L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

mercoledì 30 aprile 2008

Giustizia/Carcere: I dati reali e la cultura dell’intolleranza sul carcere


di Giuseppe D. Colazzo (CFPP-Casa di Carità Onlus - Torino)

Ristretti Orizzonti

È di nuovo emergenza carcere. Dai dati raccolti dal Ministero della Giustizia risulta che l’affollamento negli Istituti di pena ha superato il livello di pareggio tra posti disponibili e numero di presenze, con una media di 113 detenuti presenti per 100 letti. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha pubblicato i dati della situazione al 14 febbraio 2008: 50.250 presenze, circa 7.000 in più della capienza regolamentare (43.216 presenze). Se si considera che i detenuti tendono ad aumentare di 1.000 unità al mese, è facile prevedere che alla fine del 2008 si oltrepasserebbe la soglia delle 60.000 presenze, cioè ci troveremmo nella medesima situazione della vigilia dell’approvazione della legge sull’indulto.
Certamente l’indulto ha lasciato il segno e la questione della recidività è tornata ad essere da un lato argomento discusso tra gli studiosi di scienze sociali, dall’altro sembra essere la giustificazione per propagandare politiche penali più repressive: più carcere, meno misure alternative, lavoro coatto, tolleranza zero per gli autori di reato; i mezzi di comunicazione di massa fanno la loro parte nel fomentare le paure dei cittadini indicando nell’indulto la causa di tutti i mali, senza mai fare riferimento a dati oggettivi.
Da una ricerca di prossima pubblicazione commissionata dal Ministero della Giustizia e condotta dai prof. G. Torrente, C. Sarzotti e G. Jocteau della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Torino risulta che circa 7.000 "indultati" sono stati arrestati per aver commesso un nuovo reato. Certamente non sono pochi, intorno al 20% di coloro che hanno usufruito del provvedimento di clemenza. Sono una goccia nel mare rispetto ai 130-140 mila ingressi in carcere registrati dal 1° agosto 2006 ad oggi. D’altra parte non si può dimenticare che, senza l’indulto del 2006, le proiezioni ci dicono che oggi la popolazione reclusa supererebbe abbondantemente le 70.000 unità: un disastro umanitario ed una minaccia per la collettività.
Secondo la stessa ricerca una forte riduzione della recidiva si riscontra negli ultimi mesi del 2007. Per il prof. Torrente ciò è dovuto probabilmente al fatto che sono entrati in funzione quei progetti di accoglienza e reinserimento sociale di ex detenuti avviati alcuni mesi dopo l’indulto; inoltre, sempre secondo Torrente, il deterrente maggiore per chi ha fruito del provvedimento di clemenza è che, in caso di recidiva, si deve scontare l’intera pena. Conclude dicendo che, in generale, "se si supera il primo periodo si cerca di stare più attenti".
Questa ricerca, ma anche un’altra condotta sempre dal prof. Torrente a sei mesi dalla legge sull’indulto, evidenzia in modo chiaro una colpevole incompetenza, forse anche voluta, da parte dei mezzi di comunicazione di massa. Non solo, ma se si attuano politiche di recupero e di risocializzazione la recidiva tende a diminuire, confermando in un certo senso anche altre ricerche condotte sul grado di recidività di detenuti ammessi alle misure alternative, dalle quali risulta che il tasso di recidività è estremamente più basso rispetto al 70% riferito a coloro che hanno scontato tutta la pena in carcere: infatti i dati del Ministero della Giustizia riferiti alle revoche registrate dal 2001 al 2006 ci dicono che sono state revocate complessivamente 19.281 misure alternative su 277.367 concesse, cioè la media del 6,92%; di queste solo 622 (0,22%) sono state revoche per commissione di reati durante la misura, 12.866 (4,63%) per andamento negativo, 5.384 (1,93%) per nuova posizione giuridica per assenza di requisiti giuridico-penali previsti, 263 (0,10%) per irreperibilità, 146 (0,05%) per altri motivi.
Per contro l’andamento positivo registrato nei 6 anni è in media del 93,08%. Inequivocabilmente i dati sottolineano il buon andamento delle misure alternative, almeno durante la loro esecuzione. E dopo? Tutte le ricerche condotte evidenziano che nei 5 anni successivi alla fine dell’esecuzione della pena in misura alternativa la recidività aumenta e si attesta intorno al 20-25%, estremamente al di sotto di quel 70-80% del tasso di recidività riferita a ex detenuti che hanno espiato tutta la pena in carcere.
Per sottolineare ulteriormente il livello di disinformazione esistente nel nostro Paese occorre fornire ancora alcuni dati sul numero dei reati. Negli ultimi mesi del 2007 i reati sono diminuiti di 145.043. Si è passati da 1.466.614 delitti, del 2°semestre del 2006, a 1.323.118 del 2°semestre del 2007. Omicidi volontari: 335 nel 2006, 277 nel 2007; lesioni dolose: 30.817 nel 2006 e 27.222 nel 2007; violenze sessuali: 2.309 nel 2006, 2.057 nel 2007; totale rapine: 27.568 nel 2006, 22.675 nel 2007; reati legati agli stupefacenti: 16.780 nel 2006, 16.610 nel 2007. L’unico reato che è aumentato nel 2°semestre del 2007 (80.549) rispetto al 1°semestre del 2007 (77.184), ma in calo rispetto al 2°semestre del 2006 (83.396) è il furto in abitazione, mentre le estorsioni sono calate nel 2° semestre 2007 (2.658) rispetto al 1° semestre (3.144), ma sono aumentate, seppur di poco, in confronto al 2° semestre 2006 (2.597).
Poi c’è il problema degli stranieri. A livello nazionale tra il 1980 e il 1990, fra le persone in carcere, il 15% erano stranieri. A giugno 2005 erano il 31,1% mentre al 31 dicembre 2007 sono aumentati al 37,7% provenienti da 144 Paesi diversi (in Piemonte al 31 dicembre 2007 gli stranieri erano il 52,2%, a Torino il 45%). I Paesi più rappresentati in carcere sono: Marocco 20,8%; Romania: 14,4%; Albania: 12,2%; Tunisia: 10,2%; Algeria: 5,7%; Nigeria: 3,7%; Iugoslavia: 3,0%; Egitto: 1,8%; Senegal: 1,8%; Cina: 1,4%; altri Paesi 24,8%. In valori assoluti gli stranieri al 31 dicembre 2007 presenti nelle prigioni italiane erano 18.252 su una popolazione complessiva di 48.693 (a febbraio, come detto sopra è arrivata a contare 50.250 unità).
Infine è doveroso sottolineare che la popolazione detenuta è costituita per il 3,2% da condannati per mafia, per il 3,7% di detenuti per reati contro l’amministrazione, per il 23,4% da tossicodipendenti , mentre il 64% ha un grado di istruzione che non va oltre la licenza media inferiore. Nella sostanza il carcere sta diventando sempre di più una discarica sociale dove finisce solo la manovalanza del crimine.
Dopo aver sciorinato un po’ di numeri cerchiamo di analizzare, per quanto è possibile, la situazione reale. Nonostante l’indulto le carceri continuano a riempirsi. E questo era facilmente prevedibile perché il provvedimento di indulto avrebbe dovuto essere accompagnato da una riforma del sistema penale volta alla riduzione del ricorso alla carcerazione al minimo indispensabile, è necessario contenere il "bisogno di prigione" nei limiti della sua efficacia rispetto allo scopo (L. Manconi, Sottosegretario alla Giustizia).
A parte le posizioni politiche, dalle ricerche sopra esposte è evidente che le misure repressive d’emergenza non affrontano il problema di lungo periodo perché "pretendono di svuotare la vasca della criminalità schiacciando l’acqua con una mano. Senza sapere che poi torna al suo posto quando si toglie la mano. Senza capire che, se si vuole ottenere una riduzione permanente del crimine bisogna analizzare e contrastarne la cause".
Certamente la minaccia della repressione dello Stato è necessaria, ma solo nel breve termine, mentre nel lungo periodo la guerra alla criminalità si vince solo se si riesce a instaurare una cultura della legalità, come evidenziato da una ricerca condotta da P. Buonanno dell’Università di Bergamo e P. Vanin dell’Università di Padova i cui dati sono di prossima pubblicazione sul Journal of Law and Economics, la più prestigiosa rivista internazionale in materia di diritto ed economia, i quali concludono dicendo che il senso civico e la presenza di una densa rete associativa sul territorio riducono i crimini in modo significativo.
Tutte le indagini ci suggeriscono, se ancora ce ne fosse bisogno, che l’incapacitazione dell’individuo sposta semplicemente avanti nel tempo la sua azione deviante o criminale, pertanto le misure emergenziali, se non accompagnate da serie azioni di rieducazione e di risocializzazione non sono in grado di ridurre la criminalità nel lungo periodo. Se si continua a percorrere la strada della carcerazione di massa a scapito del welfare state, come avviene in America, si finisce di dire addio alle conquiste civili affermatesi nel secondo dopoguerra. Occorre investire non solo su una riforma del sistema penale ma anche sulle misure alternative perché abbattono la recidiva a circa il 20%; soltanto un potenziamento delle politiche sociali può garantire anche una sicurezza urbana, altrimenti la dignità della persona non sarà più il fondamento di uno Stato. Investire in politiche sociali vuol dire anche destinare più risorse umane ed economiche al terzo settore della nostra società che, attraverso la formazione professionale (in carcere e fuori) e progetti di inserimento socio-lavorativo da attuare nei confronti di detenuti in misure alternative ed ex-detenuti, contribuisce in modo determinante alla riduzione della recidiva.
Il carcere non è la soluzione alla criminalità "perché chi entra in un carcere è un emarginato, ma chi ne esce, in assenza di una politica di inclusione e reinserimento sociale, è emarginato due volte" (R. Loddo, Ass. 5 novembre).
Sta prendendo piede, e non solo in Italia, un pensiero intollerante, emergenzialista e giustizialista che attraverso strategie di esclusione aumenta i disagi sociali e produce un tipo di devianza da scaricare e nascondere poi in carcere. La tolleranza zero ha fallito e ce lo dicono i numeri: negli Stati Uniti dove è nata la politica di zero tollerance la popolazione carceraria è superiore a quella di qualsiasi altro Paese al mondo: 2 milioni e 300 mila persone private della libertà, 1000 detenuti su 100 mila abitanti, mentre in Europa il tasso medio è di 125 su 100 mila abitanti. Eppure stiamo seguendo quella strada.
Usare il carcere come il contenitore nel quale collocare tipologie di persone con bisogni e domande diverse (tossicodipendenti, extracomunitari, ammalati di Aids o affetti da Hiv; persone con patologie psichiatriche, etc.) significa creare i presupposti per la deriva della giustizia.
Da alcuni anni si continua a ridurre il budget per il funzionamento della giustizia con l’intento di ridurne le spese: eppure questa tendenza, a conti fatti, non solo non riduce le spese (bisogna affrontare l’emergenza), ma diventano più onerosi i costi sociali e umani conseguenti ai reati commessi.
I mass-media, attenti più alle vendite o all’audience, non ci aiutano a capire il fenomeno, anzi, in maniera incompetente, aumentano l’insicurezza e la paura tra i cittadini. L’articolo apparso il 23 aprile su www.ristretti.it riassume il sentimento di coloro, noi compresi, che combattono la cultura dell’intolleranza propagandata colpevolmente dai mezzi di comunicazione di massa.
"Con spregiudicatezza irresponsabile si fa a gara per mettere al centro dell’informazione episodi di cronaca nera raccontando fatti, mettendo insieme frasi raccolte, assemblando immagini il cui effetto è di incutere nei telespettatori, soprattutto nelle fasce di popolazione più fragili per età e per cultura, un senso di terrore incombente alimentato dalla presenza degli stranieri. A volte, meno importanti e più normali, invece, appaiono paradossalmente i delitti di sangue più efferati commessi dai mostri nostrani e spesso rappresentati con i plastici in miniatura nella trasmissione "Porta a porta". Con tali modalità di comunicazione mediatica, probabilmente finalizzata ad orientare l’opinione pubblica per la scadenza elettorale, si sta perpetrando a spese della comunità un danno di proporzioni incommensurabili.
La ferita al corpo sociale, inferta da un’informazione siffatta, è priva, a mio avviso, dei principi basilari dell’etica giornalistica e indica indirettamente strade selvagge di "coprifuoco" permanente, di chiusura e aggressività verso chiunque abbia tratti somatici o linguistici o nomi diversi dai nostri.
Si tratta di un’opera sistematica scellerata di distruzione progressiva del sistema naturale delle relazioni umane. Si tratta di una lucida folle filosofia che si inietta pericolosamente nell’opinione pubblica per far credere che l’unica soluzione per la sicurezza sia la costruzione di infinite carceri e manicomi dove dividere i "cattivi" dai "buoni".
È un’incultura delle barricate che suggerisce allo spettatore acritico il rifugio principe dove sentirsi più sicuri al tramonto: in casa, davanti agli accattivanti intrattenimenti e format televisivi, dove l’unico innocuo gioco interattivo è il televoto a pagamento. Uno schermo intercetta e si sostituisce al nostro bisogno di relazioni sociali e affettive e le fa entrare virtualmente dentro ogni salotto e camera da letto attraverso il reality show, dove non esistono fastidiose o "minacciose" presenze di rom, immigrati ed extracomunitari". (Domenico Ciardulli, in www.ristretti.it)
Mentre l’informazione mediatica persevera a costruire una pseudo realtà, decidendo arbitrariamente quali notizie sono meritevoli di conoscenza da parte del pubblico, la situazione è tornata a quella pre-indulto, grazie alle attuali leggi sulle droghe (legge Fini-Giovanardi), sull’immigrazione (legge Bossi-Fini) e sulla recidiva (legge ex Cirielli), che hanno continuato a far aumentare gli ingressi in carcere, con un incremento di circa un migliaio di persone al mese.

