuti, perché (ed è questa la “lucida follia” dei direttori…) i prigionieri, le persone private di libertà, i delinquenti o sfigati di turno, “possono sbagliare”, possono ritornare, anche in ambito penitenziario, a ricommettere dei reati e ciò sarebbe “contrattualmente accettabile” come rischio, comprensibilmente declinabile nella parte che si recita, ma per gli operatori penitenziari, dal direttore fino all’ultimo agente appena assunto, NO: questa “opzione” non è ad essi consentita, non è ammissibile. Il “gioco” del carcere della legalità, con le sue regole, impone un ruolo necessariamente diverso, “alternativo” rispetto a quello di quanti, per avere violato la legge, ne sono gli obbligati “ospiti”… Il Direttore, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’agente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore, il cappellano, il medico, ecc., devono essere una costante espressione di legalità e di buon senso, attori di una logica che si armi della “forza della persuasione” e non della persuasione della forza.
Allora capirete il malessere, la mortificazione, il senso di sfiducia che prende gli operatori penitenziari, e primi tra tutti, gli stessi direttori quando, dal mondo dell’informazione, dalla stampa e dal cicaleccio mediatico sembrano uscire allusioni, critiche, se non vere e proprie infamanti accuse sul modo con il quale, in quel luogo sacro, perché pieno di sofferenze e che anela alla libertà, rappresentato dal Carcere, si vuole far intendere che non la legalità, quella che aiuta ed orienta, quella che assicura alle persone detenute, non la libertà, ma, almeno, una seconda “chance”, il primato, al contrario, sia deposto nella violenza, nell’indifferenza, nell’assenza di umanità, nella sopraffazione. Il Carcere in Italia non è questo, noi non vogliamo che sia questo! Noi direttori penitenziari rigettiamo con sdegno tali accuse, non le riteniamo una cosa giusta, non le meritiamo, così come non le meritano la stragrande maggioranza degli operatori penitenziari, da anni abbandonati in prigioni di cui ancora poco si sa e si comprende, prigioni che rappresentano ogni giorno, tutti i giorni, i campi di battaglia della legalità, dove le riforme inaridiscono in una notte e le illusioni si traducono in rivendicazioni e rabbia, in un baleno, all’indomani. Di vetro, di solido vetro blindato vorremmo che fossero fatte le carceri, e che fossero situate nel mezzo delle piazze, con grandi luminarie affinché tutti, proprio tutti, possano vedere al loro interno, che siano costretti a scrutarle e non possano più giustificare la loro ignoranza sulle cose…Di quanta superficialità sono fatti i giudizi impietosi che spesso riceviamo, di quanta ipocrisia “le cure” che, secondo le paure e le rabbie del momento, o per il lucido calcolo di un consenso di popolame a buon mercato, ci vengono suggerite da urlanti giustizieri politicamente impegnati, al fine di risolvere radicalmente, almeno a parole, di volta in volta il problema dei pedofili, degli stupratori, dei rapinatori, dei terroristi, dei tossicodipendenti, dei truffatori, ecc.: di quanta violenza desiderata, e che si vorrebbe noi replicassimo, siamo destinatari…
Costretti ad operare in un contesto che non premia il sacrificio, che non riesce a costruire un sistema di regole contrattuali che siano anche deontologicamente vincolanti per i destinatari tra i quali, seppure non in molti, si celano assenteisti cronici e spiriti non in pace con se stessi, dove pochi, ma vocianti, pochi, ma organizzati, sfruttano ogni appiglio possibile per mettere in cattiva luce quanti, i direttori prima di tutti, non arretrano in tema di ragionevolezza e legalità sostanziale, oggi dobbiamo subire l’ulteriore offesa: ma ormai siamo arrivati al Capolinea e dilazioni, al Governo, alla Maggioranza, al Parlamento non sono più concedibili in materia di esecuzione penale e finanche di “Giustizia”! Tempo fa, come Sindacato dei Direttori e Dirigenti Penitenziari, urlammo l’esigenza di un “Piano Marshall” per le carceri. Non solo l’esigenza di realizzare nuove strutture penitenziarie, funzionali e finanche “belle” (perché devono essere un luogo di sicurezza pensato per i detenuti, ma anche per i lavoratori penitenziari…), di