L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

domenica 22 novembre 2009

Le proposte di Antigone - Prigioni sovraffollate: cercando soluzioni

È recentissima la quindicesima Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni Penitenziarie sul tema “Prigioni sovraffollate: cercando soluzioni”. Promossa dal Consiglio d’Europa, si è tenuta a Edimburgo dal 9 all’11 settembre scorsi.
Il sovraffollamento costituisce oggi uno dei problemi principiali nei sistemi penitenziari europei in generale. Il Consiglio d’Europa, dal canto suo, ha elaborato negli anni una serie di Raccomandazioni capaci di avere tra i loro principali effetti indiretti un forte contenimento del problema. Queste Raccomandazioni, che vanno lette in un orizzonte organico e interrelato, guardano al compito basilare di codificare quei principi di rispetto dei diritti umani che i Paesi europei hanno scelto di volere a fondamento dei propri sistemi, e hanno come conseguenza di questa attenzione una riduzione dell’area penitenziaria, riduzione che acquista così un valore ben più grande di quello che avrebbe se fosse assunta quale obiettivo diretto in vista di una qualche necessità gestionale....continua

Disegno di Legge alla Camera per l' introduzione nel Codice Penale dell’affidamento ai servizi sociali come pena principale in attuazione dell’art 27.

D’iniziativa dei senatori Donatella Poretti, Marco Perduca

Onorevoli senatori: Il presente disegno di legge redatto in collaborazione con l’Associazione radicale “Il Detenuto Ignoto”, prevede l’introduzione della pena dell’affidamento al servizio sociale, da affiancarsi alle tradizionali pene principali, previste dall’art. 17 del Codice Penale (reclusione, multa, arresto, ammenda) e da irrogarsi direttamente dal giudice di cognizione con la sentenza di condanna. Tale nuova pena sarà applicata a tutti i reati oggi puniti con la reclusione non superiore ai tre anni. Tenuto conto che il 33% circa della popolazione carceraria rientra proprio in questa fascia, l’introduzione di questa pena contribuirà ad attenuare sensibilmente la gravissima situazione di sovraffollamento che caratterizza attualmente le carceri italiane. Del resto la maggioranza di questi reati, ad una attenta e attuale valutazione di politica criminale, sono da ritenersi meritevoli di applicazione di una pena non reclusiva ma riabilitativa, che sia attuale e automatica, e non una semplice modalità alternativa di esecuzione della pena detentiva futura e incerta.
Il contenuto di questa pena sarà sostanzialmente analogo a quello attualmente previsto con la misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale: un’attività di studio, di formazione professionale, di volontariato e, principalmente, lavorativa che impegni il soggetto in maniera utile per sé e per gli altri e che, soprattutto, ne favorisca la risocializzazione.
Come è noto le misure alternative alla detenzione sono state introdotte dalla legge n. 354 del 1975 sull’ordinamento penitenziario, come forme alternative di esecuzione della pena detentiva. La concessione di tali misure (affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semilibertà e liberazione anticipata) non era tuttavia automatica, infatti, in seguito alla pronuncia di condanna da parte del giudice di cognizione, il condannato doveva fare istanza al Tribunale di Sorveglianza, il quale poteva concederne l’applicazione solo in presenza di specifici requisiti quali l’entità della pena inflitta e il giudizio positivo, reso dallo stesso Tribunale, sulla personalità e sulla condotta del carcerato durante l’esecuzione della pena. Accadeva, pertanto, che il diritto all’esecuzione delle misure alternative fosse riconosciuto in un periodo successivo e, spesso ingiustificatamente, molto tempo dopo rispetto alla sentenza di condanna; addirittura in alcuni casi quando il condannato aveva già scontato tutta la pena.
Tale stato di cose è stato parzialmente modificato con le riforme introdotte dalle leggi “Gozzini” e “Simeone”, che hanno ampliato il carattere premiale dei benefici e allargato il ventaglio delle misure. In particolare, la legge Simeone n. 165 del 1998 ha modificato l’art. 656 del codice di procedura penale, il quale ora dispone che, qualora un soggetto venga condannato a una pena detentiva non superiore a tre anni, il Pubblico Ministero ne sospende l’esecuzione. Entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento di sospensione della pena, il condannato può presentare istanza volta ad ottenere la concessione di una delle misure alternative alla detenzione Se, però, il condannato non presenta l’istanza entro i 30 giorni, o se il Tribunale la rigetta o la ritiene inammissibile la pena avrà esecuzione.
Il presente disegno di legge non va a toccare l’attuale disciplina delle misure alternative, che resta pertanto invariata. Esso ha invece lo scopo di rinnovare il nostro sistema penale introducendo tra le pene principali, accanto alle tradizionali “pene detentive” e “pecuniarie”, la categoria delle “pene alternative alla detenzione”. Una nuova categoria di pene, che nel testo proposto includerà solo la pena dell’affidamento ai servizi sociali, ma che in futuro sarà suscettibile di essere allargata a nuove fattispecie. Gli scopi che questa riforma intende perseguire sono molteplici.
Innanzitutto, una più completa realizzazione del principio di rieducazione previsto dall’art. 27, comma 3, della Costituzione italiana, che nel corso degli ultimi anni ha avuto un graduale e faticoso cammino. La riforma penitenziaria del 1975 ha introdotto l’istituto dell’affidamento in prova ai servizi sociali, assieme ad altre misure alternative alla detenzione, con lo specifico scopo di privilegiare il fattore risocializzante e rieducativo della pena rispetto a quello retributivo. La sua non automatica applicazione, la discrezionalità con la quale viene disposta, nonché la manifesta subordinazione di questa, come di tutte le altre misure alternative, alle tradizionali pene detentive dimostra però – come già evidenziato dalla Corte di Cassazione e dalla Corte Costituzionale, nella sentenza 12 giugno 1985, n. 185 – che questo principio è stato solo, pur significativamente, introdotto dalla riforma penitenziaria “ma non compiutamente realizzato”. E’ proprio la nostra Corte Costituzionale che ha definito in quella sentenza l’affidamento ai servizi sociali non come una misura alternativa alla pena, bensì come “una pena essa stessa o, se si vuole, una modalità di esecuzione della pena, nel senso che viene sostituito al trattamento in istituto, il trattamento fuori dell’istituto, perché ritenuto più idoneo, sulla base dell’osservazione, al raggiungimento delle finalità di prevenzione e di emenda, proprie della pena”, in realizzazione del principio costituzionale della rieducazione contenuto nell’art. 27 comma 3 sulla base di un ulteriore principio ad esso legato, quello della cosiddetta individualizzazione della pena, che viene strutturata in rapporto con le caratteristiche personali dei soggetti destinatari. La “sostanziale identità ontologica” tra l’affidamento in prova ai servizi sociali e la detenzione carceraria è stata poi riaffermata dalla stessa Corte Costituzionale con la sentenza n. 569 del 13-22 dicembre 1989, in quanto entrambi gli istituti sono di natura afflittiva e limitativa della libertà personali, pur se in misura evidentemente diversa. L’applicazione di una pena alternativa alla detenzione quale l’affidamento al servizio sociale favorirebbe, d’altra parte, il reinserimento sociale e culturale del condannato in maniera enormemente più efficace rispetto alla reclusione, la formazione di un soggetto realmente reintegrato nella società civile che avrà minori probabilità di commettere quei reati che è stato portato a commettere non solo a causa dell’ambiente socio-culturale in cui è vissuto ma spesso, soprattutto a causa dell’ambiente sociale “criminogeno” trovato in carcere. L’efficacia di tali strumenti, che incidono concretamente sul tenore e sul modo di vita del condannato, è stato dimostrato anche dalle esperienze di ordinamenti stranieri a noi vicini. A proposito dell’idea rieducativa, inoltre, ci si dovrebbe ormai rendere conto che essa non rappresenta un’inutile utopia giacché, al contrario, quanto più il trattamento del condannato sortisce esiti positivi tanto più se ne guadagna, sul piano dell’efficacia, in termini di riduzione del tasso di recidiva, con effetto determinante non solo sul piano della prevenzione speciale ma anche, soprattutto, sul piano della prevenzione generale, a causa della consequenziale diminuzione del numero di reati.
In secondo luogo diminuire il grave sovraffollamento che caratterizza oggi il sistema carcerario italiano con tutte le conseguenze che esso comporta sulla vita e sui diritti dei detenuti, sulle condizioni di chi lavora negli istituti penitenziari, sulla sicurezza delle carceri, nonché sulla realtà della pena detentiva che – anche a causa del sovraffollamento – rischia di perdere le sue ancorché limitate finalità rieducative.
In terzo luogo superare il meccanismo “in due battute”, che attualmente caratterizza le misure alternative, con il giudice chiamato a decidere sulla colpevolezza dell’imputato che pronuncia una sentenza di condanna applicando la pena reclusiva e, solo successivamente, il magistrato di sorveglianza che applica eventualmente, se ne ricorrono i presupposti, la misura alternativa. In questa situazione le risposte da parte della magistratura di sorveglianza alle richieste di benefici, sia per la mole di lavoro da sopportare, sia per i ritardi con cui pervengono le relazioni trattamentali, non sono tempestive, incidendo pesantemente sui diritti dei detenuti. Tale situazione non è stata, infatti, completamente superata dalla legge Simeone. Se, infatti, da un lato il meccanismo di sospensione dell’esecuzione della pena fino alla pronuncia sulla concessione della misura rappresenta una forma di garanzia per il soggetto condannato, dall’altro lato, questo stesso meccanismo fa sì che, nonostante tale sospensione, la concessione della misura alternativa non sia automatica, bensì rimessa alla richiesta del condannato e subordinata, in ogni caso, al parere favorevole del Tribunale di Sorveglianza sulla condotta del condannato dopo la commissione dei reato. Lo stesso termine di 45 giorni fissato per la decisione della magistratura di sorveglianza sull’istanza di concessione della pena alternativa non è perentorio, con la conseguenza che normalmente i Tribunali di Sorveglianza impiegano molto più tempo per pronunciarsi (il tribunale di sorveglianza di Firenze, per esempio, si pronuncia dopo circa 3 mesi).
In quarto luogo superare le numerose difficoltà nella concessione della misura alternativa oggi sussistenti. Come ad esempio per soggetti senza fissa dimora, quali spesso gli immigrati. Poiché, infatti, in base a quanto dispone l’art. 656 cpp , la consegna dell’ordine di esecuzione e del decreto di sospensione della pena viene considerata da eseguirsi a mani proprie, la loro irreperibilità sospende l’esecuzione sine die e il termine di 30 giorni rimane paralizzato. Inoltre, più in generale, superare la disparità creata dalla legge Simeone tra soggetti liberi e detenuti: la procedura prevista dall’art. 656 cpp, come modificato dalla Legge Simeone, infatti, si applica esclusivamente a coloro che si trovano, nel momento dell’emissione dell’ordine di esecuzione, nello stato di libertà, quindi i soggetti detenuti che hanno diritto alla concessione della misura alternativa, continuano la detenzione fino alla eventuale pronuncia di accoglimento del tribunale. Vi è poi il comma 4 dell’art. 47 dell’ordinamento penitenziario (relativo all’affidamento in prova, ma applicabile per espresso richiamo degli art. 47-ter e 50, alla detenzione domiciliare e alla semilibertà) che prevede un’ipotesi di sospensione dell’esecuzione da parte del magistrato di sorveglianza con riferimento ai soggetti detenuti anche qui, però, non è automatica ed, anche per questo, è applicata raramente a causa dei difficili requisiti a cui è subordinata. Qui il magistrato di sorveglianza competente, cui l’istanza deve essere rivolta, può, infatti, sospendere l’esecuzione della pena e ordinare la liberazione del condannato solo quando sono offerte concrete indicazioni in ordine alla sussistenza dei presupposti per l’ammissione all’affidamento in prova, al grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione (grave pregiudizio legato non solo allo stato di salute ma anche a prospettive occupazionali, di studio o affettivo-familiari) e al fatto che non vi sia pericolo di fuga. Ciò significa che, qualora, in mancanza di tali presupposti, il magistrato rigetti la richiesta, all’interessato rimane come unica strada quella di attendere la decisione del tribunale di sorveglianza. Se anche questa sarà negativa, riprenderà l’esecuzione della pena.

