Relazione Ferranti alla Camera dei Deputati- Delega al Governo in materia di sospensione del procedimento con messa alla prova, pene detentive non carcerarie, nonché sospensione del procedimento nei confronti degli irreperibili
C. 5019-BIS-A
APPUNTO PER LA RELAZIONE
Il provvedimento oggi in esame è il risultato di un lungo approfondito lavoro che ha visto coinvolti Commissione e Governo nell’intento di formulare un testo che possa servire a deflazionare concretamente, sia pure naturalmente in maniera non definitiva, sia il drammatico sovraffollamento delle carceri sia il carico di lavoro spesso insostenibile degli uffici giudiziari che si trovano impegnati per anni in processi che poi molte volte finiscono con la prescrizione del reato.
Il testo originario del disegno di legge del Governo si basava su quattro diverse deleghe aventi ad oggetto la depenalizzazione dei reati minori, la messa alla prova, le pene detentive non carcerarie e la contumacia. Le finalità deflattive delle prime tre deleghe è evidente di per sé. Per quanto attiene alla materia della contumacia, invece, la necessità dell’intervento normativo va letto in riferimento alle numerose decisioni della Corte europea dei diritti dell'uomo relative al diritto dell'imputato, ex articolo 6 della Convenzione, ad essere presente al proprio processo e che, censurando l'Italia per la violazione del diritto anzidetto, impongono al nostro Paese un obbligo di conformazione della disciplina nazionale.
Rispetto al testo originario del disegno di legge la prima differenza che troviamo nel testo al nostro esame è data dallo stralcio che si è operato in merito alla delega in materia di depenalizzazione. La scelta di stralciare questa materia è stata presa dalla Commissione, condivisa dal governo e confermata dall’Assemblea, dopo che si è verificato, grazie a dati forniti dal Governo stesso, che l’effetto deflattivo che questa avrebbe prodotto rispetto al numero dei processi penali pendenti si sarebbe fermato a cifre di poco superiori allo zero per cento. Considerato che un approfondimento della questione, finalizzato all’elaborazione di un elenco di reati da depenalizzare che consentisse una efficace deflazione del numero dei processi senza il rischio di non punire più penalmente fatti che invece sono meritevoli della sanzione penale, avrebbe comportato un aggravio notevole dei tempi di approvazione finale del disegno di legge e quindi anche di quelle parti di esso estremamente urgenti, essendo dirette a deflazionare il sovraffollamento carcerario, si è preferito separare la depenalizzazione dal resto. Ciò consente sia di procedere all’approfondimento richiesto sia di approvare nel frattempo il resto del disegno di legge.
Altra differenza notevole con il testo originario è dato dalla trasformazione delle deleghe in materia di messa alla prova e di contumacia in norme direttamente precettive. Si è trattato di un lavoro tanto complesso da farne dubitare a qualcuno la sua opportunità. Sarebbe stato sicuramente più facile e meno rischioso, sotto il profilo tecnico, lavorare sui principi e criteri direttivi di delega, eventualmente specificandoli ulteriormente. Sono state invece sostituite le deleghe con norme penali sostanziali e processuali con un duplice scopo: intervenire direttamente sulle predette materie senza attendere i tempi di attuazione delle deleghe, sempre incerti in prossimità della fine della legislatura, e ridare al Parlamento un ruolo centrale nell’intera produzione legislativa di norme estremamente importanti.
È quindi rimasta nel testo una sola delega: quella relativa alle pene detentive non carcerarie. Non si è trattato di una scelta, quanto piuttosto della constatazione che la Commissione non aveva i tempi necessari per poter trasformare i principi in norme direttamente precettive. Queste avrebbero dovuto toccare diversi settori dell’ordinamento (diritto penale sostanziale e processuale nonché diritto penitenziario) e comportare una serie di coordinamenti normativi che effettivamente per il Parlamento non sono sempre agevoli. Per evitare di formulare una normativa incompleta, si è scelta quindi la via della specificazione dei principi e criteri direttivi di delega facendo riferimento, per quanto possibile e compatibile, alla legislazione vigente che ultimamente è intervenuta su una materia simile, ma comunque diversa. Mi riferisco alla legge 26 novembre 2010, n. 199, recante disposizioni relative all'esecuzione presso il domicilio delle pene detentive non superiori a diciotto mesi, che ha per oggetto misure alternative. Il testo al nostro esame, invece si riferisce ad una pena principale comminata dal giudice della cognizione.
