L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

lunedì 16 aprile 2012

Giustizia: Lisiapp; più poteri alla Polizia penitenziaria, bene proposta capo Dap

Asca, 15 aprile 2012

“La Polizia penitenziaria potrebbe assumere un ruolo di custodia e vigilanza anche per i condannati che scontano la loro pena con misure alternative al carcere”.

È quanto affermato dal capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, in merito al ruolo della Polizia penitenziaria rispetto alle nuove misure alternative al carcere proposte dal Governo.

Anche in questi casi, ha sottolineato Tamburino, “ci sono esigenze di controllo e vigilanza e bisogna valutare se questo compito potrebbe essere svolto dalla Polizia penitenziaria o dalle forze di polizia sul territorio.
A ciò interviene Mirko Manna segretario Generale del Libero Sindacato appartenenti polizia penitenziaria (Lisiapp), che sottolinea come da tempo non si vedeva un intervento in favore del Corpo o quanto meno una condivisione delle problematiche che affliggono i poliziotti penitenziari a cominciare dalla proposta avanzata dal capo Dap fino ad arrivare a riconoscere gli episodi di suicidi come riconducibili ad una serio disagio che il personale vive sulla propria pelle.
È un piccolo segnale - continua il leader Lisiapp, quello del presidente Tamburino, purtroppo siamo davanti ad un ventennio dalla riforma di smilitarizzazione del 1991’ che il Corpo attende una vera ristrutturazione intesa come istituzione del dipartimento della Polizia penitenziaria e un capo della Polizia penitenziaria proveniente dai ranghi del Corpo come accade per altre forze di polizia. Piccoli passi - conclude Manna - sono stati fatti in questi anni , ma ciò non basta, ci vuole come denunciamo da anni una vera ed esclusiva posizione di merito sulle problematiche di tutte le donne e uomini della Polizia penitenziaria

Giustizia: la crisi del carcere, tra burocrati e magistrati

Massimo Di Rienzo (Direttore Casa Circondariale di Lanciano)

Il Manifesto, 15 aprile 2012

Per risolvere la crisi del sistema penitenziario c’è bisogno di una classe dirigente diversa dall’attuale coabitazione tra alti burocrati, appagati dallo status raggiunto, e magistrati a tempo.