rivedere le dotazioni organiche previste e di per se insufficienti, ma nel contempo almeno riempire i vuoti vistosi che sono presenti, non solo l’esigenza di aprirsi ancor di più sul territorio, ricercando le migliori sinergie con gli enti locali, con il mondo della scuola e della formazione professionale, con le plurali confessioni religiose, con il mondo del volontariato impegnato nel sociale, ma anche di avere un botto di fantasia ragionevole per trovare risposte sanzionatorie alternative al carcere, quantomeno perché meno onerose per lo Stato. Noi direttori di proposte serie, che sappiano camminare sulle proprie gambe, tante ne abbiamo suggerite e tante altre potremmo farne, ma in verità, oggi, a chi interessano? Per cui, e concludo, basta con le ciance, basta con spallucce e con i rimedi da quattro soldi e perfettamente decontestualizzati dalla realtà: abbiamo bisogno di cose vere, di analisi che conoscono la regola del confronto; non intendiamo essere i custodi del Tempo dei detenuti e delle istituzioni che scorre inutile, vogliamo che il carcere sia fucina di intelligenze positive e di sicurezza, di valori di cittadinanza attiva e di partecipazione: del carcere della paura, della rabbia o della prevaricazione a ruoli ondivaghi ed alternati non siamo desiderosi, noi perlomeno. In Italia, le carceri italiane hanno conosciuto, come prigionieri, le più originali espressioni dell’elaborazione politica del secolo scorso: Mussolini, Pietro Nenni, Antonio Gramsci, Sandro Pertini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, solo per citarne i più noti: nelle loro alterne fortune, questi personaggi conobbero le galere, le isole, la privazione di libertà; allora, perché mai oggi, le carceri italiane dovrebbero essere considerate la cosa peggiore e non il luogo dove, se c’è rispetto della dignità umana, possono trovarsi risposte rassicuranti per la società e una rinnovata positiva attenzione verso i temi dei diritti umani? Ecco, questo è il carcere che noi vorremmo.
Il carcere che vorremmo
Il Direttore, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’agente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore, il cappellano, il medico, ecc., devono essere una costante espressione di legalità e di buon senso, attori di una logica che si armi della “forza della persuasione” e non della persuasione della forza.
In queste giornate, dove si affastellano le notizie gravi che, come un fiume carsico, sono improvvisamente (ma non per noi direttori penitenziari…) sgorgate dal Mondo delle Carceri, un’ondata di insinuazioni e di luoghi comuni ci ha colpito, un’ondata che ha travolto la comunità degli operatori penitenziari, ulteriori vittime di un’ingiusta crocifissione. La nostra colpa vera è d’esserci, la colpa è di avere preferito un lavoro che, per molti di noi, è una missione, nei luoghi più difficili dell’umanità: la colpa è di lavorare in carcere… Le nostre sono sensazioni dolorose, finanche umilianti, perché, per chi creda nel lavoro penitenziario, esserci nel sistema è immedesimarsi anche in tutti gli avvenimenti che lo riguardano, addirittura confondendosi con il grigiore degli ambienti che, quando riusciamo a portare avanti i mille progetti di reinserimento che pure pullulano nelle carceri italiane, ai nostri occhi perdono la loro disumanità e bruttezza, e non sono più fatte di sole grate e cancelli, di mura scrostate o dipinte con i colori di fortuna, di stanze sovraffollate dalle temperature tropicali d’estate e rigide d’inverno, ma luoghi d’incontro, di scommessa, di speranza, di visi e di occhi che si intrecciano e che cercano, insieme, il recupero della dignità nella responsabilità.Pur non declinando al dovere che si ha verso tutti i cittadini e le istituzioni di fare “sicurezza”, di evitare che le persone, prigioniere, scappino, evadano dal carcere e tornino a delinquere, il nostro pensiero parallelo, la nostra quotidiana azione, pur a fronte di risorse risibili, offensive e “razionalmente” distanti dagli obiettivi che ci imponiamo, è rivolto verso quella parola magica, che è per noi la sublimazione della sicurezza, la sicurezza “nobile” e duratura, che indichiamo come RECUPERO della persona detenuta alla Società.
