Carceri verso la catastrofe umanitaria, facciamo largo a Comuni e Regioni
di Stefano Anastasia
Il Manifesto, 23 settembre 2010
“Passata la festa, gabbato lu Santu”. Il ferragosto si allontana e la sensazione che il precetto evangelico sia stato seguito ritualmente sembra ogni giorno più forte: dal carcere continuano ad arrivare notizie di morti e disperazione e non abbiamo notizie di un sussulto di iniziativa da parte delle centinaia di parlamentari che sono andati a visitare i carcerati.
In Senato pende il disegno di legge per la detenzione domiciliare a fine pena, mentre la Camera discute delle alternative al carcere per le detenute madri: progetti pure condivisibili nell’ispirazione, ma nulla che possa raddrizzare quel piano inclinato che da due anni sta facendo scivolare il sistema penitenziario italiano verso la catastrofe umanitaria.
Balliamo sul litanie e magari qualcuno al Ministero della giustizia starà pensando che una bella crisi di Governo potrà alleggerirlo dalle proprie responsabilità per azioni e omissioni di atti d’ufficio. Hanno ragione, quindi, Franco Corleone (Fuoriluogo, “il manifesto” del 25 agosto) e Mauro Palma (Fuoriluogo, “il manifesto” del 15 settembre) a richiamarci a uno sforzo di elaborazione ulteriore, a partire dall’Ordinamento penitenziario, dal Regolamento del 2000 e da una revisione critica delle “grandi riforme” del sistema, come quella che smilitarizzò gli agenti di custodia e ne fece il nuovo Corpo di polizia penitenziaria. Parto proprio da qui per farne un’altra, di proposta.
Non si può disconoscere che di strada ne è stata fatta: chi ricordi i vecchi “secondini” ante-riforma non può non apprezzare la qualità professionale della gran parte dei nuovi “poliziotti penitenziari”. Ma i problemi del Corpo di polizia penitenziaria restano e sono i problemi del sistema penitenziario. In deroga al blocco delle assunzioni nel settore pubblico, negli ultimi venti anni l’Amministrazione penitenziaria ha assunto prevalentemente agenti di polizia, affidando loro le mansioni più disparate, in nome del “trattamento penitenziario” e del fatto che anche loro dovessero parteciparvi. Da qui una tendenza bulimica del Corpo (come quella del sistema penitenziario nei confronti dei detenuti) e lo slabbrarsi della qualificazione professionale dei poliziotti, che in carcere sono agenti della sicurezza, del trattamento, della disciplina, dell’amministrazione, della contabilità, delle relazioni con il pubblico, ecc. ecc., e comunque mai sufficienti alla bisogna.
Sarà anche stato un cattivo sindacalismo a portarci fin qui, ma forse una spiegazione va cercata nella stessa ispirazione del nostro sistema penale e penitenziario. Nonostante le diverse tendenze di molti Paesi comparabili al nostro, il sistema penitenziario italiano resta un sistema “carcere-centrico”, nel quale le altre possibilità sanzionatone (e le professionalità non custodiali) restano delle “alternative” solo eventuali. Tanto più eventuali quanto più la loro stessa attuabilità sia ormai estranea alle competenze delle amministrazioni dello Stato.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la riforma costituzionale del 2001 ha affidato alle Regioni e agli enti locali, oltre che le competenze sanitarie, quelle sull’organizzazione dell’offerta di istruzione, sulla formazione professionale, sulle politiche attive del lavoro, sulle politiche sociali. Di tutto ciò che ha a che fare con il reinserimento sociale dei detenuti e con la possibilità che i condannati scontino la loro pena all’esterno del carcere l’Amministrazione statale non sa più nulla, e meno che mai ne sa quel suo piccolo pezzo da cui dipende la gestione delle carceri. In questa prospettiva, per potenziare le alternative al carcere, per emanciparle dalla loro condizione di minorità, non avrebbe più senso riconoscere che il sistema penitenziario è il frutto del concorso di più livelli e di più competenze tra Stato ed enti territoriali, e quindi riconoscere i confini oltre i quali l’amministrazione della giustizia non può andare e lasciare operare più efficacemente Regioni ed Enti locali? Perché gli Uffici dell’esecuzione penale esterna, con i loro assistenti sociali impegnati tra carcere e territorio, non possono passare direttamente alle dipendenze delle Regioni e degli Enti locali? Non ne sarebbe facilitata la presa in carico dei condannati sul territorio e, magari, le alternative al carcere?