Giustizia/Carcere: Osapp; carcere autorevole, per certezza della pena


Giustizia: Osapp; carcere autorevole, per certezza della pena

Apcom, 30 aprile 2008

"Ormai gli allarmi lanciati ogni mese per il sovraffollamento delle carceri diventano sempre più irreali, ma ci sembra ancora più irreale che un ministro degli Interni dichiari apertamente che la certezza delle pena sia la cosa più incerta in questo nostro Paese: come ad ammettere la propria disarmante incapacità a comprendere un fenomeno che coinvolge direttamente la realtà dei 207 istituti penitenziari italiani, e la vita di 42.000 uomini e di donne delle forze della Polizia Penitenziaria". Lo dichiara in una nota Leo Beneduci, segretario generale dell’Osapp, il sindacato della Polizia penitenziaria.
"Stando alle statistiche il 41% dei 51.000 detenuti, presenti oggi nelle carceri, è dentro per condanna definitiva, il rimanente 59% è in attesa di sentenza - spiega Beneduci - se ci interroghiamo sulle cause di questa situazione avvertiamo l’esigenza di puntare l’indice verso un sistema di norme che non consente la celebrazione di processi in tempi brevi e certi: pensiamo per esempio alla legge ex Cirielli, non modificata dal precedente Esecutivo, e che ha accorciato di molto i termini di prescrizione del reato, o a tutte quelle norme promesse nella Legislatura passata, che non hanno avuto il giusto esito nelle Commissioni parlamentari, ma che avrebbero rivisto i meccanismi di un processo penale oggi troppo farraginoso e lungo".
"A questa incapacità di sistema, troppo spesso appunto caratterizzato da una selva di norme contrastanti tra loro, abbiniamo l’incapacità dei nostri governanti - prosegue l’Osapp - a guardare con più previdenza una condizione penitenziaria che, allo stato dei fatti, rischia di trasformarsi in una bomba sociale molto pericolosa".
"Sosteniamo con forza che le risposte alle domande poste dal ministro Amato si possano ritrovare nella considerazione del carcere, e della sua funzione": per l’Osapp quindi "attivare l’idea di un ordinamento autorevole, come quella dell’istituto di pena, che fa scontare la pena, perché è il sistema Giustizia che lo consente, ma al tempo stesso concede la possibilità al detenuto di affrancarsi dalla propria condizione sociale, è un primo passo verso quell’immagine a cui ci auguriamo il Nuovo Governo potrà tendere in futuro".

Giustizia: sul tema della sicurezza il dovere di agire con i fatti

di Paolo Graldi

Il Messaggero, 30 aprile 2008

C’era chi diceva Sicurezza e scriveva tolleranza, chi Scriveva sicurezza e urlava tolleranza zero. In quest’altalena di buonismi intinti nell’ideologia e fermezze anche eccessive vagamente razziste si è arrivati al voto. E il voto ha detto che i cittadini italiani considerano la Sicurezza, a ragione o a torto rispetto alle statistiche rassicuranti, un bene primario, indefettibile, irrinunciabile. Chi ha puntato sulla Sicurezza, considerandola un nodo da sciogliere e risolvere, almeno al Nord e poi a Roma, ha vinto la partita delle urne. Su quest’indicazione elettorale i dubbi stanno a zero.
E anche gli sconfitti, di fronte alla forza dei numeri, ammettono ormai apertamente dì non aver saputo cogliere appieno questo forte richiamo della gente. E così la lotta al crimine nelle sue più variegate forme, percepito come fenomeno immanente su tutti o realmente vissuto e subìto in larghe zone del Paese (è paradossale ma sembrano lamentarsene meno là dove esso è più crudo, diffuso e crudele) è entrato da protagonista assieme alla crisi economica nell’agenda della politica della sedicesima legislatura.
Il governo Berlusconi ha le idee chiare sul testa: nel senso che ha promesso di prendere il toro per le corna e di piegarne ogni resistenza. I fatti ci diranno se gli impegni solenni - non si rintracciano esaltanti esempi per il passato, da una parte e dall’altra - sapranno tradursi in realtà non soltanto percepibili ma anche concretamente apprezzabili.
Purtroppo, non basta dire, basta al crimine per dare concretezza a un’azione che dev’essere vasta, incisiva, ricca di intenzioni e di procedure adeguate ma anche, - scusate il "ma anche" - di mezzi e di uomini all’altezza della sfida.
Mentre il leader della Lega Umberto Bossi, con il suo linguaggio di carta vetrata, rubava la battuta al premier in pectore sul nome del futuro ministro dell’Interno (Maroni, e chi altri sennò?) il ministro uscente dal Viminale, Giuliano Amato ammetteva la propria insoddisfazione su come il governo di cui fa parte ha trattato il tema. E ha spiegato che da parte della "sua" maggioranza c’è stata la propensione (sempre "sottile" il linguaggio del ministro) a identificare la sicurezza solo come criminalità organizzata.
E a vedere invece la criminalità diffusa come un problema da affrontare solo in chiave sociale. Bella sintesi. Di fatto è sfuggita la comprensione di fatti che pure erano sotto gli occhi di tutti. A Roma, per esempio, e proprio su queste colonne per mesi si sono rappresentate piccole e assai meno piccole realtà criminali, specie in periferia ma anche nel centro storico, che aggiravano allegramente anche le più elementari forme di legalità, quasi che i comportamenti soggettivi o di gruppo fossero talmente ignorati da apparire consentiti e perfino incoraggiati.
È il caso del caos delle bancarelle piazzate ovunque, della prostituzione sulle Consolari dietro le quali si celava (e neppure tanto) l’agire di organizzazioni di autentici schiavisti. Figuri che spadroneggiavano sulle vite degli altri disponendone come di mercanzia a basso costo, del dilagare fin sotto la soglia della basilica di San Pietro, cioè sotto gli occhi del mondo, di gruppi di venditori ambulanti di merce contraffatta e così via elencando.
Per non dire dei quasi cento campi di nomadi disseminati dentro ogni anfratto dai quali prendevano (o prendono?) le mosse i padroni e predoni dell’accattonaggio organizzato. Ci sono voluti delitti inenarrabili, la morte inenarrabile di Giovanna Reggiani, per scatenare una reazione, metter mano a decreti severi e a imporre una riflessione sull’intera materia.
La macchina legislativa, complice di una titubanza un po’ ipocrita, votata solo al sociologismo facile, ha fatto il resto: tutto si è dissolto con la fine della legislatura e ora si dovrà ricominciare daccapo, rimettere insieme i pezzi di una architettura della sicurezza che il voto impone come priorità. Non sarà difficile constatare se il cambio di stagione politica e insieme il cambio di rotta sapranno prendere la giusta direzione con la necessaria determinazione.
Dice Antonio Manganelli, capo della Polizia di Stato, con una felice immagine, che non si deve parlare di poliziotti fuori dagli uffici per mandarli per le strade ma di mandare fuori dagli uffici gli adempimenti burocratici. E tuttavia il governo pronto a durare per i prossimi cinque anni, con la forza per farlo, dovrà decidere anche di dotare la fabbrica della sicurezza dei mezzi necessari, se è vero che la gran parte del parco macchine è obsoleto, che la benzina alle Volanti viene distribuita con il contagocce e gli organici non riescono a rispettare neppure il turnover.
La sicurezza è il bene più prezioso ma il costo è alto: da qui bisognerà partire. E poi dovrà essere l’intera macchina a rimettere le giuste cinghie di trasmissione. La macchina giudiziaria, strangolata dai suoi formalismi, dalle sue lentezze e dalle sue lungaggini, finisce per essere, oggettivamente, la complice più affidabile dei criminali.
Arrestati, incarcerati e restituiti in massima parte alla libertà quasi subito, aspettando di un processo che chissà quando si farà e in attesa del quale tutto consiglierà di delinquere ancora. Dentro questo bubbone la parte più infetta è rappresentata da quella immigrazione clandestina che non sa dove sbattere la testa e viene fatalmente risucchiata dalla fitta rete di traffici illeciti. E, dentro questa, c’è ancora presente e pressante una criminalità irriducibile, che viene dall’Est e spadroneggia nella presunzione di non essere stata mai vista, registrata, osservata: questa è la più pericolosa in assoluto, questa mette davvero paura e su questa la mannaia della legge dovrà cadere senza inciampare in un garantismo che stravolge l’evidenza e lascia che s’accrediti l’idea che qui, da noi, tutto è possibile. Straordinari sono i successi investigativi e pochi i delitti senza colpevoli scoperti e catturati.
Ma i colpevoli non devono restare colpevoli e impuniti. La certezza della pena deve cessare d’essere uno slogan e diventare dato giuridico e giudiziario. Su questo, tra Amato e Maroni dovrà verificarsi quella discontinuità nei fatti (sulle intenzioni Amato ha poco da rimproverarsi) che i cittadini hanno chiesto con il voto nazionale e poi con quello perla guida della Capitale.