In quinto luogo portare a termine il processo cominciato dal Decreto legislativo n. 274 del 2000 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace). Tale norma ha attribuito la competenza penale al giudice di pace per alcuni reati quali, ad esempio, furto punibile a querela di parte, minacce, ingiurie, diffamazioni, percosse, danneggiamenti, appropriazioni indebite e lesioni colpose, prevedendo che, per tali reati, il giudice di pace non potrà comminare pene detentive, ma solo pecuniarie (che non potranno superare i 5 milioni) o, nel caso di particolare gravità e recidiva, di sanzioni alternative quali la prestazione di attività non retribuite a favore della collettività, od altre forme di lavoro sostitutivo. La presente riforma consentirà che, non solo i reati di competenza del giudice di pace, ma tutti i reati per i quali attualmente è prevista la pena detentiva non superiore a tre anni saranno puniti con la pena dell’affidamento al servizio sociale, la quale, peraltro, dal punto di vista contenutistico, non è altro che il lavoro sostitutivo previsto dal decreto del 2000.
Si potrà, infine, recuperare l’originale funzione del Magistrato di Sorveglianza in carcere, che a causa delle misure alternative è pericolosamente mutata, da garante della legalità nel carcere a giudice terzo rispetto alla concessione o meno dei benefici penitenziari e delle misure alternative. Il lavoro giurisdizionale relativo alla concessione o meno dei benefici penitenziari e delle misure alternative, infatti, ha assorbito il Magistrato di Sorveglianza in misura tale che lo stesso non ha avuto più tempo per essere presente all’interno del carcere per contribuire alla realizzazione, anche all’interno degli istituti penitenziari, del principio di rieducazione previsto dall’art. 27, comma 3, della Costituzione, e alla trasformazione dell’attuale reclusione in carcere in una pena non solo dallo scopo meramente repressivo o di prevenzione generale speciale, ma anch’essa finalizzata al recupero sociale del condannato.
DISEGNO DI LEGGE

Art. 1
(Introduzione della pena dell’affidamento ai servizi sociali)

Al Codice Penale sono apportate le seguenti modificazioni:
- al primo comma dell’articolo 17, dopo il numero 3 è inserito il seguente: “3 bis) Affidamento ai servizi sociali;” ;
- all’articolo 18 dopo il secondo comma è aggiunto il seguente comma: “Sotto la denominazione di “pene alternative alla detenzione” la legge comprende: l’affidamento ai servizi sociali.”;
- dopo l’articolo 23 e inserito il seguente articolo:
“23 bis – Affidamento ai servizi sociali. La pena dell’affidamento ai servizi sociali si estende dai cinque giorni ai tre anni ed è scontata al di fuori degli istituti penitenziari.
La pena dell’affidamento ai servizi sociali deve essere inflitta dal giudice per tutti i reati che prevedano una pena detentiva fino ad un massimo di tre anni.
Nella sentenza di condanna all’affidamento ai servizi sociali il giudice stabilisce le prescrizioni che il soggetto dovrà seguire in ordine ai suoi rapporti con il servizio sociale, alla dimora, alla libertà di locomozione, al divieto di frequentare determinati locali ed al lavoro.
Con lo stesso provvedimento può essere disposto che durante tutto o parte del periodo di affidamento il condannato non soggiorni in uno o più Comuni, o soggiorni in un Comune determinato; in particolare sono stabilite prescrizioni che impediscano al soggetto di svolgere attività o di avere rapporti personali che possono portare al compimento di altri reati.
Il giudice stabilisce altresì che l’affidato si adoperi in quanto possibile in favore della vittima del suo reato ed adempia puntualmente agli obblighi di assistenza familiare.
Alla pena dell’affidamento ai servizi sociali si applicano i commi 8, 9 e 10 dell’art. 47, della legge 26 luglio 1975, n. 354″.

sabato 21 novembre 2009

Mozione dell'On. Bernardini sulla Situazione Carceri Italiane

Atto Camera- Mozione 1-00288
presentata da RITA BERNARDINI
giovedì 19 novembre 2009, seduta n.250

La Camera,
premesso che: il numero elevato ed in costante crescita della popolazione detenuta, che ad oggi si avvicina alle 66.000 presenze - a fronte di una capienza regolamentare di 43.074 posti e «tollerabile» di 64.111 -, produce un sovraffollamento insostenibile delle nostre strutture penitenziarie. Si tratta di una cifra record che non è stata mai registrata dai tempi dell'amnistia di Togliatti del 1946; basti pensare al fatto che il tasso di crescita dei detenuti è di poco inferiore alle 800 unità al mese, sicché si prevede che a fine anno la popolazione carceraria potrebbe sfiorare le 67.000 presenze (100,000 nel giugno del 2012). In alcune regioni il numero delle persone recluse è addirittura il doppio di quello consentito: in Emilia Romagna il tasso di affollamento è del 193 per cento in Lombardia, Sicilia, Veneto e Friuli è intorno al 160 per cento;

come riscontrato anche nel corso dell'iniziativa «Ferragosto in carcere 2009» promossa dai Radicali Italiani, alla quale hanno partecipato parlamentari nazionali ed europei, consiglieri regionali ed alcuni garanti dei diritti dei detenuti, i nostri istituti di pena stanno affrontando una fase di profonda regressione che li rende non più aderenti al dettato costituzionale e all'ordinamento penitenziario;

ciò che accade nelle nostre carceri è soltanto l'epifenomeno della ben più ampia e grave situazione in cui versa il nostro apparato giudiziario posto che, attualmente, lo stato della giustizia ha raggiunto livelli di inefficienza assolutamente intollerabili, sconosciuti in altri Paesi democratici, per i quali l'Italia, da anni ed in modo permanente, sconta quella che ai firmatari del presente atto di indirizzo appare come una situazione di illegalità tale da aver generato numerosissime condanne da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo. Per questa situazione il nostro Paese è stato richiamato all'ordine a più riprese dal Consiglio d'Europa, che proprio di recente ha riconfermato nei contenuti e nei richiami un rapporto presentato dal Commissario Gil-Robies già nel 2005, il quale sottolineava proprio la necessità di un ripristino della legalità nel sistema giudiziario italiano. Nella relazione presentata alla Camera dei deputati il 27 gennaio 2009, il Ministro della giustizia ha, tra l'altro, detto: «Quello che di impressionante vi è da sottolineare immediatamente all'attenzione di tutti voi è la mole dei procedimenti pendenti, cioè, detto in termini più diretti, dell'arretrato o meglio ancora del debito giudiziario che lo Stato ha nei confronti dei cittadini: 5 milioni 425mila i procedimenti civili, 3 milioni 262mila quelli penali» (che arrivano a 5 milioni e mezzo con i procedimenti pendenti nei confronti di ignoti). «Ma il vero dramma è che il sistema non solo non riesce a smaltire questo spaventoso arretrato, ma arranca faticosamente, senza riuscire neppure ad eliminare un numero pari ai sopravvenuti, così alimentando ulteriormente il deficit di efficienza del sistema». Dunque secondo i dati ufficiali, in Italia l'arretrato pendente sfiora la cifra iperbolica di 5 milioni e mezzo di procedimenti penali, che sarebbero molti si più se solo negli ultimi dieci anni non si fossero contate ben 2 milioni di prescrizioni (nel nostro Paese secondo i dati ufficiali forniti dal Ministero della giustizia si contano circa 200 mila procedimenti penali prescritti ogni anno). Occorre essere consapevoli che in un contesto del genere i concetti di «pena certa» e di esecuzione «reale» della stessa rischiano di risultare fortemente limitativi se non del tutto fuorvianti. In questo quadro e per queste ragioni, contro quella che, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, è un'amnistia anonima, banale, di classe ed illegale chiamata prescrizione, solo un ampio e definitivo provvedimento di amnistia e di indulto potrebbe consentire, da un lato, una sensibile riduzione della popolazione carceraria entro i limiti della capienza effettiva e regolamentare e, dall'altro, l'eliminazione di più della metà degli attuali procedimenti penali pendenti, ciò che darebbe il via a quelle riforme strutturali del sistema giudiziario e penitenziario senza le quali appaiono seriamente a rischio gli stessi diritti civili e della persona previsti dalla nostra Costituzione;

da un recente studio del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria risulta che, degli oltre 65.000 detenuti presenti nelle carceri italiane, circa la metà (il 50 per cento è costituito da persone in attesa di giudizio, e tra questi circa un 30 per cento verrà assolto all'esito del processo; un dato abnorme, un'anomalia tipicamente italiana che non trova riscontro negli altri Pesi europei; in pratica il ricorso sempre più frequente alla misura cautelare in carcere e la lunga durata dei processi costringe centinaia di migliaia di presunti innocenti a scontare lunghe pene in condizioni spesso poco disgnitose;