Prima di passare al contenuto del testo vorrei sottolineare come momento centrale dell’istruttoria legislativa siano state le audizioni svolte nell’ambito dell’indagine conoscitiva che, attraverso l’apporto tecnico-giuridico di professori universitari e di operatori del diritto, quali magistrati ed avvocati, ha consentito, tra l’altro, di compiere un lavoro sicuramente delicato e complesso: la trasformazione di alcune deleghe in disposizioni direttamente precettive. Ritengo che sia doveroso ringraziare, per il significativo contributo dato, i professori Mario Chiavario, Claudia Cesari, Giulio Illuminati e Francesco Caprioli nonché il Capo dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, il presidente del Tribunale di Torino, Luciano Panzani, il giudice del Tribunale di Torino, Alessandra Salvadori, ed i rappresentanti dell'Associazione nazionale magistrati e dell'Unione delle Camere penali italiane. Sono stati molto utili anche i contributi scritti della Dott.sa Livia Pomodoro, presidente del Tribunale di Milano, e di Claudio Castelli, Presidente aggiunto Ufficio GIP presso Tribunale di Milano.
Passo quindi ad illustrare il testo partendo proprio dalla delega relativa alle pene detentive non carcerarie, che il testo originario collocava all’articolo 5, che invece ora si trova all’articolo 1, quale unica delega rimasta.
Si tratta di una novità nel panorama del diritto penale italiano che si può definire epocale senza correre il rischio di cadere in facili esaltazioni retoriche che sovente non hanno poi alcuna giustificazione nella realtà dei fatti.
La novità consiste nel prevedere che il giudice della cognizione nel pronunciare la condanna per reati puniti con pene detentive non superiori a quattro anni possa stabilire che, in luogo della detenzione carceraria, la reclusione o l'arresto siano eseguiti presso l'abitazione del condannato o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza, anche per fasce orarie o per giorni della settimana, in misura non inferiore a quindici giorni e non superiore a quattro anni, nel caso di delitto, ovvero non inferiore a cinque giorni e non superiore a tre anni, nel caso di contravvenzioni. Tra i delitti puniti con pene detentive non superiori a quattro anni è stato escluso, per evidenti ragioni, il reato di stalking di cui all’articolo 612-bis del codice penale.
Come ha avuto modo di sottolineare il Ministro della Giustizia nel corso dell’esame in sede referente, si tratta di modifiche che intendono realizzare un'equilibrata politica di «decarcerizzazione» e dare effettività al principio del minor sacrificio possibile della libertà personale, che comunque viene privata.
È innegabile che per il nostro ordinamento il carcere deve essere considerato come una extrema ratio, alla quale ricorrere quando altre sanzioni sono inefficaci.
Come si legge nella relazione di accompagnamento al disegno di legge, “attraverso le nuove pene detentive non carcerarie, il condannato non dovrà più subire l'inadeguatezza del sistema penitenziario e la relativa ingiustificata compressione del diritto a un'esecuzione della pena ispirata al principio non solo di rieducazione, ma anche di umanità. Si tratta, pertanto, di disposizioni che conciliano i fondamentali obiettivi di un moderno sistema penale ispirato ai princìpi non soltanto di necessità, legalità, proporzionalità, personalità della pena, ma anche di rieducazione e umanizzazione della stessa secondo il disposto dell'articolo 27 della Costituzione, che ha inteso bandire ogni trattamento disumano e crudele, escludendo dalla pena ogni afflizione che non sia inscindibilmente connessa alla restrizione della libertà personale.”
La valenza epocale della riforma, alla quale ho prima fatto riferimento, sta nel fatto che non si tratta di una misura che viene applicata in fase di esecuzione all’esito dell’osservazione del comportamento del detenuto in carcere, ma in una pena principale che si affianca alla reclusione ed arresto in carcere e che, come tale, è comminata dal giudice della cognizione. Si tratta di un primo passo di avvicinamento a quei sistemi penali, specialmente anglosassoni, dove la pena si modula ogni volta (naturalmente con limitazioni legislative ben precise) sulle reali e concrete esigenze rieducative del condannato, senza mai perdere di vista le valenze retributive e preventive che la pena deve comunque sempre mantenere.