lunedì 28 aprile 2008

Giustizia/Carcere- Sappe: serve maggiore ricorso a misure alternative


Il Velino, 28 aprile 2008

"Auspichiamo una svolta bipartisan di governo e Parlamento per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile, che ripensi organicamente il carcere e l’Istituzione penitenziaria, anche alla luce della sostanziale inefficacia degli effetti dell’indulto.
Destra, Sinistra e Centro concentrino sforzi comuni per varare una legislazione penitenziaria che preveda un maggiore ricorso alle misure alternative alla detenzione, l’adozione di procedure di controllo mediante strumenti elettronici o altri dispositivi tecnici (come il braccialetto elettronico) delineando per la Polizia Penitenziaria un nuovo impiego e un futuro operativo, al di là delle mura del carcere, parallelamente all’affermarsi del suo ruolo quale quello di vera e propria polizia dell’esecuzione penale, la costituzione di una direzione generale della Polizia penitenziaria nell’ambito del dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria".
È quanto chiede in una nota indirizzata agli oltre 950 parlamentari del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati la segreteria generale del sindacato autonomo Polizia penitenziaria Sappe, organizzazione più rappresentativa della categoria con 12 mila iscritti. La lettera, a firma del segretario generale Sappe Donato Capece, sottolinea come "la questione penitenziaria deve essere posta tra le priorità di intervento di governo e Parlamento, anche con il suo prezioso contributo.
Negli ultimi dieci anni c’è stata un’impennata dei detenuti stranieri nelle carceri italiane: oggi rappresentano il 40 per cento del totale dei detenuti che è arrivato a quota oltre 52 mila e quindi sarebbe opportuno prevedere la loro immediata espulsione dall’Italia per fargli scontare la pena nelle carceri del loro paese d’origine". Il Sappe evidenzia che ogni anno le celle delle 205 carceri italiane si aprono per 90 mila detenuti di cui, però, 88 mila escono nel giro di 12 mesi.
A questo turnover molto alto si aggiunge un periodo di permanenza in carcere assai breve: in cella, nella maggior parte dei casi, non si resta più di 90-120 giorni (il 62 per cento degli imputati fino a un mese, mentre circa il 31 per cento dei condannati da 6 a 12 mesi). Questo meccanismo di flusso viene definito "endemico" dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) e su di esso l’indulto, approvato più di un anno e mezzo fa da Parlamento, ha avuto una incidenza bassa.
"Il carcere dei nostri giorni - prosegue nella sua nota Capece - è diventato il luogo di raccolta delle espressioni del disagio sociale ed è quindi caratterizzato sempre più per la transitorietà delle permanenze e per la presenza di patologie, anche infettive, conseguenza di stili di vita inadeguati. E ciò si ripercuote principalmente sulle donne e gli uomini del Corpo di Polizia penitenziaria, che in palesi e gravi carenze di organico, svolgono questo duro e difficile lavoro 24 ore su 24.
Urgono interventi concreti in materia di esecuzione della pena, di assunzione di personale, di dotare finalmente il dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria di quella direzione generale assolutamente necessaria e che non più attendere oltre: la direzione generale del Corpo di Polizia penitenziaria, che ponga in capo a sé tutte le attività di competenza del Corpo oggi frammentate tra le varie articolazioni del Dap". Proprio perché quella della sicurezza è una priorità per chi ha incarichi di governo e legislativi, auspichiamo una larga intesa politica per una nuova politica della pena, necessaria e non più differibile".

Giustizia/Carcere: 38% detenuti è straniero, la "babele" delle carceri


di Andrea Maria Candidi (Il Sole 24 Ore, 28 aprile 2008)

La "Babele" delle carceri Gli stranieri sono il 38% dei detenuti, oltre 4mila dal Marocco c Quattro detenuti su dieci sono stranieri. Degli attuali 51.763 "ospiti" delle prigioni italiane,19.583 vengono dal resto del mondo: a voler essere precisi gli immigrati sono 38 su cento, con un trend che spinge velocemente verso il punto di pareggio: tanti italiani quanti stranieri presenti.
È questa l’impietosa fotografia scattata il 31 marzo scorso dal Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia, al nostro sistema carcerario. È la fotografia di una "città" che conta provenienze da 140 Paesi dei cinque continenti; abitanti che comunicano in altrettanti idiomi e lingue. Un’autentica Babele, dove un norvegese sta a fianco di un maori e un marocchino deve spiegarsi con un uruguagio. In ambienti ristretti, gomito a gomito, condividendo non di rado spazi insufficienti per una sola persona.
Una fotografia cruda, che mette a nudo tutta la drammaticità di una situazione già definita, su queste stesse pagine (lo scorso 7 aprile), al limite del collasso. Anzi, un gradino già più in là, ineluttabilmente verso il punto di non ritorno che ha portato due anni fa ad approvare la legge sull’indulto con il solo scopo di svuotare le celle e che ha invece raggiunto l’unico obiettivo di aumentare il senso di insicurezza dei cittadini.
Complice anche la ruggine che inceppa i meccanismi della giustizia penale. Basti ricordare che per l’Istat - statistiche sull’andamento annuale dei fenomeni criminali - a fronte di 100 denunce presentate le condanne comminate sono solo otto. E mentre ci si chiede dove siano finiti gli altri 92 reati, nelle carceri si torna al punto di partenza: solo negli ultimi tre mesi l’incremento del numero dei detenuti è stato del 6.3% (del 32%, invece, rispetto alla fine dei 2006).
Quest’ultimo censimento penitenziario, dunque, testimonia ancora una volta come il tasso di sovraffollamento continui a crescere, avendo abbandonato ormai da un pezzo la normalità, e viaggiando invece sulla soglia dei 120 detenuti per 100 posti disponibili. A farla da "padroni" in questi angusti spazi, oltre naturalmente ai connazionali, ci sono i marocchini, con un contingente di 4.199 unità (praticamente un quinto del totale degli stranieri detenuti), in compagnia di romeni (a quota 2.738) e albanesi (2.380). Una Babilonia nella quale puoi trovare persone provenienti dagli angoli più sperduti del pianeta, addirittura uno dalle Seychelles.
Difficile immaginare quale "forza" lo abbia spinto fin qui. Vero è che tale eterogeneità non sembra distinguere solo i nostri penitenziari: l’analisi del fenomeno negli altri Paesi europei mostra infatti come, tutto sommato, l’Italia non sia una mosca bianca, sebbene Francia, Germania e Regno Unito siano ben al di sotto delle nostre medie.
Un’altra immagine, ancor meno consolante per un Paese civile, emerge dalla composizione della popolazione carceraria in base alla "posizione giuridica": solo il 40 per cento si trova "dentro" per aver subito una condanna definitiva. Il resto è in attesa, in una sorta di limbo, parcheggiato. Avendo ormai scambiato, con allarmante leggerezza, la carcerazione preventiva per un anticipo di pena.
Qui, peraltro, la differenza di nazionalità gioca un ruolo determinante. Scorporando infatti i detenuti nelle due grandi famiglie degli italiani e degli stranieri, le disparità sono ancora più marcate. Nel primo caso i rinchiusi in attesa di sentenza definitiva sono il 49 per cento; nel caso degli stranieri, invece, la percentuale sale fino al 68.2%. Più di due detenuti di altra nazionalità su tre sono quindi in attesa della parola conclusiva sulla propria sorte processuale. E spesso non c’è stata neanche la sentenza di primo grado. Troppo spesso: 31 volte su 100 complessivamente, a prescindere dal Paese di origine. Questi dati possono forse non sorprendere gli addetti ai lavori, perché di spiegazioni tecniche ce ne saranno pure. E più d’una. Ma è singolare che sei volte su dieci, quando si parla di qualcuno rinchiuso in carcere, nessuno sia in grado di dire se effettivamente è "giusto" che sia così. E in modo definitivo.

domenica 27 aprile 2008

Carcere/Giustizia: Stato- prigione




Di Llewellyn H. Rockwell, Jr. (Prison Nation http://mises.org/story/2957)
Gli Americani, come forse ogni popolo, hanno una notevole capacità di disconnettersi da spiacevolezze che non li interessano direttamente. Sto pensando ad esempio alle guerre in terre straniere, ma anche al fatto stupefacente che gli Stati Uniti sono diventati il paese più innamorato delle prigioni del mondo, con oltre uno su 100 adulti che vivono come schiavi in carcere. Costruire e amministrare prigioni, rinchiudere la gente, sono diventati in un'attività importante del potere del governo nel nostro tempo, e per coloro che amano la libertà è già arrivato da molto il momento di cominciare preoccuparsi.Prima di arrivare alle ragioni, guardiamo ai fatti come riportati dal New York Times. Gli Stati Uniti sono primi al mondo nella produzione di prigionieri. Ci sono 2,3 milioni di persone dietro le sbarre. La Cina, con una popolazione quattro volte superiore, ha 1,6 milioni in prigione.In termini di popolazione, gli Stati Uniti hanno 751 persone in carcere ogni 100.000, mentre il competitore più vicino a questo proposito è la Russia con 627. Sono colpito da questo numero: 531 a Cuba. Il tasso globale medio è 125.Veramente sorprendente è che la maggior parte di questa tendenza all'incarceramento è recente, risale in effetti agli anni 80, e la maggior parte di tale cambiamento è dovuto alle leggi sulla droga. Dal 1925 al 1975, il tasso di incarceramento era stabilizzato a 110, inferiore alla media internazionale, che è ciò che potreste aspettarvi in un paese che pretende di stimare la libertà. Ma è quindi schizzato su all'improvviso negli anni 80. C'erano 30.000 persone in carcere per droga nel 1980, mentre oggi sono mezzo milione.Altri fattori includono l'attuale criminalizzazione di quasi tutto, persino il oltrepassare dei blocchi o il più piccolo dei furti. Ed i giudici sono sottoposti ad ogni specie di numeri minimi di sentenze richieste. Ora, prima di spostarci verso le cause e le risposte, vi prego di considerare cosa significa prigione. Le persone all'interno sono schiave dello stato. Sono catturate e rinchiuse e considerate dai loro rapitori come niente più di esseri biologici che occupano spazio. L'erogazione di qualsiasi servizio è contingente ai capricci dei loro padroni, che non hanno interesse alcuno nel risultato.Ora, potreste dire che questo è necessario per qualche persona, ma siate consapevoli che si tratta del supremo assalto alla dignità umana. Essi “stanno pagando il prezzo” per le loro azioni, ma nessuno è nella posizione di trarre beneficio dal prezzo pagato. Non stanno lavorando per ripagare debiti o compensare vittime o lottando per superare qualche cosa. Stanno solo “passando il tempo,” mentre costano ai contribuenti quasi 25.000 dollari a testa. Questo è tutto ciò che queste persone sono per la società: un costo, e sono trattate come tali.E le comunità in cui vivono in queste prigioni consistono di altra gente senza valore, e socializzano in questa mentalità assolutamente contraria ad ogni nozione di civilizzazione. Quindi c'è l'inesorabile minaccia e la realtà della violenza, il rumore indicibile, la dominanza di ogni perversità morale. In breve, le prigioni sono l'Inferno. Non deve sorprendere se non riabilitano nessuno. Come disse George Barnard Shaw, “la prigionia è irrevocabile quanto la morte.”Ancora, tutto ciò che sappiamo circa il governo si applica a questo basilare programma governativo. È costoso (gli stati da soli spendono 44 miliardi di dollari nelle prigioni ogni anno), inefficiente, brutale ed irrazionale. Il sistema carcerario moderno è inoltre un fenomeno relativamente nuovo nella storia, usato per far rispettare priorità politiche (la guerra alla droga) piuttosto che per punire i crimini reali. Inoltre è azionato dalle passioni politiche piuttosto che da un genuino interesse per la giustizia. Lo scopo della guerra alla droga non è di ridurre il consumo ma piuttosto l'opposto. Le droghe illegali sono ora un'industria da 100 miliardi negli Stati Uniti, mentre la guerra alla droga di per sé è costata ai contribuenti 19 miliardi, proprio mentre i costi per operare il sistema della giustizia sono andati alle stelle (su del 418% in 25 anni).La gente dice che il crimine è calato, per cui il sistema deve funzionare. Bene, questo dipende da cosa intendete per crimine. L'uso e la distribuzione di droga sono associati con la violenza soltanto perché illegali. Sono crimini perché lo stato dice che sono crimini, ma non entrano nella definizione usuale che troviamo nella storia della filosofia politica, che si concentra sulla violazione della persona o della proprietà.Inoltre, il “crimine” dell'uso e della distribuzione di droga in realtà non è stato mantenuto basso; è solo diventato più sommerso. Con insieme somma ironia e giudizio sulla funzionalità delle prigioni, il mercato della droga è proprio lì molto attivo.Ora le cause. Alcuni sociologi danno la prevedibile spiegazione che tutto questo è dovuto alla mancanza di una “rete sociale di sicurezza” negli Stati Uniti. In primo luogo, gli Stati Uniti hanno avuto una tal rete per cento anni, ma questa gente sembra non averlo notato, anche se per alcune persone non c'è una rete simile abbastanza grande. Inoltre, è più probabile che la presenza stessa di una tal rete – che crea un azzardo morale di modo che la gente non impara ad essere responsabile del proprio benessere – contribuisca al comportamento criminale (tutto il resto essendo uguale).C'è, da ogni parte, chi attribuisce l'aumento a fattori razziali, dato che la popolazione incarcerata è sproporzionatamente nera e ispanica, e notando la disparità nei tassi del crimine in posti come il Minnesota con basse percentuali di minoranze etniche. Ma anche questo fattore potrebbe essere illusorio, particolarmente riguardo all'uso di droga, poiché è molto più probabile che un sistema di stato interferirà e punirà gli individui con minor influenza e peggior condizione sociale che quelli che lo stato considera rilevante.Un punto più significativo ci arriva dagli analisti politici, che osservano la politicizzazione delle nomine giudiziarie negli Stati Uniti. I giudici fanno carriera sulla loro “durezza contro il crimine,” o sono nominati su tale base, ed hanno quindi ogni motivo per rinchiudere più gente di quanta la giustizia richieda veramente.Un fattore cui non si è accennato finora nella discussione è il potere di pressione dell'industria carceraria stessa. La vecchia regola è che se sovvenzionate qualcosa, ne ottenete di più. E così è anche con le prigioni ed il complesso industrial-carcerario. Devo ancora trovare tutti i dati possibili su quanto grande questa industria sia, ma considerate che include aziende edili, manager di carceri private, guardiani, fornitori di servizi di ristoro, consiglieri, servizi di sicurezza ed altri 100 tipi di aziende per costruire e controllare queste società in miniatura. Che genere di influenza politica hanno? Sto speculando, ma dev'essere notevole.Per quanto riguarda l'interesse pubblico, ricordate che ogni legge, ogni regolamentazione, ogni linea nei codici governativi, è fatta rispettare in definitiva per mezzo del carcere. La cella della prigione è il simbolo ed il fine ultimo dello statalismo stesso. Sarebbe bello se pensassimo agli interessi di coloro che sono prigionieri nella società e di coloro che lo diventeranno. Ma anche se è improbabile che sarete uno di essi, considerate la perdita dell'intimità, la perdita della libertà, la perdita dell'indipendenza, la perdita di tutto ciò che eravamo abituati a considerare davvero americano, nel corso della costruzione dello stato-prigione.Ma il crimine non aumenterà se abbandoniamo il nostro sistema carcerario?Lasciamo la risposta a Robert Ingersoll:Il mondo è stato riempito di prigioni e segrete, di catene e fruste, di croci e patiboli, di schiacciadita e ruote da tortura, di boia e carnefici – ma questi terribili mezzi e strumenti e crimini hanno avuto ben poco successo nel preservare la proprietà e la vita. Si può ben dire dire che i governi hanno commesso molto più crimini di quelli che hanno evitato. Finché la società si piega e striscia di fronte ai grandi ladri, ce ne saranno sempre in abbondanza di piccoli per riempire le prigioni.