sulla base delle statistiche e di alcuni studi dell'amministrazione penitenziaria, la metà degli imputati che lascia il carcere vi è rimasto non più di dieci giorni, mentre circa il 35 per cento esce dopo appena 48 ore; questo pesante turnover non fa altro che alimentare l'intasamento, il sovraffollamento ed il blocco dell'intero sistema penitenziario, dissipando energie nonché risorse umane ed economiche;

quasi il 40 per cento dei 65.000 carcerati si trova recluso in cella per aver violato le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990 (testo unico sulle droghe); mentre il 27 per cento della popolazione detenuta è tossicodipendente. Secondo il sesto rapporto sulle carceri redatto dalla associazione Antigone, il numero di tossicodipendenti che annualmente transitano dalle carceri italiane (26.646 nel 2006, 24.371 nel 2007, solo per fare un esempio) è decisamente superiore a quello di coloro che transitano dalle comunità terapeutiche (17.042 nel 2006; 16.433 nel 2007), il che dimostra come l'approccio terapeutico per questo tipo di detenuti sia Stato concretamente dismesso. Quanto poi al sistema delle misure alternative per la presa in carico dei tossicodipendenti previsto dal citato testo unico sulle droghe (così come modificato dal decreto-legge n. 272 del 2005, va purtroppo segnalato come l'accesso alle stesse sia fermo a un quinto di quel che era prima dell'indulto. Al sistema penitenziario viene dunque affidata la maggiore responsabilità nel contrasto al fenomeno delle tossicodipendenze, quando è ormai noto che i tassi di recidiva per chi esce dal carcere sono estremamente elevati, assai più di quelli di chi sconta la propria pena in misura alternativa, e che il gruppo con il maggior tasso di recidiva è proprio quello dei tossicodipendenti;

al 10 novembre 2009, i detenuti stranieri reclusi negli istituti di pena risultavano essere 24.190 (pari a circa il 37 per cento del totale); gli stranieri ristretti nei nostri istituti di pena sono, nella maggioranza dei casi, esclusi dall'accesso ai benefici penitenziari per la carenza di supporti esterni (famiglia, lavoro e altro) ed il loro reinserimento sociale appare sempre più problematico a causa della condizioni di irregolarità che li riguarda;

tra quanti in Italia stanno scontando una condanna definitiva, il 32,4 per cento ha un residuo di pena inferiore ad un anno, addirittura il 64,9 per cento inferiore a tre anni, soglia che rappresenta il limite di pena per l'accesso alle misure alternative della semilibertà e dell'affidamento in prova, il che dimostra come in Italia il sistema delle misure alternative si sia sostanzialmente inceppato; ciò accade nonostante le statistiche abbiano dimostrato, oltre ogni ragionevole dubbio, che il detenuto che sconta la pena con una misura alternativa ha un tasso di recidiva molto basso (circa il 28 per cento), mentre chi sconta la pena in carcere torna a delinquere con una percentuale del 68 per cento; le misure alternative quindi abbattono i costi della detenzione, riducono la possibilità che la persona reclusa commetta nuovi reati, aumentando la sicurezza sociale, e sconfiggono il deleterio «ozio del detenuto», avviandolo a lavori socialmente utili con diretto vantaggio per l'intera comunità;

nella realtà del nostro ordinamento giuridico, la misura di sicurezza detentiva è divenuta una variante solo nominalistica della pena, riducendosi a strumento per aggirare i principi di garanzia propri delle sanzioni. La questione è diventata ancora più grave laddove si consideri che la misura di sicurezza - che, è d'uopo ricordare, non è correlata alla colpevolezza ma alla pericolosità sociale non solo si è trasformata nella sua pratica attuazione in una pena mascherata, ma è addirittura una pena a tempo indeterminato. Il rilievo va riferito, in particolar modo, alla misura di sicurezza detentiva della casa di lavoro, in quanto misura riservata agli imputabili, a differenza della casa di cura e di custodia, dell'ospedale psichiatrico giudiziario e del riformatorio giudiziario, applicabili ai non imputabili. A tal proposito, si segnalano i principali progetti di riforma del codice penale (progetto Commissione Pagliaro; progetto Commissione Grosso; progetto Commissione Nordio e in ultimo il progetto della Commissione Pisapia), tutti ugualmente concordi nel proporre l'abolizione del sistema del doppio binario, limitando l'applicazione delle misure di sicurezza ai soli soggetti non imputabili;

solo un detenuto su quattro ha la possibilità di svolgere un lavoro, spesso peraltro a stipendio dimezzato perché condiviso con un altro detenuto che altrimenti non avrebbe questa opportunità; mentre la percentuale delle persone recluse impegnate in corsi professionali è davvero irrisoria e non arriva al 10 per cento. Circa l'85 per cento dei lavoranti è alle dipendenze dell'amministrazione penitenziaria e svolge lavori di pulizia o di preparazione e distribuzione del vitto; il restante 15 per cento è costituito per la maggior parte da semiliberi che svolgono attività lavorativa in proprio o alle dipendenze di datori di lavoro esterni. Nella stragrande maggioranza dei casi, l'impossibilità di avviare a programmi di lavoro i detenuti è dovuta all'insufficienza degli educatori presenti in carcere, cioè di coloro che sono chiamati a stilare le relazioni a sostegno della concessione del lavoro esterno;

attualmente nelle carceri poco meno di 650 persone sono sottoposte al cosiddetto «carcere duro», ossia a quel regime detentivo speciale di cui all'articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975 sull'ordinamento penitenziario che è stato sensibilmente inasprito con l'approvazione della recente legge n. 94 del 2009, la quale ha definitivamente reso la detenzione speciale una modalità ordinaria e stabile di esecuzione della pena, ciò, ad avviso dei firmatari del presente atto di indirizzo, in evidente e aperto contrasto non solo con i nostri principi costituzionali che vietano qualsiasi trattamento contrario al senso di umanità e prevedono la funzione rieducativa della pena, ma anche con l'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali che vieta ogni forma di pena inumana e degradante;

a causa del sovraffollamento, un numero sempre maggiore di detenuti è costretto a scontare la condanna all'interno di istituti di pena situati a notevole distanza dalla propria regione di residenza, il che - oltre a contrastare con il principio della territorialità della pena previsto dall'ordinamento penitenziario - non consente di esercitare al meglio tutte quelle attività di sostegno e trattamento del detenuto che richiedono relazioni stabili e assidue della persona reclusa con i propri familiari e con i servizi territoriali della regione di residenza; senza considerare gli ingenti ed elevati costi, sia in termini economici che umani, che le continue e lunghe traduzioni dei detenuti, dal luogo di esecuzione della detenzione al luogo di celebrazione del processo, comportano per i bilanci dell'amministrazione penitenziaria;

in una recente occasione pubblica, il Ministro della giustizia ha dichiarato che la detenzione carceraria consiste nella privazione della libertà, ma non deve comportare anche la privazione della dignità delle persone. Dall'affermazione di questo elementare, ma fondamentale principio, che deve ispirare lo Stato di diritto in rapporto alle persone detenute, consegue la necessità di affrontare il problema del diritto all'affettività in carcere (affettività intesa in senso ampio, dalla sessualità, all'amicizia, al rapporto sessuale); un diritto all'affettività che sia, in primo luogo, diritto ad avere incontri, in condizioni di intimità, con le persone con le quali si intrattiene un rapporto di affetto;

da un recente rapporto sullo stato della sanità all'interno degli istituti di pena predisposto dalla Commissione giustizia del Senato risulta che appena il 20 per cento dei detenuti risulta sano, mentre il 38 per cento di essi si trova in condizione di salute mediocri, il 37 per cento in condizioni scadenti ed il 4 per cento in condizioni gravi e con alto indice di co-morbosità, vale a dire più criticità ed handicap in uno stesso paziente. Solo per limitarsi alle cinque patologie maggiormente diffuse, ben il 27 per cento dei detenuti è tossicodipendente (2.159 di loro sono in terapia metadonica), il 15 per cento ha problemi di masticazione, altrettanti soffrono di depressione e di altri disturbi psichiatrici, il 13 per cento soffre di malattie osteo-articolari ed il 10 per cento di malattie al fegato; oltre al fatto che la stessa tossicodipendenza è spesso associata ad AIDS (circa il 2 per cento dei detenuti è sieropositivo), epatite C e disturbi mentali;

a fronte di una morbosità così elevata, la medicina penitenziaria continua a scontare una evidente insufficienza di risorse, di strumenti e di mezzi, il che svilisce i servizi e la professionalità degli operatori sanitari, oltre ovviamente a pregiudicare le attività di trattamento, cura e assistenza degli stessi detenuti. L'attuale situazione di sofferenza in cui versa la medicina penitenziaria è anche dovuta al fatto che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 10 aprile 2008, recante «modalità e criteri per il trasferimento al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria», non risulta essere stato ancora attuato nella parte in cui stabilisce il trasferimento alle regioni delle risorse finanziarie relative all'ultimo trimestre dell'anno 2008 (per una somma pari ad 84 milioni di euro) e a tutto il 2009, il che non consente di attuare una seria e radicale riorganizzazione del servizio sanitario all'interno degli istituti di pena;

nonostante il passaggio delle competenze al Servizio sanitario nazionale delle funzioni sanitarie, dei rapporti di lavoro, delle risorse finanziarie e delle attrezzature e beni strumentali in materia di sanità penitenziaria, non risultano ancora essere stati definiti modelli operativi adeguati all'assistenza in carcere, ciò a causa del fatto che le stesse regioni sono ben lungi dall'essere attrezzate in modo da poter fornire i servizi medici nei penitenziari, così come peraltro ancora ambigua risulta la gestione dei relativi contratti di lavoro e ruoli professionali;

negli istituti di pena italiani sono rinchiusi 71 bambini sotto i tre anni che vivono in carcere con le madri detenute, il che continua ad accadere nonostante risulti ampiamente dimostrato quanto lo stato di reclusione prolungato possa esporre questi soggetti a seri rischi per la loro salute. A questo proposito, nella XVI legislatura è stato depositato un progetto di legge alla cui elaborazione ha contribuito l'Associazione Il Detenuto Ignoto, che attende ancora di essere calendarizzato e discusso;