La delega non tiene conto solo del principio secondo cui il carcere deve essere considerato come una extrema ratio, ma anche delle esigenza di sicurezza sociale. Per assicurare queste ultime, si è voluto evitare che l’esecuzione “domiciliare” della pena detentiva possa essere considerata un dato acquisto ex ante da colui che commette il reato, bensì il risultato di una specifica e particolare ponderazione effettuata dal giudice della cognizione sulla base di una serie di elementi che poi non sono tanto diversi da quelli individuati dall’articolo 133 del codice penale. Non vi, quindi, alcuna automaticità nel prevedere la reclusione o l’arresto domiciliare. Questo è un punto molto importante che deve essere tenuto ben a mente quando, a torto, si critica questa riforma bollandola come un indiscriminato “svuota carceri”. Alla base dell’applicazione della nuova pena vi è sempre una prognosi negativa di pericolosità del condannato.
Le modifiche effettuate dalla Commissione sono state dettate dall’esigenza di rafforzare proprio questo profilo della delega, al fine di sottolineare l’aspetto di tutela della sicurezza della società. In questa ottica si è voluto dare risalto anche alle esigenza di tutela delle persone offese, che potrebbero essere lese da una esecuzione domiciliare delle pene detentive.
Altre modifiche significative attengono alle modalità di controllo che il giudice della cognizione non può (come previsto nel testo originario) ma deve prevedere. Inoltre si è previsto che i mezzi elettronici o altri strumenti tecnici (in primo luogo, i cosiddetti braccialetti) siano uno degli strumenti di controllo ma non gli unici. Ciò consente di svincolare la riforma dalla questione dei braccialetti elettronici che oltre ad avere un costo notevole potrebbero non garantire i risultati di sicurezza sperati.
Si è poi intervenuti sulla parte relativa al luogo ove può essere espiata la detenzione, riproducendo la formulazione della già citata legge n. 26 novembre 2010, n. 199, che sul punto sembrava più completa rispetto al testo originario del disegno di legge, che si limitava all'abitazione o un altro luogo di privata dimora, escludendo di fatto dalla applicazione del nuovo istituto tutti coloro che non disponessero di tali luoghi. In luogo della dimora sono stati previsti i luoghi pubblici o privati di cura, assistenza e accoglienza.
È infine evidente che le nuove pene previste, evitando il carcere a chi del carcere non ne abbia bisogno per finalità retributive ed educative, sono dirette anche ad ovviare, sia pure solo in parte, alla drammaticità del problema del sovraffollamento carcerario di cui soffre il nostro sistema penitenziario.
Gli articoli da 2 a 6 hanno per oggetto il nuovo istituto della messa alla prova. Scopo della nuova disciplina - ispirata alla nota probation di origine anglosassone - è quello di estendere il citato istituto, tipico del processo minorile, anche al processo penale per adulti in relazione a reati di minor gravità. Come si spiega nella relazione illustrativa., l'istituto «offre ai condannati per reati di minore allarme sociale un percorso di reinserimento alternativo e, al contempo, svolge una funzione deflattiva dei procedimenti penali in quanto è previsto che l'esito positivo della messa alla prova estingua il reato con sentenza pronunciata dal giudice».
Si tratta, come nel processo minorile, di una probation giudiziale che non presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna.
Anche in questo caso si è cercato di coniugare due diverse esigenze: quelle rieducative della persona che potrebbe aver commesso un reato e quelle di sicurezza della società, che non può tollerare che non si svolgano processi quando questi potrebbero concludersi con condanne necessarie sotto i diversi profili che la pena deve avere secondo la costituzione. Questo bilanciamento di interessi presuppone che anche in questo caso non vi debba essere alcuna automaticità nell’applicazione dell’istituto, ma vi debba essere un controllo da parte del giudice della pericolosità del soggetto che potrebbe comportare la revoca della sospensione quando questa pericolosità dovesse emergere nel corso della probation.
Vorrei ricordare che la messa alla prova di maggiorenni è stata più volte presa in considerazione sia dal Parlamento che da commissioni ministeriali di studio, i cui lavori sono serviti come spunto per alcune soluzioni adottate nel testo. Mi riferisco alle Commissioni presiedute da Grosso, Pisapia e Nordio.
Per quanto attiene alla nuova disciplina si è preferito trasformarla da delega in normativa direttamente precettiva.