Ad affrontare la grave crisi del sistema penitenziario, notoriamente ormai caratterizzata dai problemi del sovraffollamento e della carenza delle risorse, umane e finanziarie, è chiamata una dirigenza penitenziaria ancora in via di formazione, dopo la riforma del 2005.
Segnata da un percorso storico travagliato, oscillante fra spinte politico-legislative spesso di segno opposto, essa da circa sette anni nella gestione corrente viene assimilata, o meglio equiparata, ora a quello ora a questo riferimento professionale, limitata e tenuta sotto tutela dalla presenza costante, sebbene temporanea per i singoli interessati, di magistrati nei ruoli fondamentali dell’amministrazione.
La permanenza dei magistrati all’interno dell’ organizzazione amministrativa in generale, ed in particolare in quella della giustizia, ha una lunga storia. Tuttavia intorno alla metà degli anni novanta, per chi viveva dal di dentro la cosa penitenziaria, era evidente che una sorta di tacito patto finiva per legare gli alti dirigenti ed i magistrati insediati nei gangli centrali dell’apparato carcerario. Ai primi, dopo le prime nomine e fino al 2011 selezionati con modalità che lasciavano progressivamente sempre meno spazio al merito ed alla competenza a vantaggio di patrocini politici e di potere, veniva riservata la gestione dei provveditorati regionali, oltre alla conduzione di alcune direzioni generali e dell’Istituto superiore di studi penitenziari. I secondi, provenienti quasi esclusivamente da esperienze nelle Procure, progressivamente rafforzavano le proprie posizioni a livello centrale ampliando maggiormente la loro sfera di influenza con l’occupazione di posti ulteriori rispetto ai limiti dettati dalla legge, che circoscrive le loro competenze a quelle riconducibili a solo due delle cinque direzioni generali.
La coabitazione fra alti burocrati e magistrati nei posti di comando dell’Amministrazione penitenziaria finiva per svilire e relegare in secondo piano le problematiche che caratterizzavano le entità territoriali, gli istituti e gli uffici di esecuzione penale esterna; realtà che, invece, rivestendo un ruolo centrale nella concreta applicazione dell’esecuzione penale, avrebbero meritato ben altre attenzioni. Uno sguardo d’insieme a quella che è stata nell’ultimo scorcio la distribuzione del personale dirigente sul territorio rileva situazioni di estrema instabilità: istituti ed uffici locali lasciati per anni privi di direttori titolari, anche a causa di un mancato turn over, cui fa da contrappunto l’ ingolfamento di funzionari dirigenti presso sia gli uffici centrali che le articolazioni regionali, con relativo svilimento e deprezzamento delle funzioni ivi svolte. Rappresentazione inquietante, che si sarebbe ancora maggiormente consolidata se si fosse realizzato il più recente proposito di redistribuzione delle risorse professionali dirigenziali, risalente a circa un anno addietro, che invece ha trovato una decisa opposizione e, allo stato, non se ne conosce il destino.
La presenza, quindi, ai livelli di alta responsabilità dell’Amministrazione penitenziaria, da un lato di burocrati ormai appagati dello status raggiunto, e quindi generalmente poco inclini all’esercizio di capacità critiche e di stimolo nei confronti dei referenti decisionali della politica carceraria; dall’altro di magistrati prestati a tempo determinato alla vita amministrativa (la norma prevede una permanenza massima di cinque anni, molto spesso prorogata fino a dieci) sta rallentando la costruzione di un ceto dirigente all’altezza dei compiti, onerosi e problematici, che i tempi richiedono.
Il mantenimento delle posizioni di potere accennate non è estraneo allo stesso ritardo che si registra nella ripresa delle trattative per giungere alla conclusione del primo contratto di categoria: è palmare la tiepidezza che l’ Amministrazione centrale fino ad oggi mostra nella vicenda. Ancora una volta si rileva come il problema cruciale risieda nella formazione dell’assetto in cui si sviluppano i processi di formazione della volontà dell’apparato di vertice, che fanno capo a soggetti per un verso scarsamente motivati, per l’altro carenti nel fondamentale rapporto di immedesimazione organica con l’ente cui sono temporaneamente distaccati.
Altre considerazioni, non proprio di confine, si pongono ancora sulla presenza di componenti di un ordine diverso nella segmentazione amministrativa. Senza scomodare principi di ordine costituzionale, senza cioè invocare la mai troppo celebrata tripartizione dei poteri alla base dello stato di diritto, non può non rilevarsi quanto la confusione fra matrici culturali, e relative vocazioni professionali, proiettate a finalità di diversa valenza istituzionale, finisca per ingenerare mescolanze perniciose. Quando, per esempio, a capo di un ufficio ispettivo e di controllo viene posto un - peraltro valente - magistrato che per diversi anni ha svolto le funzioni di Pubblico Ministero, è di tutta evidenza come le regole della vita amministrativa vengano inevitabilmente alterate. Per non dire di quanto sia forte la tentazione di ritenere che sia stato disposto un commissariamento di fatto di quell’ ufficio, quando si constata che a capo della Direzione generale dei beni patrimoniali viene posto un magistrato, già anch’egli Pubblico Ministero di indubbio valore e cacciatore di mafiosi. È quindi evidente come in casi del genere venga snaturata la finalità istituzionale cui gli uffici in questione sono preposti, per assumerne altre, di intuibile, ma taciuto, significato. Ecco come allora la stessa tripartizione dei poteri, che non si vorrebbe scomodare in tale corpore vili, finisca inevitabilmente per ridondare e per rilevarsi la sua inosservanza un pericoloso intralcio alla trasparenza dell’azione amministrativa, segmento non proprio trascurabile, della stessa vita democratica.
Un ulteriore problema si pone nella comprensione di tale caleidoscopio, quando si rilevano ben tre diverse specie nella dirigenza penitenziaria, ( per le specifiche contrattuali se ne potrebbero contare quattro) ciascuna portatrice di un suo background culturale. Quando cioè, nel giro di qualche anno, anche la Polizia Penitenziaria enumererà suoi componenti fra le leve dirigenziali, l’Amministrazione sarà dotata di almeno tre ranghi diversi di funzionari dirigenti. Si badi, non si tratta semplicemente di ruoli distinti che si dipartono dal medesimo ceppo.
La situazione è ben più complicata. Sono infatti almeno tre i filoni di diversa origine e matrice, con tutto ciò che ne può conseguire in termini di disomogeneità nel significante degli interventi. La provenienza culturale, formativa e professionale infatti spazierà da quella della magistratura ( ordinaria ) a quella dei dirigenti penitenziari, (comprendendovi anche quelli di competenza pedagogica e contabile) a quella di un Corpo di polizia; con una aggiunta di eterogeneità di ben quattro regimi contrattuali - che vuol dire trattamento economico e status giuridico, e cioè: diritti, doveri, interessi, oneri, aspettative, progressioni - diversamente individuati e regolamentati.
Una dinamica virtuale fra queste quattro specie potrebbe risolversi positivamente a vantaggio di un arricchimento della vita amministrativa, con la presenza imprescindibile di una regia autorevole che sappia far convergere le differenze verso l’ univocità del mandato istituzionale. Ma il compito è arduo ed irto di difficoltà.
Un quadro invece appena men che ottimale, caratterizzato semmai da debolezze in fatto di volontà di indirizzo o da scarsa chiarezza nelle finalità da perseguire, semmai con una leadership che non eccella in carisma e capacità risolutive, potrebbe invece contribuire a determinare un panorama di disorganicità, con incertezze ed incoerenze sia nella individuazione che nel perseguimento degli obiettivi.
Certamente la semplificazione della complessità delineata, al fine di rendere meno arduo il perseguimento degli intenti definiti in sede politica, richiede come obiettivo immediato la riduzione delle distanze fra le matrici di provenienza, almeno attraverso significativi momenti formativi comuni dei ranghi. Tempi diversi, ma non eludibili per chi si fosse dato una visione alta della funzione penitenziaria, richiede la costruzione di un ceto dirigente compatto ed unitario: attraverso un percorso in cui non solo il substrato di valori condivisi, ma pure una comune, agita e penetrante conoscenza degli strumenti attuativi dell’esecuzione penale, così come modellata dalla norma, facciano da imprescindibile tessuto connettivo.