le piante organiche della polizia penitenziaria, stabilite con decreto ministeriale dell'8 febbraio 2001, prevedono l'impiego di 41.268 unità negli istituti di pena per adulti; al 20 settembre 2009 nelle carceri italiane risultavano in forza 35.343 persone, con uno scoperto di 5.925 unità (circa il 14 per cento); per il personale amministrativo è previsto un organico di 9.486 unità, mentre i posti coperti risultano essere 6.300, con uno scarto di 3.186 persone. Complessivamente, quindi, nell'amministrazione penitenziaria il personale mancante è pari a 8.882 unità;

anche il numero degli educatori è insufficiente, posto che in pianta organica ne sono previsti 1.088, mentre sono appena 686 quelli effettivamente in servizio; così come risulta deficitaria l'assistenza psicologica, a cominciare da quella legata alle attività di osservazione e trattamento dei detenuti,
visto e considerato che a fronte di quasi 66.000 detenuti gli psicologi che prestano effettivamente servizio sono appena 352, il che comporta, come naturale conseguenza, che gli istituti di pena siano diventati una istituzione a carattere prevalentemente, se non esclusivamente, afflittivo. A questo proposito il Ministero della giustizia, proprio al fine di coprire almeno parzialmente la totale carenza di organico di tali figure professionali, aveva avviato, fin dal 2004, un concorso per l'assunzione di 39 psicologi, arrivando anche ad approvare la relativa graduatoria nel 2006; nonostante ciò, da quel momento, l'Amministrazione penitenziaria, pur in presenza di tutte le risorse economiche, non ha proceduto ad alcuna assunzione dei vincitori del concorso, di fatto preferendo affidarsi, a quanto consta ai firmatari del presente atto di indirizzo, ad un sistema di frammentare collaborazioni precarie e insufficienti;

il sovraffollamento, la mancanza di spazi, l'inadeguatezza delle strutture carcerarie, la carenza degli organici e del personale civile, lo stato di sofferenza in cui versa la sanità all'interno delle carceri, tutto ciò provoca una situazione contraria ai principi costituzionali ed alle norme del regolamento penitenziario impedendo il trattamento rieducativo e minando l'equilibrio psico-fisico dei detenuti, con incremento, nel 2009, dei suicidi e di gravi malattie; ed invero il sovraffollamento ha effetti dirompenti, tra l'altro, proprio sulle condizioni di salute dei reclusi, ai quali non vengono garantite le più elementari norme igieniche e sanitarie, atteso che gli stessi sono costretti a vivere in uno spazio che non corrisponde a quello minimo vitale, con una riduzione della mobilità che è causa di patologie specifiche;

l'alto numero dei suicidi in carcere registrato nel 2009 dipende anche dalle condizioni di sovraffollamento degli istituti di pena e dalle aspettative frustrate di migliori condizioni di vita al loro interno, soprattutto per quanto riguarda le persone sottoposte a regimi carcerari più restrittivi rispetto a quello ordinario - ad esempio quello di cui all'articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975, sull'ordinamento penitenziario - i quali, non a caso, registrano una percentuale di suicidi più elevata rispetto a chi sconta la pena senza essere sottoposto a particolari restrizioni;

senza l'indulto approvato tre anni fa, le nostre carceri oggi sarebbero al collasso ed il sovraffollamento assumerebbe dimensioni tali da creare addirittura problemi di ordine pubblico; in questa situazione di emergenza la funzione rieducativa e riabilitativa della pena è venuta meno; il rapporto numerico tra detenuti ed educatori e assistenti sociali ha frustrato ogni possibile serio tentativo di intraprendere e seguire, per la maggior parte dei reclusi, percorsi individualizzati così come previsto dall'ordinamento penitenziario;

nel 2006 il dottor Sebastiano Ardita - responsabile della Direzione generale dei detenuti e trattamento del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - ha dichiarato: «siamo consapevoli di versare in una situazione di grave, perdurante, quanto involontaria ed inevitabile divergenza dalle regole, per il fatto di non essere nella materiale possibilità di garantire, a causa del sovraffollamento, quanto previsto dalle normative vigenti e dal recente regolamento penitenziario; la salute dei detenuti, ad esempio, non è solo un problema politico e neanche solo una questione tecnica o medico legale. È molto altro ancora. È il luogo privilegiato per valutare le politiche sociali di uno Stato. È una questione di politica criminale. È il banco di prova della pena costituzionalmente intesa» (fonte ANSA 1° marzo 2006); lo stesso Ministro della giustizia, onorevole Angelino Alfano, ha definito la situazione attuale del nostro sistema penitenziario sostanzialmente al di fuori della legalità costituzionale;

l'enorme tasso di sovraffollamento comporta automaticamente porsi fuori dalle regole minime, costituzionalmente previste, della funzione rieducativa della pena per scadere in quei trattamenti contrari al senso di umanità sanzionati non solo dal nostro ordinamento giuridico, ma anche dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, se è vero, come è vero, che recentemente lo Stato italiano è stato condannato a mille euro di risarcimento per aver costretto un detenuto a vivere due mesi e mezzo all'interno di una cella in uno spazio di appena 2,7 metri quadrati (Sulejmanovic c. Italia - ricorso n. 22635/03); nella circostanza la Corte europea dei diritti dell'uomo ha affermato che la mancanza di spazio personale per i detenuti (meno di 3 metri quadrati) giustifica, di per sé, la constatazione della violazione dell'articolo 3 della Convenzione (divieto di pene o trattamenti inumani o degradanti);

i fondi della Cassa delle ammende, con i quali lo Stato dovrebbe investire in progetti educativi e/o di reinserimento sociale dei detenuti, non vengono utilizzati o vengono destinati ad altre finalità, il che continua ad accadere nonostante il sostegno economico-finanziario delle iniziative volte al reinserimento sociale e alla riabilitazione dei detenuti, insieme all'applicazione delle misure alternative alla detenzione, costituisca lo strumento più significativo di contrasto alla recidiva e quindi di tutela e sicurezza dei cittadini. Ed invero la bassa percentuale di detenuti che lavorano, unita alla cronica esiguità delle risorse finanziarie destinate al loro reinserimento sociale, comporta un alto tasso di recidiva, come dimostrato dalle più recenti evidenze statistiche sopra richiamate;

alcuni dei più rilevanti interventi legislativi adottati in questi ultimi anni - a partire dalla legge n. 251 del 2005, (cosiddetta legge «ex Cirielli») - hanno introdotto forti limitazioni all'applicazione dei vari benefici «extramurari» ai recidivi, i quali costituiscono la maggior parte degli attuali detenuti: si pensi all'aumento della popolazione carceraria a seguito delle introdotte limitazioni per i recidivi specifici o infraquinqennali reiterati per quanto riguarda i permessi premio, la detenzione domiciliare o l'affidamento in prova al servizio sociale, posto che gli stessi non possono più usufruire della sospensione dell'esecuzione della pena ex articolo n. 656, comma 5, del codice di procedura penale, ciò a seguito dell'inserimento di una nuova lettera e) al comma 9 del predetto articolo;

occorre dunque riavviare il sistema delle misure alternative, ripensando quel meccanismo di preclusioni automatiche che - soprattutto con riferimento ai condannati a pene brevi - ha finito per imprimere il colpo «mortale» alla capacità di assorbimento del sistema penitenziario; su tale versante è anche necessario generalizzare l'applicazione della detenzione domiciliare quale strumento centrale nell'esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità anche attraverso l'attivazione di serie ed efficaci misure di controllo a distanza dei detenuti;

è pertanto necessaria ed urgente un'azione riformatrice che - partendo da una comune riflessione sulle cause che hanno generato quella che per i firmatari del presente atto di indirizzo è l'attuale situazione di illegalità in cui versa il nostro sistema penitenziario - favorisca la reale attuazione del principio costituzionale di cui all'articolo 27, comma 3, della Costituzione; dette riforme devono procedere nel senso di garantire al detenuto il rispetto delle norme sul «trattamento» all'interno delle carceri e sull'accesso alle misure alternative, risolvendo in maniera radicale non solo il problema del sovraffollamento delle carceri ma anche tutti i problemi del mondo giudiziario che ruotano intorno ad esso,

impegna il Governo:

ad assumere iniziative, anche di carattere normativo, volte ad attuare, con il più ampio confronto con le forze politiche presenti in Parlamento, una riforma davvero radicale in materia di custodia cautelare preventiva, di tutela dei diritti dei detenuti, di esecuzione pena e, più in generale, di trattamenti sanzionatori e rieducativi, che preveda:

a) la riduzione dei tempi di custodia cautelare, perlomeno per i reati meno gravi, nonché del potere della magistratura nell'applicazione delle misure cautelari personali a casi tassativamente previsti dal legislatore, previa modifica dell'articolo 280 del codice di procedura penale;

b) l'introduzione di meccanismi in grado di garantire una reale ed efficace protezione, del principio di umanizzazione della pena e del suo fine rieducativo, assicurando al detenuto un'adeguata tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei suoi diritti;

c) l'istituzione a livello nazionale del Garante dei diritti dei detenuti, ossia di un soggetto che possa lavorare in coordinamento e su un piano di reciproca parità con la magistratura di sorveglianza, in modo da integrare quegli spazi che non possono essere tutti occupati in via giudiziaria;

d) il rafforzamento sia degli strumenti alternativi al carcere previsti dalla cosiddetta legge «Gozzini», da applicare direttamente anche nella fase di cognizione, sia delle sanzioni penali alternative alla detenzione intramuraria, a partire dalla estensione dell'istituto della messa alla prova, previsto dall'ordinamento minorile, anche nel procedimento penale ordinario;

e) l'applicazione della detenzione domiciliare, quale strumento centrale nell'esecuzione penale relativa a condanne di minore gravità, anche attraverso l'attivazione di serie ed efficaci misure di controllo a distanza dei detenuti;

f) l'istituzione di centri di accoglienza per le pene alternative degli extra-comunitari, quale strumento per favorirne l'integrazione ed il reinserimento sociale e quindi ridurre il rischio di recidiva;

g) la creazione di istituti «a custodia attenuata» per tossicodipendenti, realizzabili in tempi relativamente brevi anche ricorrendo a forme di convenzioni e intese con il settore privato e del volontariato che già si occupa dei soggetti in trattamento;

h) la piena attuazione del principio della territorialità della pena previsto dall'ordinamento penitenziario, in modo da poter esercitare al meglio tutte quelle attività di sostegno e trattamento del detenuto che richiedono relazioni stabili e assidue tra quest'ultimo, i propri familiari e i servizi territoriali della regione di residenza;