Mentre nel processo minorile, la messa alla prova è disposta dal giudice, sentite le parti, qui l'applicazione dell'istituto è richiesta dall'imputato.
In particolare, si introduce nel codice penale l'articolo 168-bis, volto a prevedere in via generale l'istituto della sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato. In tale articolo si stabilisce che nei procedimenti per reati puniti con la sola pena edittale pecuniaria o con pena edittale detentiva non superiore nel massimo a quattro anni, sola, congiunta o alternativa alla pena pecuniaria, l'imputato può chiedere la sospensione del processo con messa alla prova.
E’ poi disciplinato il contenuto dell'istituto, prevedendo che la messa alla prova comporta la prestazione di un lavoro di pubblica utilità nonché condotte volte all'eliminazione delle conseguenze dannose derivanti dal reato. Può inoltre comportare l’osservanza di prescrizioni relative ai rapporti con il servizio sociale o con una struttura sanitaria, alla dimora, alla libertà di movimento, al divieto di frequentare determinati locali. È quindi evidente che la messa alla prova può consentire quella realizzazione delle finalità rieducative e riparatorie che la pena non sempre riesce a garantire.
Si prevede poi in cosa debba consistere il lavoro di pubblica utilità, affermando che questa si traduce in una prestazione non retribuita, di durata non inferiore a trenta giorni, anche non continuativi, in favore della collettività, da svolgere presso lo Stato, le regioni, le province, i comuni o presso enti od organizzazioni non lucrative di utilità sociale (le ONLUS). La prestazione è svolta con modalità che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute dell'imputato e la sua durata giornaliera non può superare le otto ore.
Si prevede, affinché l'istituto non sia strumentalizzato, che la sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato non possa essere concessa più di due volte né più di una volta se si tratta di reato della stessa indole. Inoltre si prevede che non possa essere concesso ad una serie di categorie di soggetti pericolosi quali i delinquenti e contravventori abituali o per professione ed i delinquenti per tendenza.
All’articolo 168-ter del codice penale sono disciplinati gli effetti della sospensione del procedimento con messa alla prova, prevedendo che durante il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il corso della prescrizione del reato è sospeso e che si applica l’articolo 161 del codice penale, relativo alla disciplina della sospensione e dell'interruzione della prescrizione.
Si prevede che l'esito positivo della prova estingue il reato per cui si procede senza pregiudicare l'applicazione delle sanzioni amministrative accessorie, ove previste dalla legge. Sempre con la finalità di evitare facili strumentalizzazioni dell'istituto, si stabilisce la revoca della sospensione del procedimento con messa alla prova in caso di grave o reiterata trasgressione al programma di trattamento o alle prescrizioni
Ai fini della revoca il giudice dovrebbe fissare apposita udienza per la valutazione dandone avviso alle parti e alla persona offesa almeno dieci giorni prima dell'udienza.
Un principio fondamentale è quello secondo cui in caso di revoca ovvero di esito negativo della prova, l'istanza di sospensione del processo con messa alla prova dell'imputato non può essere riproposta. Il fatto che il destinatario della sospensione abbia subito la revoca della medesima è un fatto che di per sé dimostra, anche per il futuro, di non essere un soggetto meritevole di misure che comunque rappresentano un beneficio.
Nel codice di procedura penale sono che norme che disciplinano le modalità di applicazione dell'istituto. In primo luogo si prevede all'articolo 464-bis che nei casi previsti dall'articolo 168-bis del codice penale l'imputato può formulare richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova.
La richiesta deve essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422 o fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado nel giudizio direttissimo e nel procedimento di citazione diretta a giudizio. Se è stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta dovrebbe essere formulata entro il termine e con le forme stabiliti dall'articolo 458, comma 1. Nel procedimento per decreto la richiesta deve essere presentata con l'atto di opposizione. La volontà dell'imputato deve essere espressa personalmente o per mezzo di procuratore speciale e la sottoscrizione è autenticata nelle forme previste dall'articolo 583, comma 3.