Llewellyn H. Rockwell, Jr. è presidente del Ludwig von Mises Institute di Auburn, in Alabama, editore di LewRockwell.com ed autore di Speaking of Liberty. Vedi il suo archivio su Mises.org.

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sabato 26 aprile 2008

Giustizia/Sicurezza- Veltroni: problemi di sicurezza dovuti anche all’indulto


Apcom, 26 aprile 2008

I problemi della sicurezza sono dovuti anche all’indulto approvato nel 2006, un "errore" di cui però è responsabile, oltre al Centrosinistra, anche Forza Italia. Il segretario del Pd, Walter Veltroni, durante una manifestazione per le elezioni amministrative a Roma, critica l’indulto e ricorda che fu un provvedimento condiviso da gran parte del Parlamento: "I dati - spiega Veltroni - dicono che Roma ha meno reati di Milano che pure ha la metà degli abitanti di Roma. I problemi per la sicurezza iniziano nel 2006. Intanto per l’indulto, che è stato un errore e dobbiamo dirlo chiaramente. Un errore fatto dal centrosinistra, ma anche dal partito di Berlusconi e dal candidato sindaco della destra che si astenne ma disse che, se il partito glielo avesse concesso, avrebbe votato a favore".
Veltroni quindi ricorda le regolarizzazioni di clandestini compiute durante gli anni del Governo Berlusconi fra il 2001 e il 2006 e aggiunge: "La questione della sicurezza andrebbe affrontata da persone serie, ma non è un obbligo essere persone serie...". Aggiunge il segretario del Pd: "Dire espelleremo 20mila clandestini è una balla. E poi uno potrebbe replicare: tutte queste balle perché non le avete applicate nelle città dove avete governato?".

Giustizia/Sicurezza- La paura diventa paranoia, la politica diventa polizia

di Anna Simone- Liberazione, 26 aprile 2008

Da dove nasce l’idea del braccialetto antistupro di Rutelli? Dalla paura. Che non si scatena sui problemi reali (sono insicuri il lavoro, il reddito, la casa, la coppia), o sui pericoli veri, ma sulla "percezione del rischio". Molti abitanti di quartieri frequentati da migranti si sentono insicuri pur non avendo mai patito sulla propria pelle crimine alcuno. È la fabbrica diffusa del razzismo. Che ha bisogno della "tolleranza zero".
Non è stato solo il clima pre-elettorale romano a far scatenare l’idea perversa del braccialetto elettronico anti-stupro all’aspirante sindaco Rutelli. Piero Sansonetti ha fatto bene a parlarne sulle colonne di questo giornale domenica scorsa ricordando a tutti noi i dati delle violenze che, come ormai tutti sappiamo, si consumano prevalentemente tra le mura domestiche (solo il 6,2 % delle violenze denunciate avvengono per strada).
Il quid in più da aggiungere, però, concerne due elementi ormai imprescindibili dalla retorica sulla sicurezza: la paura che diventa paranoia pubblica e privata, la crisi del lessico politico-giuridico ovverosia la crisi della politica e del diritto così come li abbiamo conosciuti sino ad un trentennio fa. La paura è un sentimento e quindi, di conseguenza, non può che essere irrazionale. Irrazionale e incancellabile dal momento che non esistono esseri umani e animali che non hanno mai paura.
Tutte le società assolutiste e monarchiche sono state attraversate dalla paura - così come dimostra la letteratura filosofico politica, da Grozio a Hobbes, da Machiavelli a Locke - ma è solo a partire da un trentennio, in pieno repubblicanesimo, che essa diventa paranoia, ossessione, paura percepita e non reale, paura della paura. Perché? La sicurezza, sino a quando è esistito il patto keynesiano, era il semplice contrario dell’insicurezza sociale.
I fautori del lavorismo ci hanno detto per anni (e talvolta continuano ossessivamente a dircelo nonostante il radicale mutamento dei sistemi di produzione) che per sentirsi "sicuri" bastava avere una casa, un lavoro, talvolta un marito. Oggi, però, di lavoro si muore perché non c’è "sicurezza", nelle case si diventa paranoici perché c’è sempre l’ipotesi di un "ladro rom" appollaiato e in agguato dietro le nostre porte e finestre, mentre talvolta si muore sotto l’ascia di un marito italiano, di un padre o di un compagno, così come accade a moltissime donne ogni giorno della settimana. Eppure la retorica politica continua a non intervenire su questo, ma solo sul capro espiatorio che puta caso è sempre un immigrato.
All’indomani dell’omicidio di Giovanna Reggiani, Veltroni propose la cacciata dei rom e dei rumeni insieme dal territorio italiano. Oggi Alemanno propone le stesse medesime cose proposte allora da Veltroni mentre Rutelli, per distinguersi dal suo contendente "fascista", ci dice che è meglio dotare di un piccolo gioiello dell’elettronica tutte le donne italiane e della capitale in particolare (magari incastonandolo di finti diamanti che raffigurano la Lupa).
Cosa sta succedendo? Come mai tanta schizofrenia e confusione sotto al cielo? Quali sono gli anelli mancanti di questo trentennio che hanno trasformato il vuoto di senso della politica contemporanea in un problema di "ordine pubblico", di sicurezza bipartisan? Come si è trasformato il controllo sociale? Come viene definita oggi la "pericolosità sociale"? Perché la logica dei decreti d’emergenza e i programmi di prevenzione hanno sostituito i diritti di libertà, compresi quelli della libertà femminile, conquistati dopo secoli e secoli di lotte?