i) la revisione del sistema di sospensione della pena al momento della definitività della sentenza di condanna, abolendo i meccanismi di preclusione per i recidivi specifici e infraquinquennali reiterati nonché per coloro che rientrano nell'articolo 4-bis della legge n. 354 del 1975, sull'ordinamento penitenziario; introducendo, nel contempo, termini perentori entro i quali i tribunali di sorveglianza devono decidere sulla misura alternativa richiesta;

l) l'abolizione del meccanismo delle preclusioni di cui all'articolo 4-bis della citata legge n. 394 del 1975 sull'ordinamento penitenziario con recupero da parte della magistratura di sorveglianza e degli organi istituzionalmente competenti del potere di valutare i singoli percorsi rieducativi in base alla personalità del condannato, alla sua pericolosità sociale e a tutti gli altri parametri normativamente previsti;

m) la radicale modifica dell'articolo 41-bis della citata legge n. 394 del 1975, sull'ordinamento penitenziario in modo da rendere il cosiddetto «carcere duro» conforme alle ripetute affermazioni della Corte costituzionale sulla necessità che sia rispettato, in costanza di applicazione del regime in questione, il diritto alla rieducazione e ad un trattamento penitenziario conseguente;

n) l'adeguamento degli organici del personale penitenziario ed amministrativo, nonché dei medici, degli infermieri, degli assistenti sociali, degli educatori e degli psicologi, non solo per ciò che concerne la loro consistenza numerica, ma anche per ciò che riguarda la promozione di qualificazioni professionali atte a facilitare il reinserimento sociale dei detenuti;

o) il miglioramento del servizio sanitario penitenziario, dando seguito alla riforma della medicina penitenziaria già avviata con il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 1° aprile 2008, in modo che la stessa possa trovare, finalmente, effettiva e concreta applicazione;

p) l'applicazione concreta della legge 22 giugno 2000 n. 193 (cosiddetta legge «Smuraglia»), anche incentivando la trasformazione degli istituti penitenziari, da meri contenitori di persone senza alcun
impegno ed in condizioni di permanente inerzia, in soggetti economici capaci di stare sul mercato, e, come tali, anche capaci di ritrovare sul mercato stesso le risorse necessarie per operare, riducendo gli oneri a carico dello Stato e, quindi, della collettività;

q) l'esclusione dal circuito carcerario delle donne con i loro bambini;

r) la limitazione dell'applicazione delle misure di sicurezza ai soli soggetti non imputabili (abolendo il sistema del doppio binario) o comunque l'adozione degli opportuni provvedimenti legislativi volti ad introdurre una maggiore restrizione dei presupposti applicativi delle misure di sicurezza a carattere detentivo, magari sostituendo al criterio della «pericolosità» (ritenuto di dubbio fondamento empirico) quello del «bisogno di trattamento»;

s) la possibilità per i detenuti e gli internati di coltivare i propri rapporti affettivi anche all'interno del carcere, consentendo loro di incontrare le persone autorizzate ai colloqui in locali adibiti o realizzati a tale scopo, senza controlli visivi e auditivi;

t) l'istituzione di un'anagrafe digitale pubblica delle carceri in modo da rendere la gestione degli istituti di pena trasparente al pubblico;

u) una forte spinta all'attività di valutazione e finanziamento dei progetti di reinserimento sociale e lavorativo dei detenuti, nonché di aiuti alle loro famiglie, prevista dalla legge istitutiva della Cassa delle ammende;

v) la modifica del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, in particolare prevedendo che anche l'attività di coltivazione di sostanza stupefacente il cui ricavato sia destinato ad un uso esclusivamente personale venga depenalizzata ed assuma quindi una rilevanza meramente amministrativa in conformità a quanto previsto dal referendum del 1993.

(1-00288)
«Bernardini, Maurizio Turco, Beltrandi, Farina Coscioni, Mecacci, Zamparutti, Della Vedova, Mario Pepe (PD), Melis, Duilio, Giachetti, Calvisi, Touadi».

Siamo passati dalla detenzione penale a quella sociale

"I due terzi della popolazione carceraria italiana non possiede più i requisiti per chiedere le misure alternative, ci sono larghe fette di persone recidive e straniere irregolari che non entrano più nella logica delle misure alternative"

Redattore Sociale, 21 novembre 2009

Il direttore del Lorusso-Cotugno di Torino al convegno Seac: "Nel 2007 su 94 mila ingressi, circa 70 mila uscite nei 9 mesi successivi, 35 mila entro 11 giorni, 29 mila entro 3 giorni". Questa situazione ingolfa il sistema penitenziario.

Nel 2007 su 94 mila ingressi in carcere ci sono state circa 70 mila uscite nei nove mesi successivi, 35 mila entro 11 giorni, 29 mila entro 3 giorni, pari al 32% del totale. Nello stesso anno a Torino il 52% degli otto mila ingressi, pari a quattro mila detenuti, è uscito entro tre giorni. Sono i dati forniti da Pietro Buffa, direttore del carcere Lorusso-Cotugno di Torino, intervenuto alla Tavola rotonda sul sistema sanzionatorio del Coordinamento enti e associazioni di volontariato penitenziario-Seac "la detenzione in carcere di queste persone ingolfa il sistema penitenziario", ha detto Buffa, spiegando che se i conti del sistema penitenziario non tornano più, le cause vanno cercate al di là del solo problema quantitativo. "Se abbiamo uno dei più grandi tassi di sovraffollamento d’Europa è a causa di una politica che preme sul carcere con varie ondate emergenziali - ha continuato - , a Torino che è un grande carcere metropolitano ho dovuto autorizzare l’apertura di palestre, corridoi e sgabuzzini per la mancanza di spazi". Attualmente ci sono circa 1600 detenuti, ma la struttura è arrivata a contenerne anche più di 1.700, su una capienza massima di 1.100 persone.

A Torino il 52% di detenuti è straniero, in genere non in regola con il permesso di soggiorno. In alcuni penitenziari italiani si arriva anche al 70% "i due terzi della popolazione carceraria italiana non possiede più i requisiti per chiedere le misure alternative, ci sono larghe fette di persone recidive e straniere irregolari che non entrano più nella logica delle misure alternative". È questo l’allarme lanciato dal direttore del carcere del capoluogo piemontese, che ha affermato: "siamo passati dalla detenzione penale alla detenzione sociale, al carcere vengono demandati compiti per i quali non siamo attrezzati, come l’accertamento dei familiari irregolari in visita all’interno di una struttura". Esiste una circolare ministeriale molto recente in cui in questi casi il diritto al colloquio prevale sull’accertamento dell’irregolarità, per cui il direttore del carcere può limitarsi ad accertare il grado di parentela e dare il permesso al colloquio.


venerdì 20 novembre 2009

Grecia, carceri in rivolta

17/11/2009 peacereporter di Margherita Dean

Sciopero della fame: la Grecia conosce la seconda protesta carceraria in un anno

All'alba del 18 marzo scorso, Caterina Gulioni, detenuta tossicodipendente, fu trovata morta dalle guardie che accompagnavano la donna ed altri carcerati, dall'istituto penitenziario di Tebe a quello di Neapoli, a Creta. Nel corso della traversata marina, Caterina venne isolata dai compagni e le sue mani furono legate dietro la schiena. Seppur immobilizzata, la detenuta morì di overdose o almeno così sostennero le autorità carcerarie, indifferenti alle proteste di testimoni oculari che dichiararono che Caterina aveva il viso pesto di botte.
La morte della donna rese nota la lotta da lei intrapresa, quella contro pratiche mortificanti e degradanti, come l'esame vaginale, cui erano sottoposte le detenute al rientro in carcere dopo ogni permesso. L'introduzione, a maggio, dell'esame ecografico fu, pertanto, la conquista di una tossicodipendente morta in carcere e trattata, dalla legge ancor'oggi in vigore contro ogni normativa europea, alla stregua di un carcerato comune, privata del sostegno medico e psicologico necessario.

Se la storia o meglio, la lotta di Caterina Gulioni torna in mente, è perché in questi giorni, la Grecia sta conoscendo la seconda protesta carceraria in un anno. Lo sciopero, che consiste nel rifiuto dei pasti offerti dalle mense, indetto il 10 novembre in sette carceri, da circa 3.300 detenuti, richiama l'attenzione del governo su richieste rimaste senza risposta dal novembre del 2008. Sovraffollamento, anacronismi giuridici, usi ed abusi delle autorità penitenziarie e della polizia rendono la questione carceraria greca urgente. Stando alle statistiche ufficiali del Ministero di Giustizia, il numero di detenuti è di 11.736, quello degli incarcerati in attesa di giudizio è di 3.218 e quello degli immigrati di 6.607. Si faccia l'esempio, allora, del carcere di Diavatà, a Salonicco; ogni cella misura ventiquattro metri quadri ed è predisposta all'ospitalità di quattro persone ma oggi vi si accalcano in dieci. Se a ciò si aggiungono i numerosi resoconti dell'Avvocato del Cittadino (l'Ombudsman ellenico), in cui si denunciano gravi insufficienze sanitarie, l'alto numero di violazioni della normativa per la concessione di permessi, l'inesistenza di misure specifiche per i tossicodipendenti, le inammissibili condizioni di vita, la mancata attuazione dell'istituto della semilibertà e del servizio sociale alternativo, risulta evidente come l'annuncio, il 12 novembre, del Ministro di Giustizia, Charis Kastanidis, circa la riforma carceraria, non sia stata sufficiente a piegare la determinazione della protesta.

Stando alle dichiarazioni di Charis Kastanidis, la riforma consisterà in una sostanziale riduzione della possibilità, per i tribunali, di ordinare la reclusione prima del processo, nella sospirata valorizzazione delle pene alternative, nel tentativo di accelerare i tempi processuali e, finalmente, nel trattamento proprio a detenuti tossicodipendenti.
Eppure la ONG Iniziativa per i diritti dei carcerati non è convinta. In primo luogo appare molto critica circa l'effettiva applicazione, da parte dei giudici inquirenti, delle nuove norme che ridurranno la possibilità di ordinare il carcere preventivo. Si intravvede, pertanto, come la questione carceraria, in Grecia, sia un problema che investe gli usi ed abusi di tutte le parti istituzionali coinvolte, anche della Giustizia. Un problema profondo, dunque, che non riguarda solamente il mondo carcerario ma anche una delle colonne portanti delle democrazie occidentali: la Giustizia, che spesso appare ansiosa di nascondere, allontanare e, almeno, procrastinare. L'Iniziativa per i diritti dei carcerati aggiunge che, così come annunciata, la riforma carceraria appare frammentaria, insufficiente al compito di affrontare complessivamente la vita di un carcerato. Un esempio per tutti: i bimbi delle mamme detenute, che crescono, sostanzialmente, in una cella sovraffollata, colpevoli di quegli infami venti grammi di eroina trovati sulla loro mamma, trattata alla stregua dei peggiori commercianti di droga. Le soluzioni - pillola, per cui i governi greci hanno sempre risposto al problema carcerario, pare che non terminino con la ‘riforma Kastanidis', la quale tace, per altro, anche della questione di tutti quegli immigrati che, non potendo essere espulsi dalla Grecia, vengono ‘ospitati' nei commissariati, nelle carceri o in altro modo immagazzinati in attesa del nulla. Proprio qui appare una grave mancanza: quella del coordinamento col Ministero di Pubblica Sicurezza (ora denominato Ministero di Difesa del Cittadino), al fine di presentare una proposta di riforma complessiva e congiunta.