È estremamente importante il ruolo da affidare all'Ufficio di esecuzione penale esterna affinché possa essere assicurata una efficace applicazione dell'istituto. Si stabilisce che all'istanza dell'imputato sia allegato un programma di trattamento elaborato d'intesa con l'Ufficio di esecuzione penale esterna. Tale allegato deve prevedere necessariamente: le modalità di coinvolgimento dell'imputato, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario; le prescrizioni attinenti al lavoro di pubblica utilità, nonché quelle comportamentali e gli altri impegni specifici che l'imputato assume anche al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato. A tale fine vengono considerati il risarcimento del danno, le condotte riparatorie e le restituzioni. Nei procedimenti relativi a reati previsti dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, nonché a reati previsti dalla normativa vigente in materia di circolazione stradale e di prevenzione degli infortuni e di igiene sul lavoro, tale indicazione è richiesta a pena di inammissibilità dell'istanza.
Al fine di decidere sulla concessione, nonché ai fini della determinazione degli obblighi e delle prescrizioni cui eventualmente subordinarla, il giudice potrebbe acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le ulteriori informazioni ritenute necessarie in relazione alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato. Tali informazioni devono essere portate tempestivamente a conoscenza del pubblico ministero e del difensore dell'imputato.
E’ poi disciplinata l'ipotesi di richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova nel corso delle indagini preliminari, prevedendo che il giudice, se è presentata una richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova, trasmette gli atti al pubblico ministero per esprimere il consenso o il dissenso nel termine di cinque giorni.. Il consenso del pubblico ministero deve risultare da atto scritto unitamente alla formulazione della imputazione. Il pubblico ministero in caso di dissenso deve enunciarne le ragioni. In tal caso l'imputato dovrebbe poter rinnovare la richiesta prima dell'apertura del dibattimento di primo grado.
E’ stato poi necessario disciplinare il provvedimento del giudice e gli effetti della pronuncia, prevedendo che il giudice, se non deve pronunciare sentenza di proscioglimento a norma dell'articolo 129, decide con ordinanza nel corso della stessa udienza, sentite le parti nonché la persona offesa, oppure in apposita udienza in camera di consiglio, della cui fissazione è dato contestuale avviso alle parti e alla persona offesa. Si dovrebbe prevedere che il giudice, se ritiene opportuno verificare la volontarietà della richiesta, possa disporre la comparizione dell'imputato. Si prevede l’applicazione dell’articolo 127.
La sospensione del procedimento con messa alla prova deve essere disposta quando il giudice reputa idoneo il programma di trattamento presentato e ritenga che l'imputato si asterrà dal commettere ulteriori reati.
Il giudice potrebbe integrare il programma di trattamento mediante la previsione di ulteriori obblighi e prescrizioni volti a elidere o ad attenuare le conseguenze dannose o pericolose del reato, nonché, ove lo ritenga necessario, obblighi o prescrizioni di sostegno volti a favorire il reinserimento sociale dell'imputato. Si precisa che le ulteriori prestazioni non possano essere disposte senza il consenso dell'imputato.
Sono stati poi fissati i limiti al periodo di sospensione prevedendo che il procedimento non può essere sospeso per un periodo: superiore a due anni quando si procede per reati per i quali è prevista una pena detentiva, sola o congiunta con la pena pecuniaria; superiore a un anno quando si procede per reati per i quali è prevista la sola pena pecuniaria.
Contro l'ordinanza che decide sull'istanza di messa alla prova devono poter ricorrere per cassazione l'imputato e il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa.
Si è poi disciplinata l'esecuzione dell'ordinanza di sospensione del procedimento prevedendo che il giudice debba stabilire il termine entro il quale le prescrizioni e gli obblighi imposti devono essere adempiuti. Tale termine dovrebbe poter essere prorogato, su istanza dell'imputato, non più di una volta e solo quando ricorrono gravi e comprovati motivi. Il giudice potrebbe altresì, con il consenso della persona offesa, autorizzare il pagamento rateale delle somme eventualmente dovute a titolo di risarcimento del danno. Durante la sospensione del procedimento il giudice, con il consenso dell'imputato e sentito il pubblico ministero, può modificare con ordinanza le prescrizioni originarie, ferma restando la congruità delle nuove prescrizioni rispetto alle finalità della messa alla prova.
Si prevede che durante la sospensione del procedimento il giudice, con le modalità stabilite per il dibattimento, acquisisce, a richiesta di parte, le prove non rinviabili ed eventualmente quelle che possono condurre al proscioglimento dell'imputato.