Il Manifesto, 23 settembre 2010
“Passata la festa, gabbato lu Santu”. Il ferragosto si allontana e la sensazione che il precetto evangelico sia stato seguito ritualmente sembra ogni giorno più forte: dal carcere continuano ad arrivare notizie di morti e disperazione e non abbiamo notizie di un sussulto di iniziativa da parte delle centinaia di parlamentari che sono andati a visitare i carcerati.
In Senato pende il disegno di legge per la detenzione domiciliare a fine pena, mentre la Camera discute delle alternative al carcere per le detenute madri: progetti pure condivisibili nell’ispirazione, ma nulla che possa raddrizzare quel piano inclinato che da due anni sta facendo scivolare il sistema penitenziario italiano verso la catastrofe umanitaria.
Balliamo sul litanie e magari qualcuno al Ministero della giustizia starà pensando che una bella crisi di Governo potrà alleggerirlo dalle proprie responsabilità per azioni e omissioni di atti d’ufficio. Hanno ragione, quindi, Franco Corleone (Fuoriluogo, “il manifesto” del 25 agosto) e Mauro Palma (Fuoriluogo, “il manifesto” del 15 settembre) a richiamarci a uno sforzo di elaborazione ulteriore, a partire dall’Ordinamento penitenziario, dal Regolamento del 2000 e da una revisione critica delle “grandi riforme” del sistema, come quella che smilitarizzò gli agenti di custodia e ne fece il nuovo Corpo di polizia penitenziaria. Parto proprio da qui per farne un’altra, di proposta.
Non si può disconoscere che di strada ne è stata fatta: chi ricordi i vecchi “secondini” ante-riforma non può non apprezzare la qualità professionale della gran parte dei nuovi “poliziotti penitenziari”. Ma i problemi del Corpo di polizia penitenziaria restano e sono i problemi del sistema penitenziario. In deroga al blocco delle assunzioni nel settore pubblico, negli ultimi venti anni l’Amministrazione penitenziaria ha assunto prevalentemente agenti di polizia, affidando loro le mansioni più disparate, in nome del “trattamento penitenziario” e del fatto che anche loro dovessero parteciparvi. Da qui una tendenza bulimica del Corpo (come quella del sistema penitenziario nei confronti dei detenuti) e lo slabbrarsi della qualificazione professionale dei poliziotti, che in carcere sono agenti della sicurezza, del trattamento, della disciplina, dell’amministrazione, della contabilità, delle relazioni con il pubblico, ecc. ecc., e comunque mai sufficienti alla bisogna.
Sarà anche stato un cattivo sindacalismo a portarci fin qui, ma forse una spiegazione va cercata nella stessa ispirazione del nostro sistema penale e penitenziario. Nonostante le diverse tendenze di molti Paesi comparabili al nostro, il sistema penitenziario italiano resta un sistema “carcere-centrico”, nel quale le altre possibilità sanzionatone (e le professionalità non custodiali) restano delle “alternative” solo eventuali. Tanto più eventuali quanto più la loro stessa attuabilità sia ormai estranea alle competenze delle amministrazioni dello Stato.
Non bisogna dimenticare, infatti, che la riforma costituzionale del 2001 ha affidato alle Regioni e agli enti locali, oltre che le competenze sanitarie, quelle sull’organizzazione dell’offerta di istruzione, sulla formazione professionale, sulle politiche attive del lavoro, sulle politiche sociali. Di tutto ciò che ha a che fare con il reinserimento sociale dei detenuti e con la possibilità che i condannati scontino la loro pena all’esterno del carcere l’Amministrazione statale non sa più nulla, e meno che mai ne sa quel suo piccolo pezzo da cui dipende la gestione delle carceri. In questa prospettiva, per potenziare le alternative al carcere, per emanciparle dalla loro condizione di minorità, non avrebbe più senso riconoscere che il sistema penitenziario è il frutto del concorso di più livelli e di più competenze tra Stato ed enti territoriali, e quindi riconoscere i confini oltre i quali l’amministrazione della giustizia non può andare e lasciare operare più efficacemente Regioni ed Enti locali? Perché gli Uffici dell’esecuzione penale esterna, con i loro assistenti sociali impegnati tra carcere e territorio, non possono passare direttamente alle dipendenze delle Regioni e degli Enti locali? Non ne sarebbe facilitata la presa in carico dei condannati sul territorio e, magari, le alternative al carcere?
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