La crisi dello stato sociale, come tutti sappiamo, ha invalidato l’alfabeto dei diritti conquistati per il tramite dei conflitti sociali ma ha, contemporaneamente, aperto la strada alle politiche neoliberali. Queste non reggono l’impatto violento della mano invisibile dell’economia globalizzata e producono pauperismo, disperazione, incapacità di progetto, impossibilità di arrivare a fine mese per la gran parte degli individui.
Ma produce anche innumerevoli vite di scarto che non hanno mai voluto uniformarsi alla disciplina che richiede qualsivoglia sistema di welfare basato sul lavoro e non sulla possibilità di accesso ad un reddito minimo di esistenza. E il reddito - almeno per quel che mi concerne - non lo si chiede perché si è fannulloni, ma solo perché si presume che scegliere il lavoro che si desidera svolgere senza necessariamente finire in un call center (anche se con un contratto a tempo indeterminato) debba essere appunto una libera scelta e non una costrizione sadica dei sistemi di produzione contemporanei.
Una siffatta situazione, si sa, non può che istigare al conflitto, alla messa in discussione dell’ordine costituito. Ciò che le politiche neoliberali producono non può che rivolgersi contro di loro. Di qui la paranoia sicuritaria anche quando il rischio è solo tale e non costituisce un pericolo reale. Il rischio, infatti, è una probabilità. Il pericolo è un dato di fatto. Eppure il rischio che ormai si calcola attraverso formulette matematiche rintracciabili in quasi tutti i manuali di sociologia spesso viene assunto come un pericolo reale, anche quando non è affatto così.
È la fabbrica del rischio, ci ricordano Robert Castel ma anche altri autori come Wacquant, che costruisce la logica del controllo sociale e anche della "pericolosità" nelle società contemporanee. La nozione di "rischio", inoltre, legandosi alla nozione di "prevenzione" consente di modellare le condotte per addolcirle e sussumerle al sistema politico e sociale come se, appunto, vi fosse una reale ed intrinseca "pericolosità" in tutti gli esseri umani.
Lavorare sulla percezione dei rischi e non sulla pericolosità reale che genera la nostra società, quindi, equivale ad una presa di coscienza collettiva che ancora tarda a trasformarsi in parola da parte di chi ci governa (maggioranza e opposizione insieme). Perché non spiegate ai cittadini che lo stato sociale non c’è più e al suo posto c’è lo stato sicuritario e penale?
Perché non parlate di questo, della crisi del lessico politico-giuridico anziché giocare a fare i poliziotti? La politica sicuritaria dei governi neoliberali del presente restringe moltissimo il campo dei diritti individuali e collettivi, restringe le libertà di movimento e di circolazione utilizzando pratiche poliziesche e sociali di tipo "chirurgico".
In poche parole si tende ad espellere dalla società potenziali criminali e/o criminali reali come se fossero un organo malato di un corpo sano senza mai intervenire su tutto il corpo che invece non funziona per intero e da anni, si interviene sempre sugli effetti senza mettere in discussione le cause. Non esiste un’antropologia criminale innata, di tipo lombrosiano e naturalistico, esiste invece una tendenza a delinquere generata dai sistemi politici, culturali e sociali come, tra l’altro, sostengono da anni sociologi del diritto, criminologi che preferiscono studiarsi un po’ di testi foucaultiani piuttosto che frequentare il salotto forcaiolo di Bruno Vespa. La retorica sulla sicurezza ha avuto non a caso tra i suoi padri fondatori uno statunitense liberale e forcaiolo al contempo, come da copione: Rudolph Giuliani.
Le misure di zero tolerance tendono a prevenire il crimine anche quando questo non è in agguato ma, al contempo, mettono in crisi lo stesso vocabolario del diritto penale il quale oltre a generare la logica del "sorvegliare, punire, rieducare" appoggia il suo agire sui principi della giustizia garantista e sul principio dell’Habeas corpus.
Eppure Genova ci ha dimostrato che non necessariamente la polizia è un’equivalente della sicurezza basata sui principi del diritto, mentre la persecuzione dei lavavetri messa a punto da Dominici e da Cofferati ci dimostra come la politica non si può più distinguere dalla polizia, come se, appunto, tra i due sistemi di potere non vi fosse più alcuna differenza.
Eppure, sino a prova contraria, agli elettori si chiede di votare esponenti di partiti e coalizioni e non poliziotti che aspirano a diventare questori e prefetti. Ma perché la gente ha paura al punto tale da votare in massa la Lega e in buona sostanza anche il Pd che della sicurezza ha comunque fatto uno dei suoi cavalli di battaglia?
Più volte in questi giorni, anche discutendo con amiche e colleghe, mi è stato detto che "la gente ha effettivamente paura" e su questo bisogna interrogarsi, nonché dare delle risposte. Non metto in discussione che questo possa esser vero, altrimenti non mi spiegherei molte cose, ma vorrei anche che questa paura paranoica fosse reale e non solo una "percezione" di cui in molti sono intrisi e ubriachi.
E poi vorrei anche distinguere tra la percezione del pericolo reale e il "rischio" che possa accadere loro qualcosa. Molti abitanti di quartieri frequentati da migranti si sentono minacciati pur non avendo mai vissuto sulla loro pelle crimine alcuno. Questo dato reale la dice lunga su come in questi anni i mezzi di comunicazione di massa abbiano costruito il concetto stesso di "pericolosità sociale" legandolo prevalentemente agli immigrati.
Così come un tempo si faceva con gli abitanti del Sud che per forza di cose erano tutti "terroni" punto e basta. Essere puniti, esclusi e messi alla gogna per "ciò che si è" e non per "ciò che si fa", però, è un dato di fatto ancora più pericoloso della potenziale "pericolosità sociale" precofenzionata dall’ideologia del rischio perché, come dicevamo prima, ci immette in una no man’s land della politica che ha violentemente azzerato tutti i diritti di libertà favorendo la logica della "certezza della pena" senza che vi sia la "certezza del reato".
Chiediamoci pure perché l’operaio della Mirafiori vota la Lega accusando contemporaneamente la sinistra di occuparsi solo di "froci e rom", ma facciamolo dicendoci anche che la fabbrica diffusa del nostro presente non è più quella degli anni ‘70 e del movimento operaio. È la fabbrica diffusa del razzismo, di una disperazione che facilmente diventa paranoia e di una realissima "guerra fra poveri". Ma per questo ci vuole un’analisi della crisi del presente, non un’analisi della crisi di un partito che rischia di ritornare al passato. E la ragione è ovvia: il passato non c’è più.

giovedì 24 aprile 2008

Giustizia/Carcere- Ferrara (Dap): nuove carceri? non sono la soluzione


Ansa, 24 aprile 2008

È "velleitario" pensare di risolvere il problema del sovraffollamento delle carceri soltanto con la costruzione di nuovi istituti di pena; piuttosto, servono "interventi strutturali" come l’accelerazione del processo penale e l’abbattimento dell’elevato numero dei detenuti stranieri che sono arrivati a circa il 37% del totale. Il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Ettore Ferrara, spiega così all’Ansa, la necessità di agire tempestivamente per evitare che, al ritmo di mille detenuti al mese, le carceri tornino a riempirsi come prima dell’indulto.
Dai 38.874 detenuti dell’agosto 2006 (vale a dire subito dopo il varo dell’atto di clemenza), dopo 19 mesi si è arrivati a 52.686 e si sta inesorabilmente marciando verso i 63mila, record storico raggiunto nel luglio di due anni fa. "Bisogna innanzitutto intervenire sull’accelerazione del processo penale, visto l’elevato numero dei detenuti in custodia cautelare: se si riduce il tempo del processo, si riduce anche il tempo della misura cautelare", è la prima osservazione di Ferrara.
I detenuti definitivi sono infatti appena 21.645, mentre 16.185 sono in attesa di giudizio, 9.570 gli appellanti, 3.719 i ricorrenti. Il secondo problema resta quello dei detenuti stranieri. "Il nostro sistema penitenziario - fa notare Ferrara - è per il recupero e il reinserimento sociale. Ma che senso ha parlare di reinserimento per persone lontane dal paese di origine? Servirebbe intervenire con accordi internazionali per garantire, in maniera più fattiva, l’espulsione dei detenuti stranieri nelle carceri italiane". Ma non solo.
"Se gli extracomunitari o gli stranieri in genere entrano in carcere per aver commesso reati non gravi, forse sarebbero più efficaci misure alternative alla detenzione". In altri termini, il capo del Dap ipotizza un doppio binario per i detenuti stranieri: da un lato la "depenalizzazione per coloro che violano le leggi sull’immigrazione o hanno commesso reati non gravi come ad esempio la contraffazione di cd o dvd"; dall’altro "tentare di rimpatriare nei paesi di origine, con accordi bilaterali, i detenuti stranieri che hanno commessi violenze o delitti efferati.
Se vogliamo più sicurezza, allora è necessario che in carceri ci siano solo coloro che hanno commesso reati di grave allarme sociale". Ferrara non condivide l’idea di risolvere il problema del sovraffollamento solo con la costruzione di nuove carceri: "Ci vogliono anni e decine milioni di euro. L’ultima finanziaria ha stanziato 70milioni di euro per l’edilizia penitenziaria. Con questi soldi potremmo costruire solo tre carceri per un totale di circa duemila persone. È velleitario pensare a questa come unica soluzione".

Giustizia: Emergenza sicurezza, lotta dura… contro la paura


Panorama, 24 aprile 2008

"Ma quali statistiche, i cittadini si basano su quello che vedono e che sentono". Il sociologo Marzio Barbagli dà poco peso ai dati diffusi il 21 aprile dal Viminale mentre infuriano le polemiche sulla sicurezza: secondo la Direzione centrale polizia criminale, nel secondo semestre 2007 tutti i reati sono calati rispetto al semestre precedente, tranne i furti in abitazione. Ma, oltre al fatto che molti reati non vengono denunciati, i dati delle principali città segnano invece un aumento della cosiddetta microcriminalità.
Barbagli, docente all’Università di Bologna, l’anno scorso ha coordinato il gruppo di lavoro che ha redatto il Rapporto sulla sicurezza voluto dal ministro dell’Interno, Giuliano Amato, e relativo al 2006. "Il senso di insicurezza non cambia se c’è una variazione minima da un anno all’altro. Non è vero che i cittadini esagerano" taglia corto Barbagli.
Silvio Berlusconi ha confermato che la sicurezza sarà oggetto di uno dei primi provvedimenti del prossimo governo. Alfredo Mantovano, senatore uscente di An ed eletto alla Camera con il Pdl, elenca i tre temi centrali, oltre a maggiori poteri alle polizie municipali: "Fondi adeguati al Viminale, immigrazione e certezza della pena". Sono dibattuti da tempo, con inevitabili polemiche, e la loro soluzione sembra l’ultima spiaggia per evitare degrado e rivolte di piazza. Vediamo nel dettaglio.
Il governo Prodi, attacca Mantovano, ha tagliato le risorse al ministero dell’Interno: "Lo stesso Amato, in un’audizione alla Camera, disse il 30 maggio 2007 che solo per benzina e manutenzione delle vetture i 67 milioni della Finanziaria 2006 erano scesi a 27 milioni. E che circa il 40 per cento delle macchine della polizia era fermo per mancanza di benzina e di pezzi di ricambio". In quell’audizione Amato e il viceministro Marco Minniti spiegarono che i mezzi con un’età superiore ai sette anni variano dal 26 al 54 per cento. Amato aggiunse, con amara ironia: "Ho suggerito ai vigili del fuoco di non pagare gli affitti e di pagare la benzina. Il benzinaio li manda a quel paese se si presentano senza pagare, mentre è possibile che il padrone di casa non li cacci". A questo si aggiunge una carenza di organico di circa 25 mila unità tra Ps, Carabinieri e Finanza, che Mantovano addebita alla mancanza di concorsi dall’insediamento di Prodi.
L’immigrazione è ormai un’emergenza quotidiana. Sono clandestini gli autori delle violenze sessuali degli ultimi giorni a Milano, Roma e Torino. Il Viminale attribuisce il 35 per cento dei reati agli stranieri, con i romeni al primo posto. Dati analoghi a quelli del Dipartimento amministrazione penitenziaria: il 37,62 per cento dei detenuti è composto da stranieri (19.821 al 21 aprile).
Mantovano (e d’accordo con lui è il leghista Roberto Maroni) annuncia una rinegoziazione della direttiva europea del 2004 sulla circolazione dei comunitari. "Con l’entrata nell’Ue di nuovi paesi come la Romania la situazione è cambiata" spiega l’ex sottosegretario all’Interno. "Chi arriva per delinquere non affitta una stanza, ma dorme in riva al Tevere. E poi va applicata correttamente la legge Bossi-Fini, in particolare per le espulsioni".
Anche qui i dati parlano chiaro. Premesso che il Viminale non ha diffuso quelli del 2007, i clandestini effettivamente espulsi nel 2006 sono stati 22.770, contro i 30.428 del 2005, i 32.874 del 2004 e via salendo. Anche se si aggiungono quelli respinti alle frontiere e dai questori, nel 2006 la cifra sale a 45.449, appena il 36,5 per cento dei clandestini individuati dalle forze dell’ordine (oltre 124 mila), la maggior parte dei quali è rimasta in Italia senza curarsi del foglio di via.
L’espulsione è legata ai centri di permanenza temporanea. "Prodi ne ha chiusi 3 su 15 (Brindisi, Ragusa e Crotone) e gli altri funzionano a velocità ridotta. Sarà necessario un Cpt in ogni regione" continua l’esponente del Pdl. "Vuole un esempio? La Toscana, dove lo hanno sempre rifiutato, ha un alto tasso di clandestini. Se un poliziotto trova un cinese irregolare a Prato, è costretto a cercare posto fuori regione, con aggravi di tempo e di denaro. Finisce che gli si dà il foglio di via e il cinese resta dov’è".
Anche sulla certezza della pena ci sarà da lavorare. Mantovano crede che, per cominciare, basti un pò di buon senso. Come? "Con una legge in base alla quale più si commettono reati, meno benefici si hanno. La questione non è abolire la legge Gozzini, quanto che i vari benefici vengono concessi ai detenuti contemporaneamente, anche ai plurirecidivi".
L’insicurezza è avvertita soprattutto nelle grandi aree urbane. E che il calo dei reati non sia vero per la cosiddetta microcriminalità è confermato dal Rapporto del Viminale: vengono denunciati la metà dei borseggi e appena un terzo degli scippi. È necessaria più collaborazione tra governo e comuni. "Migliorerà con due leggi" prevede Mantovano. "La prima per modificare le norme sulla polizia municipale; l’altra sugli istituti di vigilanza privati, regolati da norme del 1931?.
I vigili dovrebbero avere più poteri e una diversa copertura giuridica, oltre a risorse e corsi di formazione: "Attribuendo loro aree di competenza come l’abusivismo commerciale e la contraffazione, le polizie recupererebbero molto personale".

mercoledì 23 aprile 2008

DOCUMENTO CAPO DIPARTIMENTO AMMINISTRAZIONE PENITENZIARIA SU COME CONTRASTARE IL DISAGIO LAVORATIVO DEL PERSONALE DI POLIZIA PENITENZIARIA

Clicca SU: CONTRASTARE IL DISAGIO LAVORATIVO DEL PERSONALE P.P.

