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Questo è carcere che non consente il cambiamento
28 gennaio 2008
Quotidiani e tv hanno cominciato a martellare sui tamburi della gran cassa mediatica, il rumore è sempre più assordante, come quando accade qualcosa che era stato ampiamente preventivato.
Le carceri si stanno nuovamente riempiendo, i detenuti stanno riconsolidando la percentuale di sovraffollamento precedente alla concessione dell’indulto. Come al solito siamo replicanti di noi stessi, incapaci di sostenere e ampliare una soluzione umana possibile, che poggi le fondamenta sull’esperienza.
Manca la legalità, non c’è sufficiente sicurezza, occorre costruire nuove galere, c’è bisogno di altre migliaia di operatori intesi come Polizia Penitenziaria, di interventi e di denaro. Effettivamente occorrono i denari, perché senza quelli non esiste possibilità di disegnare alcun progetto attuale e futuro, senza denari la teoria non configura alcuna pratica.
Senza dubbio c’è necessità di interventi, ma se questi sono una sottotraccia di ideologie da mercato, meglio non autorizzarne il passaggio mediatico, camuffandoli da interventi di grande autorevolezza politico criminale.
Possiamo redigere alti muri, edificare nuovi molok tra le nebbie, inasprire pene e sanzioni, moltiplicare per dieci i tutori dell’ordine, ma a quale scopo? Per vincere l’illegalità diffusa? Non è una cella oscura, una disciplina sciocca e feroce a far mettere in discussione il proprio vissuto a un detenuto, si otterrà l’esatto contrario, un ammaestramento che prima o poi deflagrerà.
Il carcere italiano ritorna all’invivibilità di sempre, non perché gli indultati non meritassero quella pietà, è sotto gli occhi di tutti la maturità raggiunta dalla stragrande maggioranza dei detenuti. Non è il carcere la soluzione a disfunzioni prettamente politiche, eppure ha ripreso a funzionare come una discarica abusiva, come una fabbrica di criminalità, in un paese dove le droghe la fanno in barba alle leggi, un paese che crede nella giustizia e nella legalità, finché queste due coordinate sociali non vanno a confliggere con i nostri interessi, attraverso una personalissima interpretazione della conformità alle regole.
Una verità conclamata sta nel sostenere che non è il carcere a poter risolvere le problematiche della giustizia e della sicurezza, anzi, confidando sulla sola capacità di intimidazione e violenza prisonizzante, si accentuano le condizioni per mantenere la persona detenuta a un tempo bloccato, al giorno del reato. Così facendo non esiste più l’uomo e la sua colpa, né la necessità di elaborare una rivisitazione del proprio vissuto, in prossimità di un vero mutamento interiore, per cui prevale il passaggio percettivo da carcerati a vittime, e in questa autoipnosi collettiva colpevolmente indotta, non c’è alcuna spinta alla compassione.
Nessuno o quasi si preoccupa di non fare fallire sul nascere qualsiasi progetto tendente al recupero della persona detenuta, superando la pratica della detenzione fine a se stessa, che mantiene colme le celle, senza favorire alcun auspicato cambiamento, in una esecuzione penale che riconosce come unico strumento di riordine il carcere.
Le celle si riempiono di lunghi monologhi di follia lucida, in un confine inteso come spazio e soglia di non appartenenza, un "prevaricamente" altro, specificatamente un luogo ove detenere-contenere i risultati di un disagio sociale galoppante, che non è sintesi di volontà criminale, di contrapposizione ideologica, bensì di marginalità e esclusione.
28 gennaio 2008
Quotidiani e tv hanno cominciato a martellare sui tamburi della gran cassa mediatica, il rumore è sempre più assordante, come quando accade qualcosa che era stato ampiamente preventivato.
Le carceri si stanno nuovamente riempiendo, i detenuti stanno riconsolidando la percentuale di sovraffollamento precedente alla concessione dell’indulto. Come al solito siamo replicanti di noi stessi, incapaci di sostenere e ampliare una soluzione umana possibile, che poggi le fondamenta sull’esperienza.
Manca la legalità, non c’è sufficiente sicurezza, occorre costruire nuove galere, c’è bisogno di altre migliaia di operatori intesi come Polizia Penitenziaria, di interventi e di denaro. Effettivamente occorrono i denari, perché senza quelli non esiste possibilità di disegnare alcun progetto attuale e futuro, senza denari la teoria non configura alcuna pratica.
Senza dubbio c’è necessità di interventi, ma se questi sono una sottotraccia di ideologie da mercato, meglio non autorizzarne il passaggio mediatico, camuffandoli da interventi di grande autorevolezza politico criminale.
Possiamo redigere alti muri, edificare nuovi molok tra le nebbie, inasprire pene e sanzioni, moltiplicare per dieci i tutori dell’ordine, ma a quale scopo? Per vincere l’illegalità diffusa? Non è una cella oscura, una disciplina sciocca e feroce a far mettere in discussione il proprio vissuto a un detenuto, si otterrà l’esatto contrario, un ammaestramento che prima o poi deflagrerà.
Il carcere italiano ritorna all’invivibilità di sempre, non perché gli indultati non meritassero quella pietà, è sotto gli occhi di tutti la maturità raggiunta dalla stragrande maggioranza dei detenuti. Non è il carcere la soluzione a disfunzioni prettamente politiche, eppure ha ripreso a funzionare come una discarica abusiva, come una fabbrica di criminalità, in un paese dove le droghe la fanno in barba alle leggi, un paese che crede nella giustizia e nella legalità, finché queste due coordinate sociali non vanno a confliggere con i nostri interessi, attraverso una personalissima interpretazione della conformità alle regole.
Una verità conclamata sta nel sostenere che non è il carcere a poter risolvere le problematiche della giustizia e della sicurezza, anzi, confidando sulla sola capacità di intimidazione e violenza prisonizzante, si accentuano le condizioni per mantenere la persona detenuta a un tempo bloccato, al giorno del reato. Così facendo non esiste più l’uomo e la sua colpa, né la necessità di elaborare una rivisitazione del proprio vissuto, in prossimità di un vero mutamento interiore, per cui prevale il passaggio percettivo da carcerati a vittime, e in questa autoipnosi collettiva colpevolmente indotta, non c’è alcuna spinta alla compassione.
Nessuno o quasi si preoccupa di non fare fallire sul nascere qualsiasi progetto tendente al recupero della persona detenuta, superando la pratica della detenzione fine a se stessa, che mantiene colme le celle, senza favorire alcun auspicato cambiamento, in una esecuzione penale che riconosce come unico strumento di riordine il carcere.
Le celle si riempiono di lunghi monologhi di follia lucida, in un confine inteso come spazio e soglia di non appartenenza, un "prevaricamente" altro, specificatamente un luogo ove detenere-contenere i risultati di un disagio sociale galoppante, che non è sintesi di volontà criminale, di contrapposizione ideologica, bensì di marginalità e esclusione.
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