Quando però accadono fatti inquietanti, come la morte ancora non chiarita di un giovane uomo, di un detenuto (ma uguale sensazione dolorosa troveremmo ove anche si trattasse del decesso violento e/o suicidario di un nostro operatore…), al di la di qualunque accertamento della verità che pretendiamo senza sconti ed in tempi rapidi, ci sentiamo comunque coinvolti, pur senza colpa, perché a noi non basta la giustificazione: “non potevo farci nulla, non ho responsabilità, non dipende da me…”, provando come mortificazione profonda ogni fatto dove l’uomo, la persona, risulti sopraffatta, annichilita, numero perso nella moltitudine, senza più speranza. È un lavoro difficile il nostro, spartiacque tra la forza e la ragionevolezza, “freddi” nelle situazioni “calde”, “caldi” nelle situazioni “fredde”: tra la pena e la speranza, tra la voglia di giustizia fai da te e truculenta di quanti, “fuori”, si alimentano d’odio e di banalità da regimi illiberali, e che sempre tentano l’agguato verso i valori della legalità e del rispetto dei diritti umani, e la corrente “opposta”, non meno dannosa, di quanti sottostimano la centralità della responsabilità individuale, preferendosi quella “cosmica ed universale”, possibilmente degli altri, in primo luogo dello Stato, ripetendo una lettura ideologica e minimalista, fastidiosa e perdonista, di chi dimentica in modo tranciante che dietro un reato spesso ci sono vittime inascoltate e che se anche non ci fossero le leggi, non sarebbe accettabile fare del male agli altri... I flussi di risorse economiche ed umane che da anni sono destinate al serraglio penitenziario sono la prova di un’attenzione sociale e politica a corrente alternata: in verità, se si vuole fare del carcere duro, non c’è forse neanche bisogno di produrre nuove norme, basta rallentare e/o ridurre gli stanziamenti dei finanziamenti destinati all’assunzione del personale penitenziario necessario, o quelli finalizzati per assicurare i servizi essenziali negli istituti, per ammodernare le strutture carcerarie, per rendere la pena detentiva utile, produttiva e meno stupida, ponte necessario tra una situazione di deprivazione, anche morale, ad altra ed alternativa, di conquista di diritti di cittadinanza.
Se si vuole fare carcere duro, basta non assumere nuovi direttori penitenziari e non distribuire ragionevolmente quelli presenti, talché accadrà che tante prigioni risulteranno “governate” a distanza, o da direttori “saltellanti” e temporanei, veramente mobility-manager, ma di se stessi, talchè che, inevitabilmente, i “vuoti” saranno riempiti da altre figure semmai presenti, le più diverse, pure “specialistiche” e brave, ma altre… Quante volte si dovrà ripetere che i Direttori nelle carceri rappresentano il punto di equilibrio, il riferimento al sistema delle garanzie e dei doveri, di tutti, nessuno escluso… Eppure c’è chi li vorrebbe “far fuori”, e non sono le nuove BR (basterebbe navigare su diversi siti di alcuni sindacati per rendersene conto…), chi li vorrebbe relegare a meri notabili e sacerdoti laici di attività e compiti amministrativi, a dispetto delle leggi attuali e di una concezione dell’esecuzione penale trasversale negli ambiti sensibili al sociale in qualunque parte del mondo civile, sia a dritta che a manca. C’è chi sostiene l’idea di un nuovo carcere del futuro senza direttori penitenziari, o meglio dove il direttore non è più responsabile della sicurezza globale, dell’ordine e della disciplina: sicurezza, ordine e disciplina che, nell’ottica dei direttori, sono categorie di valori rivolti anzitutto, prima di tutto, alla struttura, all’organizzazione penitenziaria nella generalità delle sue componenti umane, a se stessi perché significano il primato della legalità, ancorché verso i detenuti, perché (ed è questa la “lucida follia” dei direttori…) i prigionieri, le persone private di libertà, i delinquenti o sfigati di turno, “possono sbagliare”, possono ritornare, anche in ambito penitenziario, a ricommettere dei reati e ciò sarebbe “contrattualmente accettabile” come rischio, comprensibilmente declinabile nella parte che si recita, ma per gli operatori penitenziari, dal direttore fino all’ultimo agente appena assunto, NO: questa “opzione” non è ad essi consentita, non è ammissibile. Il “gioco” del carcere della legalità, con le sue regole, impone un ruolo necessariamente diverso, “alternativo” rispetto a quello di quanti, per avere violato la legge, ne sono gli obbligati “ospiti”… Il Direttore, il Comandante del Reparto di Polizia Penitenziaria, l’agente, l’assistente sociale, lo psicologo, l’educatore, il cappellano, il medico, ecc., devono essere una costante espressione di legalità e di buon senso, attori di una logica che si armi della “forza della persuasione” e non della persuasione della forza.