COMUNICATO sulla pdl “Catanoso"

E’ forse il caso di ricordare in premessa un principio elementare: che gli strumenti di cui si dota una qualsiasi organizzazione devono essere funzionali rispetto al fine che essa si propone.

Tradotto sul piano che a noi interessa, il fine istituzionale che la Costituzione e le norme che ne derivano pongono all’Amministrazione penitenziaria è quello dell’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, e poi chiariscono con quali strumenti tale fine vada perseguito.

Il complesso normativo quindi che nasce dal mai troppo ricordato art. 27 della Carta Costituzionale, e comprende la legge 354 del 1975, i DD.p.r. esecutivi prima del 1976 e poi del 2000, (con richiami più o meno immediati nella normazione di settore che si succedeva in quegli anni: la 395 del 1990 con i decreti legislativi attuativi; il d.p.r.230 del 1999, per arrivare alla 154 del 2005 ed al d.ti legs.vo 63 del 2006), disegnano un quadro organico strumentale alla esecuzione di misure che “…non devono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Le risorse umane disponibili sono inquadrate, per sommi capi, essenzialmente in due ripartizioni: una comprendente la Polizia Penitenziaria, l’altra, di gran lunga meno numerosa, include tutte le professionalità tecniche, amministrative, contabili e di esecuzione penale esterna. I regimi giuridici che regolano le due componenti sono sensibilmente diversi: mentre la prima rientra fra le forze di polizia ad ordinamento civile, la seconda fa parte del comparto contrattuale ministeri. La direzione delle unità organiche territoriali, istituti penitenziari e uffici dell’esecuzione penale esterna, così come gli uffici regionali e ministeriali, sono diretti da personale dirigenziale, ora nella stragrande maggioranza sottoposti a regime di diritto pubblico, ed ancora in attesa di un proprio CCNL.

Il trattamento economico si differenzia sensibilmente fra le prime due componenti, mentre i dirigenti, almeno quelli di diritto pubblico, fruiscono in via transitoria del trattamento economico della P.S.

Le voci che creano le maggiori distanze in termini economici fra il trattamento economico della componente custodiale e quella tecnico-amministrativa vanno ricondotte soprattutto alle poste indennitarie ed accessorie connesse alla natura di corpo di polizia: turnistica, straordinario, rischio, presenze festive, assegno funzionale e, ai fini del trattamento di fine rapporto, l’anzianità maggiorata del 20 %. Anche nello statuto giuridico si riflette la medesima condizione: il personale di polizia penitenziaria fruisce di congedo straordinario e congedo ordinario, il regime delle malattie professionali segue la procedura delle affezioni contratte da militari. Il personale ministeriale è sottoposto invece all’ordinamento giuridico generale dei dipendenti statali.

Infine, mentre i dipendenti laici hanno un rapporto di lavoro sottoposto al regime privatistico con rinnovo contrattuale alle scadenze ordinarie, agli operatori della Polizia penitenziaria si applica il trattamento del Comparto sicurezza, con una contrattazione sottoposta al regime di diritto pubblico.

Ora è evidente che dopo i primi anni ‘90 queste diversità di trattamento hanno creato una palese incrinatura fra le due componenti, accentuando le differenze già esistenti sul piano della diversità di mission affidata a ciascuna di esse: la prevalenza dell’aspetto securitario per la Polizia; di quello amministrativo e trattamentale per il personale ministeriale. Gli effetti di quella che avrebbe dovuto essere una potenziale ricchezza sono quindi degenerati in un dato frazionistico se non addirittura discriminatorio. Dinamica, questa, che va contestualizzata in una generale fase declinante di tutto l’ambiente penitenziario, di cui il sovraffollamento è l’aspetto più grave ed allarmante, ma non certamente l’unico epifenomeno.

Quando infatti in un mondo come quello carcerario prevalgono in maniera sempre più massiccia le istanze punitive, di sicurezza e di controllo, a discapito di un’articolazione sanzionatoria che affidi alla applicazione di misure differenziate il mandato istituzionale, è evidente come tutto l’ambiente finisca per appiattirsi in una progressiva carenza di stimoli culturali e di ricerca professionale.E in tale contesto nasce la proposta di legge n. 2486, c.d. “Catanoso”, che partendo dal malcontento della base degli operatori amministrativi e tecnici, di questo elabora il solo aspetto concernente le rivendicazioni di tipo economico proponendo una soluzione di tipo “omeopatico”.

Infatti, trascurando qualsiasi analisi di tipo strutturale sulla attuale fase che sta attraversando il mondo penitenziario, la proposta ritiene di accogliere le comprensibili ansie degli operatori dando ad esse una risposta di puro e semplice reclutamento nell’ambito della Polizia penitenziaria, senza minimamente preoccuparsi degli effetti di una ancora più pervasiva militarizzazione del carcere.

La proposta ci vede decisamente contrari, e vanno disvelate le ragioni dell’equivoco che essa contiene, soprattutto circa l’aspetto economico, che contengono una evidente carica demagogica: le voci stipendiali che creano la differenza fra i due regimi retributivi sono dovute, per la quasi totalità, ad attività di polizia, e sono riconosciute solo se si svolgono ben determinate funzioni (sorveglianza armata, vigilanza, traduzioni) con determinate modalità (turnistica).

Tutto questo non preclude che una ragionevole richiesta sia di adeguamento delle indennità, sia del riconoscimento dell’anzianità figurativa, collegati alla particolare condizione di disagio e di logoramento psico-fisico cui anche gli operatori laici sono sottoposti, debba essere posta a base di una rivendicazione di cui il Sindacato deve farsi carico.

Alla crisi attuale fase del penitenziario, che non ha termini di paragone nella sua storia repubblicana, non crediamo che si possa fornire risposta accentuando i caratteri di militarizzazione. L’ampliamento dello spazio, anche potenziale, di esercizio dei poteri autoritativi contiene in sé il rischio di una degenerazione del sistema verso schemi operativi sempre più coartanti appiattendo la cultura professionale di tutto l’ambiente penitenziario, favorendo:

- l’irrigidimento della popolazione penitenziaria, che vedrebbe sempre più ridotta l’agibilità di politiche riabilitanti;

- l’appiattimento del sapere professionale del mondo penitenziario, con una inevitabile regressione anche dei sintomi di vivacità culturale della stessa polizia Penitenziaria verso approdi ispirati alla sola pratica custodiale.

Noi riteniamo invece che vada arricchita e corroborata la pluralità di linguaggi professionali, fornendo agli stessi operatori di polizia la promiscuità di modalità di approccio diversificati ed ispirati a tecniche avanzate, affinché anche essi pongano in misura sempre maggiore la forza della ragionevolezza e dell’equilibrio al centro del loro agire quotidiano, relegando l’iniziativa costringente e coartante, sempre e comunque legittimamente eseguita, alla sola ipotesi della difesa.

Non crediamo quindi che nella presente contingenza in carcere ci sia bisogno di una maggiore attività di polizia, qualsiasi sia la veste sotto la quale essa possa essere agita, e pertanto anche la legittima esigenza di un rafforzamento delle professionalità tecniche deve trovare una risposta in strumenti altri da quelli proposti dalla pdl Catanoso.

I Dirigenti Penitenziari della Fp Cgil

Rita Andrenacci, Domenico Arena, Neris Cimini,

Massimo Di Rienzo


[1] Proposta di legge-delega per l’istituzione di ruoli tecnici della Polizia Penitenziaria con l’inserimento di tutti gli attuali ruoli del Comparto Ministeri (educatori, contabili, assistenti sociali, collaboratori,etc.)

Cgil-Fp: c’è una "questione carceraria" da risolvere


www.aprileonline.info, 20 novembre 2009

Le drammatiche notizie di cronaca di queste settimane ripropongono, in modo allarmante, la questione basilare del dovere, da parte degli organi di giustizia e delle forze dell’ordine dello Stato di diritto, di garantire l’incolumità e la salute delle persone che sono private della libertà ed affidate alla pubblica autorità.

È un diritto fondamentale da parte di ogni donna o uomo (cui corrisponde un preciso dovere di salvaguardia da parte delle autorità) quello di avere la certezza che, in caso di fermo, arresto, reclusione, detenzione amministrativa, la propria persona sarà garantita da qualsiasi offesa nel corpo e nella psiche e curata in modo adeguato, se le sue condizioni di salute lo richiedono. È del tutto evidente come queste considerazioni, che dovrebbero costituire delle ovvietà, nel momento attuale rischino - viceversa- di apparire rivoluzionarie. L’on. Giovanardi ha ben rappresentato, intervenendo sul caso Cucchi, il venticello di rancoroso cinismo che aleggia sul Paese e che - sempre più - tende a disconoscere l’esistenza di diritti universali, quasi che la vita e la salute fossero prerogative riservate ai cittadini italiani non devianti e non a qualsiasi essere umano.

Si usa recitare, in casi come quello di Stefano Cucchi, il rassicurante mantra secondo cui, nel confermare assoluta fiducia nelle autorità inquirenti, si auspica che il singolo episodio non divenga un pretesto per criminalizzare le istituzioni e le diverse forze dell’ordine: insomma, per "non fare di tutta l’erba un fascio". E però, al di là del rischio di facili quanto errate generalizzazioni, resta un fortissimo senso di disagio e di preoccupazione in chi osservi un po’ più da vicino il concreto e quotidiano mondo della giustizia penale nel nostro paese. Perché è purtroppo una percezione diffusa quella per cui la cultura della legalità e dei diritti va subendo, nell’ultimo periodo, l’onda lunga del clima di impunito arbitrio che si respira nel paese: ed i primi luoghi a rischio, quando l’argine del diritto cede, sono - com’è ovvio - quelli laddove la legge smette i panni eleganti dei raffinati ragionamenti giuridici, per indossare quelli decisamente più concreti della custodia e della gestione dei corpi.