Tamburino(Capo Dap) : serve un patto di responsabilità con i detenuti

ansa- 12.4.2012


"Un patto di responsabilità tra i detenuti e l'amministrazione, che da un lato assicuri ai detenuti dei vantaggi e che dall'altro comporti un'assunzione di responsabilità rispetto all'osservanza delle regole, utile ad abituare il detenuto al ritorno alla società".
È questa la ricetta del capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, per la gestione delle carceri italiane. Occorre un sistema "diverso da come è adesso", ha affermato Tamburino, che non si basi tanto "sul controllo che in qualche modo blocchi il detenuto, ma che dia ragionevole fiducia, sempre nella massima prudenza, che occorre a tutela delle condizioni di sicurezza".
A tal proposito, intervenendo alla Scuola di perfezionamento per le forze di polizia a Roma, Tamburino ha portato ad esempio i sistemi adottati in Spagna e Germania: "possono essere una linea, percorsi per realizzare una sicurezza dinamica". E nel costruirli, ha concluso, "possiamo anche commettere errori, anche perché l'errore misurato aiuta ed è necessario per fare passi avanti".

Polizia penitenziaria anche per misure alternative

"La Polizia penitenziaria potrebbe assumere un ruolo di custodia e vigilanza anche per i condannati che scontano la loro pena con misure alternative al carcere".
Così il capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, in merito al ruolo della Polizia penitenziaria rispetto alle nuove misure alternative al carcere proposte dal Governo. Anche in questi casi, ha sottolineato Tamburino, "ci sono esigenze di controllo e vigilanza e bisogna valutare se questo compito potrebbe essere svolto dalla Polizia penitenziaria o dalle forze di polizia sul territorio. Bisogna valutare se tutto ciò che riguarda l'esecuzione della pena potrebbe essere affidato alla Polizia penitenziaria. Ciò richiederebbe una ristrutturazione". Secondo il capo del Dap questa impostazione "potrebbe avere una logica", ma bisogna evitare di fare "scelte confuse".

Il 41 bis ha dato buoni risultati contro la mafia

Il regime di detenzione secondo il 41 bis "ha dato buona prova", rivelandosi "un sistema di prevenzione rispetto al rischio di reati mafiosi. Da quando c'è, dagli anni 90, ha dato un risultato buono". Lo ha detto il capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, intervenendo alla Scuola di perfezionamento per le forze di polizia, oggi a Roma.
"Non possiamo dire che la mafia è stata sconfitta - ha aggiunto - ma un certo tipo di mafie sono state tagliate anche per merito del 41 bis". Tamburino ha quindi portato l'esempio di altri reati come "il sequestro di persona e il terrorismo, che hanno trovato sul piano carcerario un forte sostegno alla sconfitta".

Moretti (Ugl): bene Tamburino su ruolo Polizia penitenziaria

"Accogliamo con soddisfazione le indicazioni fornite dal capo del Dap in merito ad un diverso ruolo della Polizia Penitenziaria nell'esecuzione penale. Da oltre tre anni, infatti, l'Ugl chiede di modificare il sistema penitenziario, dando nuova collocazione operativa al Corpo". Così in una nota il segretario nazionale dell'Ugl Polizia Penitenziaria, Giuseppe Moretti, commenta le dichiarazioni del capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria, Giovanni Tamburino, in merito al compito di custodia e vigilanza che potrebbe avere la Polizia Penitenziaria rispetto alle nuove misure alternative al carcere proposte dal Governo. "La Polizia Penitenziaria - spiega il sindacalista - oggi svolge compiti che potrebbero essere superati dall'attuazione di un diverso sistema di gestione della detenzione, ma anche da un incremento della tecnologia nei sistemi di controllo, consentendo agli agenti di occuparsi delle misure alternative alla reclusione e, più in generale, del controllo di tutta l'esecuzione penale, sia essa interna che esterna". "Siamo consapevoli che il recupero del reo non può più essere soddisfatto da una carcerazione che ne prevede la permanenza in cella per oltre 20 ore al giorno - continua Moretti - ma una maggiore mobilità dei detenuti nelle sezioni può portare ad un aumento delle risse o di situazioni critiche. Perciò, crediamo che la modifica del sistema di gestione dei detenuti debba presupporre interventi atti anche a diminuire il carico di responsabilità che ricade, in base all'attuale normativa, sugli agenti di Polizia Penitenziaria". "I modelli come quello spagnolo o tedesco - conclude il sindacalista - possono essere una soluzione, fermo restando la necessità di ridurre i carichi di lavoro estremi che ora ricadono sul personale".