Allora capirete il malessere, la mortificazione, il senso di sfiducia che prende gli operatori penitenziari, e primi tra tutti, gli stessi direttori quando, dal mondo dell’informazione, dalla stampa e dal cicaleccio mediatico sembrano uscire allusioni, critiche, se non vere e proprie infamanti accuse sul modo con il quale, in quel luogo sacro, perché pieno di sofferenze e che anela alla libertà, rappresentato dal Carcere, si vuole far intendere che non la legalità, quella che aiuta ed orienta, quella che assicura alle persone detenute, non la libertà, ma, almeno, una seconda “chance”, il primato, al contrario, sia deposto nella violenza, nell’indifferenza, nell’assenza di umanità, nella sopraffazione. Il Carcere in Italia non è questo, noi non vogliamo che sia questo! Noi direttori penitenziari rigettiamo con sdegno tali accuse, non le riteniamo una cosa giusta, non le meritiamo, così come non le meritano la stragrande maggioranza degli operatori penitenziari, da anni abbandonati in prigioni di cui ancora poco si sa e si comprende, prigioni che rappresentano ogni giorno, tutti i giorni, i campi di battaglia della legalità, dove le riforme inaridiscono in una notte e le illusioni si traducono in rivendicazioni e rabbia, in un baleno, all’indomani. Di vetro, di solido vetro blindato vorremmo che fossero fatte le carceri, e che fossero situate nel mezzo delle piazze, con grandi luminarie affinché tutti, proprio tutti, possano vedere al loro interno, che siano costretti a scrutarle e non possano più giustificare la loro ignoranza sulle cose…Di quanta superficialità sono fatti i giudizi impietosi che spesso riceviamo, di quanta ipocrisia “le cure” che, secondo le paure e le rabbie del momento, o per il lucido calcolo di un consenso di popolame a buon mercato, ci vengono suggerite da urlanti giustizieri politicamente impegnati, al fine di risolvere radicalmente, almeno a parole, di volta in volta il problema dei pedofili, degli stupratori, dei rapinatori, dei terroristi, dei tossicodipendenti, dei truffatori, ecc.: di quanta violenza desiderata, e che si vorrebbe noi replicassimo, siamo destinatari…
Costretti ad operare in un contesto che non premia il sacrificio, che non riesce a costruire un sistema di regole contrattuali che siano anche deontologicamente vincolanti per i destinatari tra i quali, seppure non in molti, si celano assenteisti cronici e spiriti non in pace con se stessi, dove pochi, ma vocianti, pochi, ma organizzati, sfruttano ogni appiglio possibile per mettere in cattiva luce quanti, i direttori prima di tutti, non arretrano in tema di ragionevolezza e legalità sostanziale, oggi dobbiamo subire l’ulteriore offesa: ma ormai siamo arrivati al Capolinea e dilazioni, al Governo, alla Maggioranza, al Parlamento non sono più concedibili in materia di esecuzione penale e finanche di “Giustizia”! Tempo fa, come Sindacato dei Direttori e Dirigenti Penitenziari, urlammo l’esigenza di un “Piano Marshall” per le carceri. Non solo l’esigenza di realizzare nuove strutture penitenziarie, funzionali e finanche “belle” (perché devono essere un luogo di sicurezza pensato per i detenuti, ma anche per i lavoratori penitenziari…), di rivedere le dotazioni organiche previste e di per se insufficienti, ma nel contempo almeno riempire i vuoti vistosi che sono presenti, non solo l’esigenza di aprirsi ancor di più sul territorio, ricercando le migliori sinergie con gli enti locali, con il mondo della scuola e della formazione professionale, con le plurali confessioni religiose, con il mondo del volontariato impegnato nel sociale, ma anche di avere un botto di fantasia ragionevole per trovare risposte sanzionatorie alternative al carcere, quantomeno perché meno onerose per lo Stato. Noi direttori di proposte serie, che sappiano camminare sulle proprie gambe, tante ne abbiamo suggerite e tante altre potremmo farne, ma in verità, oggi, a chi interessano? Per cui, e concludo, basta con le ciance, basta con spallucce e con i rimedi da quattro soldi e perfettamente decontestualizzati dalla realtà: abbiamo bisogno di cose vere, di analisi che conoscono la regola del confronto; non intendiamo essere i custodi del Tempo dei detenuti e delle istituzioni che scorre inutile, vogliamo che il carcere sia fucina di intelligenze positive e di sicurezza, di valori di cittadinanza attiva e di partecipazione: del carcere della paura, della rabbia o della prevaricazione a ruoli ondivaghi ed alternati non siamo desiderosi, noi perlomeno. In Italia, le carceri italiane hanno conosciuto, come prigionieri, le più originali espressioni dell’elaborazione politica del secolo scorso: Mussolini, Pietro Nenni, Antonio Gramsci, Sandro Pertini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, solo per citarne i più noti: nelle loro alterne fortune, questi personaggi conobbero le galere, le isole, la privazione di libertà; allora, perché mai oggi, le carceri italiane dovrebbero essere considerate la cosa peggiore e non il luogo dove, se c’è rispetto della dignità umana, possono trovarsi risposte rassicuranti per la società e una rinnovata positiva attenzione verso i temi dei diritti umani? Ecco, questo è il carcere che noi vorremmo.
Enrico Sbriglia
Direttore Casa Circondariale di Trieste, Segretario Nazionale del SI.DI.PE. (Sindacato Direttori e Dirigenti Penitenziari)
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