Decorso il periodo di sospensione del procedimento con messa alla prova il giudice dovrà dichiarare con sentenza estinto il reato se, tenuto conto del comportamento dell'imputato, riterrà che la prova abbia avuto esito positivo. A tale fine dovrà essere acquisita la relazione conclusiva dell'Ufficio di esecuzione penale esterna che aveva preso in carico l'imputato.
In caso di esito negativo della prova, il giudice dispone con ordinanza che il processo riprenda il suo corso. Le informazioni acquisite ai fini e durante il procedimento di messa alla prova non dovranno essere considerate utilizzabili.
Si è disciplinato il computo del periodo di messa alla prova dell'imputato in caso di revoca o di esito negativo della messa alla prova, prevedendo che il pubblico ministero, nel determinare la pena da eseguire, debba detrarre un periodo corrispondente a quello della prova eseguita. Ai fini della detrazione, dieci giorni di prova dovrebbero essere equiparati a un giorno di reclusione o di arresto, ovvero a euro 75 di multa o di ammenda.
L’articolo 464-octies disciplina la revoca dell'ordinanza di sospensione del procedimento con messa alla prova prevedendo che sia disposta anche d'ufficio dal giudice con ordinanza.
Con un apposito articolo nelle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, sono di disciplinate le attività dei servizi sociali nei confronti degli adulti ammessi alla prova. In tale norma si stabilisce che le funzioni dei servizi sociali per la messa alla prova, disposta ai sensi dell'articolo 168-bis del codice penale, sono svolte dagli uffici locali dell'esecuzione penale esterna del Ministero della giustizia, nei modi e con i compiti previsti dall'articolo 72 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. A tali fini l'imputato dovrebbe rivolgere richiesta all'ufficio di esecuzione penale esterna competente affinché predisponga un programma di trattamento. L'imputato depositerebbe gli atti rilevanti del procedimento penale nonché le osservazioni e le proposte che ritenga di fare. L'ufficio, all'esito di un'apposita indagine socio-familiare, dovrà verificare l'utilità e la praticabilità del programma di trattamento proposto dall'imputato integrandolo o rettificandolo, acquisendo su tale programma il consenso dell'imputato. L'ufficio trasmetterà quindi al giudice il programma, accompagnandolo con l'indagine socio-familiare e con le considerazioni che lo sostengono. Nell'indagine e nelle considerazioni, l'ufficio dovrebbe riferire specificamente sulle possibilità economiche dell'imputato, sulla capacità e sulla possibilità di svolgere attività riparatorie nonché, ove possibile, sulla possibilità di conciliazione con la persona offesa. Il programma deve essere integrato da prescrizioni di trattamento e di controllo che risultino utili, scelte tra quelle previste dall'articolo 47 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni.
Quando sia disposta la sospensione del procedimento con messa alla prova dell'imputato, l'ufficio dovrà informare il giudice, con la cadenza stabilita nel provvedimento di ammissione e comunque non superiore a tre mesi, dell'attività svolta e del comportamento dell'imputato, proponendo, ove necessario, modifiche al programma di trattamento, eventuali abbreviazioni di esso ovvero, in caso di grave o reiterata trasgressione, la revoca del provvedimento di sospensione. Alla scadenza del periodo di prova, l'ufficio dovrebbe trasmettere al giudice che procede una relazione dettagliata sul decorso e sull'esito della prova medesima. Le relazioni periodiche e quella finale dell'Ufficio dell'Esecuzione penale dovrebbero essere depositate in cancelleria non meno di dieci giorni prima dell'udienza di cui all'articolo 464-septies con facoltà per le parti di prenderne visione ed estrarne copia.
L’articolo 5 del testo prevede che l’ordinanza che dispone la sospensione del procedimento con messa alla prova sia riportata nel casellario giudiziario affinché ne resti traccia in vista di eventuali successive richieste di applicazione dell’istituto per fatti diversi.
Strettamente connesso al rafforzamento dei compiti degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, si prevede all’articolo 6 che entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge, il Ministro della giustizia riferisce alle competenti Commissioni parlamentari in merito alle necessità di adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia, in relazione alle esigenze di attuazione delle disposizioni in materia di messa alla prova.