Sta divenendo senso comune la percezione che ciò che alberga dentro le mura del carcere non debba avere nulla a che fare con la società civile, quasi che le regole, le norme, le garanzie cui i comuni cittadini sono (più o meno) avvezzi possano o debbano subire una sospensione non appena si varchi quella soglia. Anche perché, se quella soglia si varca, si è - nella maggioranza dei casi - perdenti (cioè stranieri, tossicodipendenti, malati psichiatrici: categorie che, da sole, assommano a ben più della metà dei detenuti italiani) ed, in quanto tali, destinati a non essere tutelati. Come se il sistema dei diritti e delle garanzie fosse posto a tutela dei vincenti, di coloro che, a prescindere dalla propria colpevolezza, possono permettersi di non sperimentare cosa sia concretamente il carcere (o di viverlo protetti dal riconoscimento di una certa "aristocrazia criminale"), piuttosto che le fasce deboli della popolazione.

Questa ipertrofia di "sfigati" ai confini della legalità che gonfia le mura del carcere oltre ogni sovraffollamento possibile, nella sorda indifferenza di governanti impegnati a tutelare sé stessi, svuota e snatura quel po’ di rispetto della legalità che faticosamente si era costruito anche nelle carceri: quale il senso e la possibile applicazione di regole penitenziarie pensate per persone giudicate colpevoli e da reinserire in un percorso sociale graduale e complesso, quando la maggioranza dei detenuti non supera l’anno di reclusione? Par che sia molto più importante, per chi continua a sfornare pacchetti sicurezza, "mandare in galera" categorie eterogenee ed indeterminate, piuttosto che giudicare, eseguire e gestire la condanna di soggetti che veramente pongono in essere reati allarmanti.

Così, le patrie galere vengono sempre più attraversate da una folla indistinta di corpi all’ammasso, senza la possibilità di capire, governare, gestire; così l’ordinamento penitenziario, il suo sistema di regole, sanzioni, benefici, agonizza dentro istituti sempre più sinistramente simili a centri di detenzione temporanea; così un personale esausto tenta sempre più flebilmente di frenare la deriva dell’illegalità montante; così, dentro le carceri, le ragioni della forza prendono il sopravvento sulla forza della ragione.

Nel frattempo, al furore sanzionatorio di iniziativa governativa fa da controcanto l’assoluta e silenziosa impotenza di un’Amministrazione Penitenziaria che continua a produrre ossessivamente bozze di Piani Carceri e circolari arditamente tese a sfidare il principio dell’impenetrabilità dei corpi, riducendo il proprio mandato al reperimento di posti letto (che, peraltro non reperisce, se non in misura assolutamente inadeguata): così, può accadere che una condanna della Corte Europea per il trattamento degradante cui il sovraffollamento (ma anche la assoluta mancanza di attività tratta mentali) conduce nei confronti dei detenuti, sia tradotta in una direttiva ministeriale che autorizza e dispone di aumentare la capienza degli istituti sino a ridurre la superficie a disposizione del singolo detenuto a tre metri quadri; siamo, oramai, di fronte al teatro dell’assurdo e del grottesco.

Noi dirigenti penitenziari della Fp Cgil siamo assolutamente convinti che il tracollo del sistema penitenziario italiano imponga una riflessione seria e profonda, assolutamente irriducibile a facili o demagogiche prese di posizione: occorre ridare coerenza ad un sistema penale che è andato smarrendo il senso della propria funzione; occorre ristrutturare dalle fondamenta una Amministrazione Penitenziaria ormai irrimediabilmente aliena dai dettami costituzionali in materia di esecuzione penale. Occorre ridare dignità a quanti, ogni giorno,si ostinano a considerare i luoghi di detenzione come luoghi del diritto e non dell’arbitrio. Ed occorre farlo presto, prima che si producano conseguenze ancor più devastanti di quelle alle quali stiamo, purtroppo, già assistendo.

Rita Andrenacci, Domenico Arena,

Neris Cimini, Massimo Di Rienzo

Dirigenti Penitenziari della Fp Cgil

Flick: bene Piano carceri, ma servono più operatori

Redattore Sociale - Dire, 20 novembre 2009

L’intervento di Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale al Convegno nazionale del Seac. Sul piano carceri: "Bene l’aumento di spazio, ma servono più operatori e volontari".

"Quella di Stefano Cucchi è stata una morte senza dignità". Lo ha detto Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro della Giustizia, nel corso di una Lectio magistralis al 42° Convegno nazionale del Seac sullo stato del sistema sanzionatorio. "Per la morte di Stefano Cucchi sono emblematiche le imputazioni contestate: omicidio preterintenzionale e colposo, così come sono emblematiche le condizioni in cui quel ragazzo è morto, in solitudine, senza poter incontrare il difensore di cui aveva chiesto nei parenti. Questo nega il diritto a morire con dignità", ha affermato Flick. L’ex Presidente della Consulta ha parlato di "indignazione in riferimento alle ultime notizie drammatiche, dal suicidio di Diana Blefari alla vicenda di Teramo, dove si usava il termine massacro".

Sul piano carceri, "l’aumento di spazio è necessario ma non basta - ha detto ancora Flick - occorre l’aumento anche degli operatori penitenziari e dei volontari. Il trend di crescita della popolazione carceraria rischia di vanificare l’aumento di posti". Nel suo intervento ha sottolineato che "la pax carceraria sovraffollata, patogena e criminogena è contraria alla Costituzione. Si deve andare progressivamente verso le misure alternative. Il carcere è diventato una discarica sociale per tossicodipendenti, clandestini e disoccupati. L’unico percorso in linea con la Costituzione è il reinserimento sociale, che non può essere azzerato in toto per esigenze di sicurezza".

Secondo Flick il Terzo Settore è necessario per abbandonare la separatezza del carcere, calarlo nella realtà sociale e rendere accessibili a tutti, anche agli immigrati irregolari, le misure alternative. Sul dibattito per riaprire Pianosa e l’Asinara, ex carceri di massima sicurezza, l’ex ministro guardasigilli ha ricordato di averli chiusi nel ‘96 sul richiesta del Parlamento. "avevamo ipotizzato di renderle strutture per l’espiazione della pena per detenuti a bassa pericolosità". "Il volontariato grida nel deserto, la politica in questo momento non ascolta" è stato il commento di Elisabetta Laganà, presidente del Coordinamento degli enti e delle associazioni di volontariato penitenziario.

giovedì 19 novembre 2009

ASSISTENTI SOCIALI E FORMAZIONE CONTINUA

AGLI ASSISTENTI SOCIALI E ASSISTENTI SOCIALI SPECIALISTI DELLA LOMBARDIA
Ordine Assistenti Sociali della Regione Lombardia
NEWSLETTER – novembre 2009
Stanno pervenendo numerose richieste di chiarimenti sugli effetti e conseguenze dell’applicazione del Regolamento per la FORMAZIONE CONTINUA DEGLI ASSISTENTI SOCIALI E DEGLI ASSISTENTI SOCIALI SPECIALISTI approvato dal Consiglio Nazionale dell’Ordine professionale in data 24 ottobre 2009.
Le comunicazioni esprimono dubbi e preoccupazioni sull’attuazione e sostenibilità del sistema richiamato, stante una reale difficoltà ad interpretare le indicazioni contenute nel documento.
Siamo molto rammaricati e sorpresi nel constatare che alcune affermazioni mettono in dubbio che i componenti dell’attuale Consiglio vogliano continuare a lavorare in modo trasparente, partecipato e condiviso: il Consiglio, nel rispetto del mandato istituzionale, intende collaborare costruttivamente nel definire un sistema di formazione permanente, elemento essenziale ed inevitabile per potersi definire “professionisti”. Riunito in seduta il giorno 16 novembre 2009, il Consiglio Regionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali della Lombardia ha affrontato per la prima volta il tema dopo il rinnovo elettorale.
Le posizioni espresse dai consiglieri hanno trovato una prima sintesi nel documento che mandiamo a tutti gli iscritti e al Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Assistenti Sociali, al quale verrà riferito in occasione dell’incontro con tutti i Consigli Regionali il giorno 28 novembre p.v. a Roma.
Siamo a conoscenza che singoli consiglieri in maniera autonoma invitano i colleghi a sottoscrivere un proprio documento che evidenzia le criticità del regolamento della formazione.
Tale iniziativa non è comprensibile data la presenza del documento di analisi e proposte alternative e integrative che, in attesa di linee attuative nazionali non ancora ultimate, possa porre eventuali correttivi al testo deliberato.
Per la diffusione del regolamento si è provveduto a inserirlo sul sito regionale www.ordineaslombardia.it ed a inviarlo, in una prima fase di analisi e confronto, ai colleghi che hanno partecipato ai gruppi di lavoro consiliari.
Intendiamo continuare, come abbiamo sempre agito, ad informare correttamente e coinvolgere attivamente gli iscritti in iniziative discusse e condivise dal Consiglio regionale.
La Presidente del CR OAS Lombardia
Renata Ghisalberti

Il regolamento approvato dal CNOAS in data 24 ottobre 2009 rappresenta un elemento essenziale nella delineazione dell’assistente sociale come professione.

Nell’ apprezzare l’iniziativa per i seguenti aspetti positivi:
- garantire al cittadino un professionista che mantiene costantemente aggiornate le proprie conoscenze, competenze ed abilità;
- creare opportunità di confronto sistematico tra professionisti su aspetti metodologici e deontologici specifici e trasversali;
- stimolare un processo di trasmissione dei saperi che abbia una visibilità e confrontabilità;
- incrementare l’attenzione alla formazione e aggiornamento continui che le ricerche territoriali e nazionali segnalano come mediamente carente.