Giustizia: Conclusioni dell'indagine conoscitiva sulla sicurezza

Dire, 23 aprile 2008

La Commissione Affari Costituzionali della Camera conclude l’indagine conoscitiva sulla sicurezza: tra le priorità lotta alle mafie, aumento del personale e pene certe.
Liberazione dalle organizzazioni mafiose (che rendono unica l’Italia rispetto a tutti gli altri paesi avanzati), superamento del concetto di microcriminalità, responsabilità personale di chi delinque, dignità degli operatori della sicurezza, certezza della pena. Sono le cinque priorità in tema di sicurezza, indicate dalla Commissione Affari costituzionali della Camera, dopo l’indagine conoscitiva, i cui risultati sono affidati alla nuova legislatura.
Dall’inchiesta, durata circa un anno (11 sedute di audizioni per 96 intervenuti), emerge che, in termini generali, il numero complessivo dei reati è sostanzialmente stabile, ma aumentano quelli di natura violenta che destano maggior allarme sociale.
Sul fronte di mafia, ‘ndrangheta e camorra la commissione segnala che il contrasto non è stato "una priorità permanente, anzi alcuni interventi legislativi sul processo penale, nell’ultimo decennio, hanno reso più difficile l’accertamento delle responsabilità". Insomma, è mancato "un impegno duraturo nel tempo".
Secondo punto, abbandonare il concetto inadeguato di microcriminalità: i cosiddetti piccoli reati causano un senso di insicurezza diffuso, anche perché colpiscono fasce più deboli. La commissione constata poi che alla radice di un delitto ci sono spesso cause sociali, ma questa constatazione "non può annullare la responsabilità individuale".
Dalle forze dell’ordine viene poi un "servizio essenziale" a cui però non corrisponde un "riconoscimento sociale e pubblico altrettanto significativo". Ma per dare autorevolezza servono anche "retribuzione e mezzi". Infine, "certezza della pena" per evitare che l’arresto in flagranza di un delitto sia restituito alla libertà nel giro di poche ore. "Occorre riflettere sul processo penale - chiude il dossier della Commissione - per ritrovare un accettabile punto di equilibrio tra le garanzie per il reo, la garanzie per la vittima e la più generale esigenza di sicurezza dei cittadini". L’indagine, ricorda il capogruppo in Commissione di An Italo Bocchino, "nasce da una proposta mia e di La Russa e si è deciso, per non sprecare un lavoro di istruttoria importante, di fare una pubblicazione con tutti i dati raccolti". Sulle priorità indicate, il deputato del Pdl prevede che esse "saranno rimodulate dai parlamentari che verranno".

Giustizia/Carcere: La crisi del sistema penitenziario in cinque punti


di Valter Vecellio

Agenzia Radicale, 23 aprile 2008

1) "Se il prossimo governo non inserirà nella propria agenda l’emergenza penitenziaria non potrà non ricorrere ad un altro atto di clemenza". Così, l’altro giorno, la Uil-Penitenziari. Un grido d’allarme, un appello che naturalmente nessuno ha ritenuto di dover cogliere e valorizzare. Risulta che il dato in crescita degli ingessi in carcere sia ormai un dato consolidato e costante. Di questo passo, la border-line di "quota" 62 mila detenuti sarà toccata entro la fine dell’anno. Questo significa il rischio di implosione del sistema penitenziario, con le prevedibili, inevitabili tensioni e possibili rivolte che ne deriveranno. Occorrerebbe intervenire strutturalmente, e siamo in grave ritardo. In caso contrario, "è realistico immaginare che un nuovo indulto non appartenga alla fantascienza ma alle necessità possibili", dice Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Penitenziari.
2) Il 20 per cento delle strutture carcerarie in uso è stato costruito nel periodo che va dal 1200 al 1500; un altro 60 per cento è stato costruito nel periodo oscillante tra il 1600 e il 1900. per le strutture che versano in condizioni di fatiscenza e inciviltà nel 2007 sono stati stanziati appena tredici milioni di euro per la manutenzione, a fronte dei quaranta stanziati nel 2000.
3) Nelle carceri italiane ci sono più imputati che condannati. Ogni dieci detenuti, sei sono in attesa di giudizio. Soltanto 20.190 degli oltre cinquantamila detenuti è stato condannato. Circa il 38 per cento è costituito da stranieri, circa 19.600. Percentuale che in alcune realtà supera addirittura il 70 per cento dei presenti, per esempio nei "complessi" carcerari di Alessandria, Fossano, Macomer, Padova, Parma e Trento; il 23,4 per cento è costituito da tossicodipendenti, grosso modo uno su quattro. Questi dati li si ricava dall’ultima "mappatura" curata dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria.
L’indulto ha liberato oltre 25mila persone. Così dai 61.264 detenuti del 30 giugno 2006 si era passati al minimo storico dei 33.326 nel settembre 2006. Una preziosa boccata d’ossigeno, di cui si sarebbe dovuto profittare per quelle riforme e quelle politiche che consentissero finalmente di cominciare a uscire dalla grave crisi in cui la giustizia italiana ormai cronicamente si dibatte. Un’occasione purtroppo sciupata; e fin dall’inizio, quando non si è fatto il successivo, logico, necessario passo: quello dell’amnistia. La situazione, oggi, è tornata al punto di partenza, e nelle nostre carceri ci sono oltre settemila persone in più rispetto la capienza.
E si deve, per paradosso, ringraziare la altrettanto cronica inefficienza di perseguire i crimini (le relazioni annuali dei Procuratori Generali documentano come la stragrande maggioranza di reati resta impunita), se, infatti, per paradosso tutti gli autori di reati fossero assicurati alla giustizia, il sistema in un solo giorno "collasserebbe". Ad ogni modo, se la situazione è tornata a quella pre-indulto, lo si deve alle attuali leggi sulle droghe, sull’immigrazione e sulla recidiva, che hanno continuato a far aumentare gli ingressi in carcere, con un incremento di circa un migliaio di persone al mese.
La capienza regolamentare di 43.149 posti è stata superata il 30 giugno 2007, con 43.957 presenze, ed è continuata ad aumentare fino alle 48.693 unità del 31 dicembre, e le oltre 50mila del 21 febbraio 2008. Senza il provvedimento di indulto oggi saremmo alla cifra record di 72.000 detenuti.
4) Un dato tipico della popolazione carceraria italiana è quella dei detenuti in attesa di giudizio. Sono il 60 per cento circa, più dei condannati: complice la lentezza dei procedimenti penali nel nostro paese. Tra i condannati, il 29,5 per cento sconta una pena per reati contro il patrimonio, il 16,5 per cento contro la persona, il 15,2 per cento per violazione della legge sulle droghe, il 3,7 per cento per reati contro l’amministrazione, il 3,2 per cento per associazione mafiosa.
Le donne rappresentano il 4 per cento dell’intera popolazione carceraria, per loro non vale il problema del sovraffollamento: sono 2.278 su 2.358 posti disponibili. Tuttavia esiste il problema delle detenute madri con bambino al seguito, di età inferiore ai tre anni. I detenuti stranieri sono il 35 per cento della popolazione. Nel 1990 erano solo l’8 per cento. Per lo più si tratta di africani. Il 23,4 per cento dei detenuti è tossicodipendente e il 4 per cento in trattamento metadonico. Un altro 2 per cento ha problemi di alcolismo. Per quanto riguarda la durata delle pene, il 31,9 per cento dei detenuti sconta pene inferiori ai tre anni, e potrebbero beneficiare - almeno in astratto - delle cosiddette pene alternative. Il 21,3 per cento sconta pene tra i tre e i sei anni, il 46,8 per cento sconta pene di durata superiore.
5) C’è anche un problema di carenza di personale di polizia penitenziaria. Il segretario generale del sindacato autonomo di polizia penitenziaria (Sappe) Donato Capace, ricorda che mancano circa settemila agenti: 4.425 uomini e 335 donne. Le carenze più consistenti si registrano in Lombardia (1.200 unità), Piemonte (900 unità), Emilia Romagna, Toscana, Veneto, Liguria.

martedì 22 aprile 2008

Giustizia: Creare emergenze… arma di "distrazione di massa"


di Pietro Yates Moretti (Presidente Associazione Utenti e Consumatori)
Notiziario Aduc, 22 aprile 2008