Gli articoli da 7 a 13 hanno per oggetto la sospensione del processo nei confronti degli irreperibili. Anche in questo caso la Commissione ha sostituito la delega con una disciplina direttamente precettiva volta a riformare la materia della contumacia, cancellando tale istituto. Della ratio delle disposizioni in esame si è già detto facendo riferimento alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Il problema principale è stato quello di definire i casi di sospensione, quando non si riesca a reperire l’imputato, e correlativamente i casi in cui si possa procedere anche in assenza dell’imputato, poiché si è ragionevolmente certi che questi sia a conoscenza del fatto che si sta procedendo. Ma quando si può essere certi di una tale conoscenza? E quando si può essere disposti a sospendere il processo, poiché si reputa o si teme che manchi tale conoscenza?
In linea di massima, l’unico modo per essere davvero certi che l’imputato sia a conoscenza del processo dovrebbe essere la notifica dell’avviso di udienza a mani dell’imputato (salve situazioni straordinarie ed imprevedibili in cui la certezza risulti aliunde). In tutte le altre ipotesi, a partire dalla notifica dell’avviso al convivente, tale certezza non si può dare. L’imputato potrebbe anche essere al corrente che vi è un procedimento aperto nei suoi confronti, ma essere ignaro della celebrazione del processo .
Tenendo conto anche delle audizioni svolte in materia dalla Commissione nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame dei progetti di legge abbinati, la disciplina della contumacia si dovrebbe articolare essenzialmente attorno a tre ipotesi: conoscenza certa dell'udienza del processo (udienza preliminare o udienza dibattimentale); conoscenza presunta dell'udienza per conoscenza certa del procedimento, non conoscenza dell'udienza e del procedimento. A queste tre ipotesi dovrebbero poi corrispondere tre situazioni: a) processo in assenza; b) processo in assenza, ma con rimedi ripristinatori per l'imputato che dimostri la incolpevole mancata conoscenza della celebrazione del processo; c) sospensione del processo. In caso di conoscenza certa da parte dell'imputato della celebrazione del processo (per avere ricevuto a mani la notifica dell'avviso di udienza o per altri indici da cui si evinca «con certezza» tale conoscenza), il processo proseguirebbe in assenza dell'imputato che è rappresentato dal difensore. In caso di conoscenza presunta del processo per conoscenza certa del procedimento (per avere eletto domicilio, essere stato arrestato o fermato, o per avere nominato un difensore di fiducia), il processo proseguirebbe in assenza dell'imputato, ammettendo questo a provare di non avere avuto conoscenza della celebrazione del processo (pur avendo avuto conoscenza del procedimento) e in tal caso all'imputato viene comunque garantito il diritto ad un giudizio di primo o di secondo grado (con eventuale rimessione in termini per la richiesta di riti speciali consensuali, se la mancata conoscenza dell'avviso di udienza era riferibile anche all'udienza preliminare). Qualora sia stata pronunciata condanna passata in giudicato, il giudicato potrebbe essere rescisso e il processo riprendere col dibattimento di primo grado.
In caso di incertezza sulla conoscenza da parte dell'imputato del procedimento si prevede la sospensione del processo. In caso di sospensione, il giudice dovrebbe disporre nuove ricerche almeno allo scadere di ogni anno. La sospensione sospenderebbe il corso della prescrizione, ma non potrebbe protrarsi per un periodo superiore ai termini massimi di prescrizione, decorsi i quali riprenderebbe a decorrere il termine di prescrizione. Si devono poi prevedere rimedi ripristinatori nel caso di processo svolto in assenza, ove si dimostri la incolpevole mancata conoscenza. In questi casi se l'imputato compare nel corso dell'udienza preliminare l'udienza dovrebbe essere rinviata e nel caso (infrequente) in cui siano state assunte prove (con incidente probatorio o prove ex articolo 422 che si siano poi rivelate all'atto dell'assunzione sfavorevoli all'imputato) avrebbe diritto alla rinnovazione delle prove assunte in udienza preliminare e comunque all'acquisizione di prove. Se l'imputato si presenta all'inizio del dibattimento, essendo stato assente nel corso dell'udienza preliminare, deve poter rendere dichiarazioni spontanee ed essere riammesso nel termine per richiedere i riti speciali consensuali. Se l'imputato compare nel corso del dibattimento, si deve rinviare l'udienza, l'imputato essere riammesso nel termine per richiedere i riti speciali e può chiedere l'acquisizione di prove rilevanti e la riassunzione delle prove già assunte, ferma restando la validità degli atti (prove incluse) già compiuti. Se l'imputato viene a conoscenza di una sentenza di condanna in primo grado deve poter presentare appello, chiedendo l'annullamento della sentenza e la trasmissione degli atti al giudice di primo grado (anche in questo caso è rimesso in termini per presentare richiesta di riti speciali). Se l'imputato viene a conoscenza di una condanna in appello, deve poter presentare ricorso per cassazione per l'annullamento della sentenza con trasmissione degli atti al giudice di primo grado. Se l'imputato viene a conoscenza di una condanna passata in giudicato, deve poter chiedere alla Corte di cassazione la rescissione del giudicato (un istituto in cui si potranno poi innestare anche per i casi di processo dichiarato ingiusto dalla Corte europea dei diritti umani) e la ripartenza del processo dal giudizio di primo grado.