Si pone l’attenzione sulle seguenti criticità da approfondire e chiarire:
- di metodo: l’approvazione del testo definitivo è avvenuto dopo una precedente fase di valutazioni e osservazioni pervenute da tutti i CC.RR. (giugno-ottobre 2008) che il testo ha recepito in parte. Non vi è stata infatti una restituzione da parte del CNOAS della produzione di osservazioni che ogni CC.RR. aveva trasmesso e che avevano messo in evidenza la complessità nella realizzazione del sistema, per poter avviare una fase necessaria a garantire una comune interpretazione del regolamento;

- di cornice istituzionale: l’avvio dei contatti con i diversi livelli istituzionali per realizzare sinergie e partnership richiede tempi non presi in considerazione dal regolamento per garantire il diritto , oltre che il dovere alla formazione del singolo professionista (art. 2), contribuendo a favorire l’accesso alla formazione degli enti gestori (la realtà è costituita da organizzazioni con diversa articolazione e mezzi);

- di merito: la parte del regolamento che delinea il sistema (art. 3; art. 4; art. 5) pone l’unità di misura nel credito che corrisponde a 5 ore di attività formativa. Questa proposta ci sembra eccessiva poiché, secondo la complessa e incerta interpretazione del sistema di attribuzione dei crediti, la realizzazione del debito formativo comporterebbe un impegno che tradotto in giornate lavorative supera sicuramente quanto previsto nelle realtà di lavoro. Inoltre è da ritenersi non condivisibile la penalizzazione di 5 crediti nel caso in cui l’iscritto non partecipasse alle iniziative formative annuali promosse dall’Ordine regionale o dal Consiglio Nazionale.
Si suggerisce di prendere in considerazione la possibilità di valutare i crediti non in base alle ore ma per particolari caratteristiche dell’evento formativo. Inoltre si potrebbe valutare la possibilità di individuare dei raccordi con altri sistemi di formazione permanente, in primo luogo la ECM della Sanità, per talune attività formative o eventi.

- di tempistica: l’art. 12 delinea una fase di sperimentazione che pone il CNOAS e i CC.RR. nella difficoltà di realizzare in modalità condivise il sistema, attribuendo immediatamente agli iscritti l’obbligo di osservanza (1 gennaio 2010). La fase di analisi del bisogno, avviata nel 2009, LA FORMAZIONE CONTINUA DEGLI ASSISTENTI SOCIALI E DEGLI ASSISTENTI SOCIALI SPECIALISTI seduta CROAS Lombardia del 16 novembre 2009 richiede una ulteriore fase di approfondimento che analizzi il contesto istituzionale, organizzativo e operativo dei servizi in cui operano gli assistenti sociali in Lombardia;

- di allocazione di risorse: la quantificazione delle risorse, in relazione alle diverse fasi di creazione del sistema, appare di incerta attribuzione senza indicazioni più precise da parte del CNOAS. Nell’art. 8 comma 3 viene infatti esplicitato che i CCRR “favoriscono la formazione gratuita in modo da consentire a ciascun iscritto l’adempimento dell’obbligo formativo, con eventuale recupero delle spese sostenute. A tal fine utilizzeranno risorse proprie o quelle ottenibili da sovvenzioni o contribuzioni erogate da enti finanziatori pubblici o privati.”

Si ritiene indispensabile:
  • Richiedere chiarimenti nell’incontro nazionale del 27-28 novembre con possibilità di decentrare a livello territoriale conoscenza e confronto sul tema della formazione permanente.
  • Attivare gruppi di lavoro a rilievo nazionale, inter-regionali e regionali misti (consiglieri - iscritti) per avviare un sistema di formazione permanente efficace e sostenibile.

Giustizia: Ionta; le misure alternative? non sono una soluzione

Redattore Sociale - Dire, 19 novembre 2009

Il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria è intervenuto al convegno del Seac: "Nelle carceri siamo al pre-collasso, e l’immagine del sistema penitenziario è negativa. Col nuovo piano di edilizia penitenziaria andrà meglio".

"La morte di Cucchi è una storia dolorosa da qui trarre insegnamento per abbandonare le logiche burocratiche e autoreferenziali con cui si è mosso l’ordinamento giudiziario". È quanto afferma Franco Ionta, Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, intervenuto al convegno del Seac sullo stato del sistema sanzionatorio. "Questa persona ha avuto contatti con varie strutture dello Stato che si sono mosse con atteggiamento esclusivamente burocratico - continua Ionta - da qui muove l’inchiesta amministrativa che ho disposto per fornireelementi che portino alla verità su questa vicenda".

Sul sovraffollamento nelle carceri Ionta parla di "situazione di pre-collasso, allarmante per la cronica carenza del personale, in cui la massima capienza è l’unico criterio da seguire".

Ionta ha ricordato che la popolazione carceraria è passata dai 39 mila detenuti del 2006 ai 64 mila del 2009. "L’immagine mediatica del sistema penitenziario è negativa anche quando i fatti succedono fuori dalle strutture penitenziarie - continua -: è vero che ci sono morti in carcere, atti di autolesionismo ma ci sono anche aggressioni quotidiane agli agenti".

Sulle prospettive future Ionta afferma che "si percepisce oggi lo Stato repressore e l’avversario nella polizia penitenziaria". Per il Capo dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, "le misure alternative non sono la soluzione dal problema del sovraffollamento delle carceri. Sono solo una soluzione parziale perché la società richiede più prigione e più sicurezza". Sul piano di edilizia penitenziaria Ionta ha detto: "Con più posti si starà meglio in carcere e la polizia penitenziaria lavorerà meglio e con più dignità".

martedì 17 novembre 2009

SATIRAINBLOG

fonte: controcorrentesatirica

Richiesta Pd per un'indagine conoscitiva sullo stato delle carceri italiane, sulla sanità penitenziaria e sui decessi in carcere

I detenuti ospitati nelle strutture carcerarie italiane sono circa 65.000, una cifra che è destinata ad aumentare ad oltre 70.000 unità entro la fine del 2009.
Si tratta di un 'primato' mai raggiunto nella storia repubblicana che pone problemi molto rilevanti a cui il Parlamento deve dare risposte efficaci, rapide ed esaurienti. Le carceri italiane non sono in grado di sostenere tali presenze. I 206 istituti di pena possono 'tollerare' 64.237 detenuti nonostante, da regolamento non potrebbero ospitarne più di 43.087.

Siamo ampiamente oltre la soglia massima di tolleranza che prefigura una situazione di emergenza per il paese, come confermano le dichiarazioni del direttore Dipartimento amministrazione penitenziaria (Dap), Franco Ionta, che, in una recente audizione in commissione Giustizia ha parlato di 'situazione in grado di compromettere la sicurezza del Paese'.

L'assenza di un Piano carceri e i recenti tagli alle risorse destinate alla giustizia effettuati dall'attuale Governo stanno causando esiziali difficoltà di gestione ed efficienza amministrativa negli istituti penitenziari sull'intero territorio nazionale, difficoltà che, in taluni casi, raggiungono punte di vera e propria «emergenza umanitaria» in palese contraddizione con i diritti costituzionalmente garantiti.

Diverse associazioni hanno lanciato l'allarme sulle condizioni delle carceri: dall'Unione camere penali, all'Associazione dei dirigenti dell'amministrazione carceraria, dal SAPPE (sindacato della polizia penitenziaria) al Garante dei detenuti della regione Lazio, tutti concordi nell'affermare che le condizioni attuali di vita carceraria sono spesso lontane dai normali livelli di civiltà e di rispetto della dignità del detenuto.

Il tema del sovraffollamento degli istituti di pena è all'ordine del giorno in tutto il paese con punte molto preoccupanti in alcune realtà regionali (Campania, Emilia Romagna, Lombardia, Puglia, Sicilia, Toscana, Veneto).

L'aumento della popolazione carceraria risulta essere inversamente proporzionale alla presenza del personale di polizia penitenziaria. I dati fotografano chiaramente questa tendenza: nel 2001 erano presenti 41.608 agenti penitenziari a fronte di 53.165 detenuti, nel 2009 gli agenti sono 39.000 e i detenuti 64.859. La pianta organica della polizia penitenziaria è fissata per legge in 41.121 unità, ci troviamo pertanto con circa 6.000 agenti in meno a cui devono essere sommate le carenze di personale amministrativo, assistenti sociali, psicologi ed. educatori delle carceri.
L'analisi dello stato giuridico della popolazione detenuta evidenzia inoltre che per circa il 50% del totale dei detenuti si tratta di imputati in attesa di giudizio. Un dato sicuramente da tener presente nella valutazione della corretta applicazione delle misure di custodia cautelare e da porre al centro del dibattito sul ricorso a nuove pene alternative.

Relativamente al Piano carceri, di cui si auspica una rapida approvazione da parte del Consiglio dei ministri, la presente commissione è interessata a raccogliere tutti i dati che hanno contribuito all'elaborazione progettuale e di investimento, e quindi: la data di costruzione delle strutture e ultime ristrutturazioni; la dimensione, la capienza, l'igiene, l'illuminazione, il decoro e il clima delle celle; presenza dei presidi sanitari (infermerie, centri clinici, numero di medici), patologie più frequenti; segnalazioni di eventuali maltrattamenti e violenze, casi di morte e suicidio; adeguatezza degli spazi, della socialità e dell'attività studio e di lavoro dei detenuti: presenza media dei detenuti e del personale penitenziario (ivi inclusi educatori, assistenti sociali e psicologi).
La presente indagine conoscitiva si propone di approfondire i problemi dei sistema carcerario italiano acquisendo notizie ed informazioni utili a:

a) rispondere alla grave emergenza del sovraffollamento degli istituti di pena, ponendo particolare attenzione alle condizioni di vita dei detenuti, allo stato dell'edilizia penitenziaria e agli spazi detentivi, in relazione anche al profilo specifico degli stessi (tossicodipendenza e malattie psichiatriche);

b) verificare la corrispondenza e la sostenibilità del numero di personale di polizia penitenziaria rispetto alla popolazione carceraria;

c) approfondire le condizioni della sanità penitenziaria a seguito del passaggio al Ssn;

d) comprendere i dati e le cause relative al numero di morti e di suicidi in carcere e i fenomeni di autolesionismo e di violenza in genere;

e) esaminare il tema e l'attuazione del diritto allo studio e al lavoro in carcere;

f) accertare la corretta e compiuta attuazione dei regolamenti penitenziari;

g)verificare l'attuale normativa dell'edilizia carceraria al fine di ripensare il modello penitenziario e affrontare le nuove esigenze e i nuovi bisogni dei detenuti, anche acquisendo i progetti di ristrutturazione in corso;

h)verificare sulla base dello statuto delle Casse delle Ammende anche i progetti di recupero e reinserimento sociale che possono essere finanziati.

Per le suddette finalità, ai sensi dell'articolo 144 del Regolamento della Camera, procede ad acquisire notizie, informazioni e documenti anche attraverso l'audizione di qualsiasi persona in grado di fornire elementi utili all'indagine stessa e sopralluoghi, anche con esperti, nelle carceri individuate a campione.

Roma, 11 novembre 2009

On. Donatella FERRANTI
Capogruppo PD II Commissione Giustizia