Diciamoci la verità: la vita sarebbe molto più noiosa senza l’emergenza. Se non fosse per lei, quel telegiornale potremmo vederlo più tardi o addirittura saltarlo, e non staremmo attaccati allo schermo del computer per seguirne l’evoluzione minuto per minuto. Senza la quotidiana emergenza, al bar saremmo costretti ad iniziare ogni conversazione facendo il punto sulle condizioni meteorologiche, ed ogni tentativo di andare oltre rischierebbe di essere travolto dal profluvio di notizie ordinarie.
Fate caso all’uso scientifico della parola emergenza la prossima volta che usufruite di qualche organo di informazione. Ecco alcuni esempi recenti: "Stuprata: è emergenza sicurezza" (funziona solo se il violentatore è un immigrato, meglio se rumeno). Oppure: "adescava minori online: è emergenza pedofilia on-line" (poco importa che oltre il 90% delle violenze sui minori avvenga in famiglia). O ancora: "a scuola con uno spinello: è emergenza giovani" (il bravo analista ricama poi con espressioni del tipo "giovani allo sbando", "profondo disagio giovanile", "generazione a rischio"). C’è da chiedersi perché, al contrario, il recente arresto per droga di un volto noto della Cnn e del direttore di TF1 International non abbia ancora ispirato titoli come "emergenza giornalisti", "categoria allo sbando", "informazione drogata".
L’emergenza nazionale, quella proclamata all’unanimità dai media, ci permette di dimenticare, seppur brevemente, le nostre emergenze personali: la quarta settimana, il mutuo, il lavoro, il costo della vita, le liste d’attesa nella sanità, le tasse, i disservizi pubblici. Ci consente di ignorare le mille distrazioni che informano e frammentano le nostre preoccupazioni, concentrando in un sol punto il nostro senso di rivalsa, di giustizia e di vendetta. Quando va bene, l’emergenza ci aiuta anche a sdoganare fugacemente le nostre fobie, che altrimenti dobbiamo tenere nascoste, represse, per pudore.
Ma l’emergenza non è solo la regina delle notizie. Sta diventando anche il motore immobile della politica. Essa costituisce una delle armi più potenti del bravo eletto, tanto da meritarsi nel mondo anglosassone l’appellativo di "weapon of mass distraction" (arma di distrazione di massa). Un efficace analgesico a doppia azione per lenire i sintomi da responsabilizzazione del pubblico amministratore.
I problemi ordinari e mai risolti, quelli che realmente vessano nel quotidiano la quasi totalità dei cittadini, passano in secondo piano: troppo complessi, troppo quotidiani per fare notizia e per essere affrontati a colpi di leggi emergenziali. E anche laddove un problema ordinario fosse promosso ad emergenza, il nuovo status mediatico potrebbe in parte scusare l’inadeguatezza delle risposte ordinarie date fino a quel momento.
Tanto potente è l’emergenza, che oggi è difficilissimo far passare una legge in meno di due anni senza di essa. Basti vedere quante leggi negli ultimi anni portano il nome "Norme urgenti in materia di...". Il Codice della Strada è oramai un collage di modifiche emergenziali stimolate da questo e quel caso di cronaca, ed anche le leggi sull’immigrazione, sulla droga e lo stesso codice penale seguono allegramente la stessa via. I politici navigati fiutano immediatamente l’emergenza e come giavellottisti olimpionici fanno a gara a chi lancia la soluzione più lungimirante, almeno in termini di economia elettorale: "tolleranza zero", "chi sbaglia paga", "chiudere le frontiere", "più galera".
Non fraintendetemi, la fabbrica mediatica dell’emergenza c’è ed ha tutto il diritto di continuare ad esserci. Ma ho l’impressione - o forse solo l’auspicio - che sia presa sempre meno sul serio, con il rischio che la vera emergenza sia poi ignorata al pari di tutte le altre. Un po’ come quel ridicolo sistema di colori (giallo, arancione, rosso, etc.) che ogni mattina ci hanno propinato i media statunitensi per indicare il livello di allerta antiterrorismo.
Insomma, pur di entrare nelle conversazioni da bar, la fabbrica dell’emergenza ha adottato a tutti gli effetti gli strumenti della previsione meteorologica: temperature in diminuzione, nuvoloso sulle regioni centrali, con elevato rischio di violenza da immigrato sulle aree urbane.
Un invito a giornalisti e politici a spendere con parsimonia l’efficacia mediatica dell’emergenza è ovviamente inutile. E proporre una legge per proibirne l’abuso ("Norme urgenti in materia di emergenza") sarebbe altrettanto infruttuoso, oltre che incostituzionale. Pertanto l’invito lo rivolgo agli utenti dell’informazione, spesso molto più maturi di quanto i professionisti dell’emergenza possano immaginare: giudicate sempre con la vostra esperienza, conoscenza e intelligenza tutte le emergenze. Soprattutto, valutatene bene le cause, che non sempre - anzi, quasi mai - coincidono con gli effetti visibili.
Se le carceri sono piene di immigrati, non è necessariamente perché lo straniero è geneticamente più criminale dell’italiano. Sapete che basta non mostrare un documento di riconoscimento alla Polizia - magari perché si è dimenticato il portafogli a casa - per finire in carcere, se si è stranieri? E poi, detto fra noi, se io (caucasico) ed un immigrato di colore giriamo con uno spinello in tasca, chi dei due ha maggiori possibilità di essere fermato per un controllo di polizia?
E se, in presenza di una delle leggi sulle droghe più severe del mondo occidentale, in Italia aumenta il consumo di droghe, e quindi anche i profitti delle organizzazioni criminali che a loro volta incrementano l’offerta, forse la colpa è di una società "allo sbando", "senza valori"? Davvero è "la crisi dei giovani d’oggi" che causa le morti da sballo del sabato per l’assunzione di sostanze incontrollate ed incontrollabili. Forse la colpa è anche un po’ delle "Norme urgenti in materia di...".

Giustizia- Espulsioni, cpt, commissari speciali e... braccialetti!


di Laura Eduati- Liberazione, 22 aprile 2008

Ronde, commissari speciali per la sicurezza, espulsioni massicce, polizia regionale. Come era prevedibile, dopo lo stupro e l’accoltellamento di una giovane sudafricana da parte di un rumeno nella stazioncina romana La Storta, centrodestra e centrosinistra fanno a gara per promettere il pugno di ferro contro la criminalità straniera, talvolta commettendo svarioni come quello di Rutelli secondo il quale "in Italia ci sono un milione e centomila rom". In realtà, nonostante manchi un censimento preciso, i rom sono circa dieci volte di meno e cioè 150mila.
Il problema è che spesso le boutade dei politici non potrebbero essere messe in pratica perché violano i principi giuridici e costituzionali. Cominciamo delle ronde rilanciate dal futuro ministro dell’Interno Roberto Maroni. "Non si tratta di militarizzare il territorio" assicura il leghista. Tuona l’ex magistrato Antonio Di Pietro: "Le ronde sono anticostituzionali" ed è "inaccettabile" che dei semplici cittadini vadano in giro armati.
È proprio ciò che ribadiscono gli avvocati penalisti in una nota preoccupata dell’Unione Camere Penali, dove si specifica l’ovvio e cioè che la sicurezza pubblica va tutelata ma "nel rispetto dei diritti fondamentali e delle libertà costituzionali".
Il sindaco di Cittadella (Pd) Massimo Bitonci, balzato alle cronache nazionali per l’ordinanza anti-sbandati che rifiuta l’iscrizione all’anagrafe ai cittadini comunitari poveri, dice che nessuno ci ha capito niente e che, in fondo, le ronde sono semplici gruppi di volontari disarmati con il semplice compito di segnalare sospetti delinquenti alle forze dell’ordine in sotto organico.
La realtà è che Bitonci, sotto il profilo giuridico, ha ragione. La legge peraltro non impedirebbe che un Comune desse in appalto la sicurezza dei cittadini ad una società di vigilanza privata e armata. Ma questa vigilanza dovrebbe limitarsi esclusivamente a segnalare eventuali reati alla polizia, senza intervenire. Le ronde, armate o disarmate, potrebbero sventare dei crimini arrestando il colpevole in flagranza di reato e consegnarlo alle forze dell’ordine. Nulla più.
A Roma, la piazza da conquistare domenica con il ballottaggio, "città insicura e violenta" assicura Robilotta del Pdl, Alemanno promette di cacciare 20mila clandestini e di istituire un commissario speciale per la sicurezza. Entrambe le misure cozzano con il diritto. La convenzione di Strasburgo vieta le espulsioni di massa, mentre bisognerebbe cambiare la legge per permettere ad una figura istituzionale di riunire i poteri di sindaco, prefetto e questore. Per ora al sindaco è permesso di prendere dei provvedimenti urgenti circa la salvaguardia dell’incolumità pubblica ma non per la pubblica sicurezza, altrimenti ogni città avrebbe regole differenti, decisamente incostituzionale.
Nei giorni scorsi la Lega ha promesso poi di dare completa applicazione alla Bossi-Fini. "La legge Bossi-Fini è inefficace perché colpisce allo stesso modo i clandestini, coloro che vogliono vivere in Italia di nascosto, e gli irregolari cioè gli stranieri che per ragioni meramente burocratiche non hanno un valido permesso di soggiorno" sottolinea l’avvocato Lucio Barletta dell’associazione Sos Diritti Onlus di Roma. È come sparare col cannone ad una mosca, dice Barletta. In questo modo, soltanto il 2% dei criminali stranieri viene effettivamente rimpatriato, mentre spesso viene riaccompagnato alla frontiera il clandestino che cercava l’integrazione onesta.
Secondo le stime Caritas gli stranieri senza documenti sono circa 1 milione. Espellerli tutti costerebbe probabilmente miliardi di euro. La soluzione? Distinguere i delinquenti dagli stranieri che vogliono integrarsi. "Peraltro il tasso di criminalità degli stranieri regolari è leggermente inferiore a quella italiana" conclude Barletta. E il 25% dei detenuti prima dell’indulto erano straniero che avevano violato semplicemente l’ordine di espulsione senza aver commesso altri reati.
"La Bossi-Fini crea l’immagine di un invasore potenzialmente criminale" commenta l’avvocato padovano Marco Paggi dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi): "una legge che mantiene una amministrazione inefficiente e sprecona. Una scelta politica del tanto peggio tanto meglio". Basta vedere, dice Paggi, i dati sui Cpt che il nuovo governo si appresta a potenziare e moltiplicare: a malapena una persona su tre viene poi accompagnata alla frontiera " e spesso", concorda Paggi, "non si tratta di criminali".
Il centrodestra promette di espellere immediatamente lo straniero che commette reati. Anche questo è vietato dalla Costituzione: il processo va fatto in Italia, ed eventualmente la pena scontata in patria previo accordo bilaterale con il Paese d’origine.
Rutelli risponde ad Alemanno rilanciando con una commissione consultiva per la sicurezza integrata dal suggestivo acronimo Csi, anticipando che se sarà eletto sindaco si occuperà personalmente dell’ordine pubblico senza deleghe agli assessorati. Fin qui, nulla di illegale. Tuttavia i pacchetti sicurezza bipartisan, appoggiati anche dal Partito democratico, fanno storcere il naso ai giuristi.
I sindaci vogliono più poteri sulla sicurezza, ma anche questo travalica i normali compiti affidati ai primi cittadini. E per quanto riguarda il potere dei prefetti di espellere dei cittadini comunitari in base alla pericolosità e non ai crimini effettivamente compiuti, si tratta di una ampia concessione alla discrezionalità delle forze di polizia.
Tutto ciò varrebbe, forse, se esistesse davvero un allarme criminalità. "In realtà i reati non aumentano e lo dicono le stesse forze dell’ordine" conclude Paggi "ma aumenta la percezione della criminalità. Vorrei che ci fosse questa sensibilità per le morti sul lavoro, ma l’impressione è che siamo talmente abituati a questa piaga che ce la prendiamo con gli altri, gli stranieri. Parliamo dell’integralismo islamico ma questo è il nostro integralismo, la xenofobia, che è fatta di insicurezza, paura e ignoranza".
L’unica idea che sembra correttamente in linea con la legge è il braccialetto elettronico per le donne che girano da sole, proposto dall’ex sindaco di Roma. A bocciarlo intervengono, però, le donne del centrodestra come la segretaria generale del sindacato Ugl Renata Polverini: "Non abbiamo bisogno dell’antifurto".
A difesa di Rutelli intervengono le 22 candidate nella lista civica per Rutelli, augurandosi la distribuzione di un milione di braccialetti. L’iniziativa trova il placet della ex ministra per le Pari Opportunità Barbara Pollastrini e di politiche del calibro di Linda Lanzillotta e Maria Pia Garavaglia, che non vedono nulla di male nel dispositivo che all’occorrenza potrebbe inviare un sms di soccorso alle forze dell’ordine. Anzi, per Garavaglia il braccialettino indispettisce il centrodestra proprio perché è un’idea concreta.