Per quanto attiene ai pareri espressi dal Comitato per la legislazione e dalle Commissioni competenti ci si è limitati ad accogliere i rilievi del Comitato relativamente all’esigenza di prevedere che i decreti correttivi in materia di pene detentive non carcerarie debbano rispettare i principi e criteri direttivi relativi alla delega principale. Per il resto le indicazioni delle altre Commissioni non sono state ritenute rilevanti.
In merito all’utilizzo del termine rescissione del giudicato utilizzato nel nuovo articolo 652-ter, si rileva che in realtà, al contrario di quanto indicato nel parere del Comitato, non si tratta di una indebita traslazione nell’ambito penale di una nozione civilistica, considerato che in dottrina viene utilizzato per individuare un effetto diretto a togliere efficacia al giudicato per ragioni sopravvenute. Qualora comunque si ritenesse di non utilizzare il termine della rescissione, si potrebbe utilizzare quello di revoca del giudicato.
Con riferimento ai rilievi della I Commissione non si è ritenuto che contrasti con il principio di uguaglianza il principio e criterio direttivo di delega secondo cui nella fase di esecuzione della pena il giudice può sostituire la pena detentiva non carceraria con quella carceraria qualora non risulti disponibile un luogo diverso dal carcere idoneo ad assicurare la custodia del condannato, ritenendo che l’ordinamento già conosca situazioni del genere senza che ciò abbia determinato alcuna censura di costituzionalità. In ordine alla eventuale violazione dell’articolo 36 della Costituzione a causa della mancata retribuzione del lavoro di pubblica utilità, si ricorda che l'istituto della messa alla prova è in realtà un affidamento in prova processuale, una misura alternativa ,anticipata (rispetto alla sentenza di condanna ) su base volontaria - così come il patteggiamento , dal cui buon esito -l'imputato ricava il beneficio dell'estinzione del reato. Si tratta di un istituto al quale non può essere applicata la disciplina lavoristica e tantomeno l’art. 36 della Costituzione ma si deve inquadrare nell'art. 27 della cost.
Vi è un in sostanza accertamento affievolito di responsabilità (il giudice deve comunque escludere la sussistenza di cause evidenti di proscioglimento) compensato dalla richiesta volontaria e dal beneficio dell'estinzione del reato. A tale proposito si ricorda che quando viene revocato il beneficio, in ogni caso il lavoro di pubblica utilità viene convertito, calcolato e detratto dalla pena che verrà comminata.
L'altra osservazione che non è stata accolta ma che potrebbe essere valutata ai fini dell’esame in Assemblea riguarda l’opportunità di fare riferimento al nucleo familiare ed in particolare al suo ruolo ed alla sua pulsione per quanto attiene la definzione del programma di trattamento. Si potrebbe in particolare meglio specificare tale nozione in relazione alle specifiche ipotesi delittuose oggetto di messa alla prova, fino addirittura ad escluderla in riferimento a determinati reati.
Meritevole di attenzione è l’osservazione della Commissione affari sociali con la quale si chiede alla Commissione di merito di valutare l’opportunità di prevedere all'articolo 6 che il Ministro della giustizia non si limiti a svolgere un'attività di monitoraggio ma che indichi strumenti, risorse e tempi certi in relazione all'adeguamento numerico e professionale della pianta organica degli uffici di esecuzione penale esterna del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia.
In questo caso il vero problema è rinvenire la copertura economico-finanziaria.
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