Giustizia/Carcere- Berlusconi: pene più dure per recidivi e clandestini

La Stampa, 22 aprile 2008

Basterà una denuncia di polizia per mandare in carcere. Pene più dure per i recidivi. Berlusconi: subito il decreto. Ma anche nel Pdl è polemica sulle ronde.
"Sarà uno dei primi provvedimenti che prenderemo", annuncia Silvio Berlusconi. Il tema è incandescente e il futuro governo si rende conto che non c’è tempo da perdere. Roberto Maroni, il ministro dell’Interno in pectore, annuncia un gran dispiego di uomini, ma poi rilancia le ronde e "vedo con compiacimento che a Bologna il sindaco Cofferati le ha istituzionalizzate". Punture di spillo. Intanto il tema delle ronde, dopo un iniziale rifiuto ("Se armate, sono incostituzionali"), chiarito che sono disarmate, trova d’accordo pure Antonio Di Pietro: "Anche noi dell’Idv auspichiamo che i cittadini italiani segnalino alle forze dell’ordine episodi di pericolo e di criminalità".
Ma è Maurizio Gasparri a ridimensionare il tutto: "Se si tratta di mobilitare nonni davanti alle scuole, va bene". Comunque è una questione calda. In risposta al sindaco di Milano, Letizia Moratti, che l’aveva criticato perché arrivato buon ultimo ai temi della sicurezza, pure Walter Veltroni si sfoga: "Una caduta di stile. Severità, rigore, certezza della pena sono cose su cui tutti i sindaci hanno premuto".
In queste ore, anche se non sono chiari i contorni del futuro governo, alcuni tecnici del centrodestra si sono messi al lavoro. L’idea che sta prendendo corpo nel Pdl è di ripartire dal Pacchetto Sicurezza di Giuliano Amato, poi decaduto. Lo riprenderanno nella prima versione, quella che la sinistra radicale aveva fatto abortire, e in più inaspriranno alcune norme.
Siccome la parola d’ordine è "certezza della pena", ci sarà dunque la detenzione e il processo per direttissima per chiunque sia arrestato in flagrante mentre commette taluni reati ad alto allarme sociale. I nuovi governanti del centrodestra non si fermeranno
Una delle idee sul tavolo, in forma ancora embrionale, in vista del nuovo Pacchetto, è d’introdurre il reato di "false generalità" per colpire gli immigrati clandestini che si nascondono dietro una miriade di alias. Da tempo la polizia spinge per colpire più severamente chi gira con carte d’identità contraffatte.
Secondo duro inasprimento, colpire i recidivi. Per chi commette in maniera ripetitiva lo stesso reato, si pensi a certi ladri di auto o predoni di appartamento, si tagliano drasticamente i benefici della legge Gozzini ovvero le semilibertà o gli sconti di pena.
"Oggi è tutto troppo automatico", spiega Alfredo Mantovano. Ma poi i recidivi potrebbero essere colpiti anche in sede di aggravanti durante il processo. "E si potrebbe pensare - dice Filippo Saltamartini, neosenatore Pdl e segretario del sindacato autonomo di polizia Sap - a una forma di recidiva a-tecnica basata non soltanto sulle condanne passate in giudicato, ma anche sulle denunce di polizia o su nuovi arresti in flagrante".
Un piccolo accorgimento tecnico per rendere molto più difficile l’entrata e l’uscita continua dal carcere. Sono statistiche ufficiali, diramate qualche giorno fa dal dipartimento penitenziario: i detenuti, in Italia, mediamente stazionano in cella per dieci giorni.
Se s’annuncia un giro di vite sul fronte delle espulsioni, molto più rigore s’introdurrà anche sotto il versante dei permessi di soggiorno. Non soltanto la Bossi-Fini avrà un’applicazione rigida e non all’acqua di rose come aveva preteso il ministro rifondarolo Paolo Ferrero, ma lo straniero che richiederà il rinnovo del permesso di soggiorno dovrà dimostrare di vivere legalmente e quindi di pagare le tasse.
Verrà perciò richiesto, tra i diversi documenti da esibire, anche la dichiarazione dei redditi o il modulo F24 (per i lavoratori autonomi) che costringerà molti a mettersi in regola anche verso l’Agenzia per le Entrate. Brusca stretta anche per chi verrà trovato a guidare un’auto senza assicurazione: attualmente si rischia una contravvenzione, un domani potrebbe scattare una sanzione penale e il ritiro della patente.

lunedì 21 aprile 2008

ASSEMBLEA NAZIONALE COORDINAMENTO ASSISTENTI SOCIALI GIUSTIZIA


Il 19 aprile u.s. si è svolta a Roma presso la città dell’altra economia l’assemblea annuale degli iscritti C A S G.
Sono intervenuti colleghi di Uffici EPE di diverse parti d’Italia (Liguria, Lombardia, E. Romagna, Piemonte, Sicilia, Lazio, Campania, Umbria); i colleghi di Venezia, Bologna, e di tre UEPE della Campania (Salerno, Avellino e Napoli) hanno presentato contributi scritti.

All’assemblea sono intervenuti, invitati dal Consiglio nazionale CASG, la Vice Presidente dell’Ordine nazionale Franca Dente e la Consigliera dell’Ordine Nazionale Gloria Pieroni (assistente sociale presso l’UEPE di Siena e iscritta al coordinamento), in rappresentanza delle Organizzazioni Sindacali: SAG UNSA - R. Martinelli, RdB - A. Roscioli, CGIL – Lina Lamonica; CGIL Lombardia B. Campagna, SEAC Celso Coppola.

E’ stata ricordata la Presidente dell’Ordine Nazionale degli assistenti sociali Fiorella Cava, recentemente scomparsa.

Al termine della relazione introduttiva si è aperto un approfondito dibattito sulla situazione attuale dal punto di vista politico, professionale e contrattuale.

La Vice presidente dell’Ordine ha riferito dell’incontro avuto con il Direttore Generale EPE Riccardo Turrini Vita in data 18/04/08 durante il quale sono stati presi impegni su:
Ø un lavoro di ricerca condiviso tra l’ Ordine Nazionale e la D.G.EPE al fine di valorizzare e rendere visibile il lavoro svolto dagli assistenti sociali nell’affidamento in prova;
Ø la salvaguardia della specificità della professionalità di servizio sociale nella direzione dei servizi dell’esecuzione penale esterna, a livello locale, regionale e nazionale.
Ø La costituzione di un gruppo di lavoro congiunto tra DGEPE e Ordine Nazionale sulla dirigenza e sui meccanismi per riconoscere il ruolo degli Assistenti Sociali C3 che dirigono le sedi non dirigenziali.

La V.P. ha riferito inoltre della conferenza di servizio tenutasi il 27 marzo presso l’ARAN tra tutti i Ministeri che hanno al loro interno assistenti sociali, finalizzata ad affrontare a 360° la questione relativa all’inquadramento degli assistenti sociali nella P.A.
Il C.N. dell’Ordine ha elaborato un documento sulla disciplina della professione da utilizzare con tutti gl’interlocutori interessati all’inserimento degli assistenti sociali.

L’ARAN si è impegnato ad inserire parole chiavi che riguardano gli AA.SS nel Regolamento Generale dei professionisti dipendenti che sarà emanato.

C’è da prendere atto che purtroppo il cambio dello scenario politico annulla tutti gli sforzi fatti fino ad ora per costruire contatti e lo scarso investimento sul sociale del precedente governo delle destre non lascia ben sperare.

La legge 328/2000 non decolla perché mancano gl’investimenti sul sociale. E’ importante che il settore della giustizia attivi un collegamento più forte con il servizio sociale territoriale.
A questo riguardo alcuni interventi hanno fatto riferimento alle “Linee guida sull’inclusione sociale” emanate recentemente dai Ministeri della Giustizia e degli Affari sociali e approvate dalla Conferenza nazionale Stato Regioni, che impegna le Regioni nel favorire l’integrazione dei servizi sia pubblici che privati rivolti all’inclusione sociale dei condannati. Per questo il servizio sociale della Giustizia deve evitare di rimanere isolato e deve cercare un collegamento più forte con il territorio.

Più interventi si sono espressi a favore di una maggiore presenza del servizio sociale della giustizia nella comunità professionale più ampia.

Tutte le OO.SS. intervenute hanno posto l’accento sul particolare momento politico in cui l’attacco al sindacato e alla contrattazione rischia di raggiungere livelli mai raggiunti fino ad oggi, soprattutto nel pubblico impiego. Si parla addirittura di azzerare L’ARAN e il ruolo dei sindacati.
Lo scenario politico non lascia spazio a facili ottimismi e per questo occorre prepararsi al peggio; sarà importante non alimentare le divisioni tra gli operatori e non isolarsi nel proprio settore, anzi sarà importante coltivare alleanze con tutti coloro che condividono le nostre posizioni.
Il decreto sull’inserimento della polizia penitenziaria se non è passato non è per l’opposizione che si è fatta, a gennaio se non cadeva il governo la sperimentazione sarebbe già partita (Martinelli). Non è sufficiente dire No e basta, ma occorre cercare di limitare i danni.
Se i sindacati autonomi della polizia vogliono fare interventi di polizia occorre farglieli fare (Roscioli)

I dirigenti dell’esecuzione penale esterna hanno gravi responsabilità per la situazione che si è venuta a creare e non sono in grado di gestire la polizia penitenziaria negli UEPE (Martinelli, Roscioli).

Occorre rivedere le sedi dirigenziali e inserirvi tutti gli UEPE, questo vorrà dire far entrare altro personale nella Meduri, ma occorre trovare il modo per superare la Meduri stessa e per uscire da questo sistema di polizia.

C’è una difficoltà reale nel tenere insieme i due comparti: sicurezza e ministeri, se si arriverà al Dipartimento della Polizia penitenziaria occorre trovare altre soluzioni che mettano insieme gli operatori del trattamento (La Monica).

Rispetto al contratto integrativo sono state espresse in più interventi perplessità circa le modalità di accesso agl’incarichi di responsabilità, alla prevista “meritocrazia” che può tramutarsi in alcune realtà, in assenza di criteri chiari e trasparenti in assegnazioni clientelari e a totale discrezione dei dirigenti, anche perchè in alcune realtà gli operatori sono fortemente ricattabili . Il problema più grosso emerso è però che in assenza di fondi adeguati il contratto integrativo è necessariamente costretto a fallire, come è già capitato alle Agenzie per le Entrate.

Il coordinamento si è dato, quindi, i seguenti obiettivi per l’attività del prossimo anno:

mantenersi attenti e vigili per capire gli orientamenti, gli spazi di discussione, le possibilità di comunicazione....
inviare una lettera aperta al prossimo Ministro della Giustizia, richiamando le “linee guida sull’inclusione sociale” e alla necessità di rafforzare i servizi preposti al trattamento del condannato, nonché a proseguire con la riforma del codice penale, continuando i lavori della Commissione Pisapia e a non ricominciare da zero.
Individuare tutte le possibili alleanze per sostenere un’esecuzione penale esterna, facendo riferimento ai servizi territoriali e alle loro organizzazioni quali: ANCI, Conferenza Stato regioni, alla Magistratura, quindi al CSM; alle associazioni del privato sociale e del volontariato, ai sindacati, agli ordini regionali e nazionale, organizzazioni politiche che sono in sintonia con le idee esposte dal coordinamento.
Essere maggiormente presenti all’interno della comunità professionale
Organizzare l’ VIII° convegno CASG ripartendo dal significato della pena con il coinvolgimento attivo dei servizi del territorio.

E’ stato rinnovato il consiglio nazionale; gli attuali consiglieri sono:

Anna Muschitiello, Patrizia Trecci, Elena Monni, Santina Spanò, Michela Boazzelli, , Nicoletta Serra, Anna Giangaspero (consiglieri uscenti) i nuovi consiglieri sono: Rita Puglia (UEPE di Catania), Antonella Gianguzzo (UEPE di Milano) Maria Grazia Rizzo (UEPE di ROMA) Michela Vincenzi(UEPE di Venezia)

Anna Muschitiello
(Segretaria nazionale casg)

ROMA 19 APRILE 2008:IL COORDINAMENTO ASSISTENTI SOCIALI GIUSTIZIA INCONTRA I SINDACATI E L'ORDINE NAZIONALE ASSISTENTI SOCIALI


RELAZIONE INTRODUTTIVA SEGRETARIA NAZIONALE ANNA MUSCHITIELLO

Per avviare la nostra riflessione risaliamo al VII ° convegno CASG, tenutosi a Pescara nel marzo 2007, che per noi è stato un momento topico della nostra attività dell’anno passato perché ha dato l’avvio alla massiccia mobilitazione contro l’inserimento della polizia penitenziaria negli UEPE. Mobilitazione promossa dal Coordinamento e che ha avuto una grande risonanza sia all’interno che all’esterno della professione nell’ambito del settore della giustizia.
Un forte contributo lo ha fornito il blog di solidarietà degli assistenti sociali di Milano che ha rappresentato un formidabile strumento di comunicazione, dando forza alle argomentazioni, agendo da cassa di risonanza e moltiplicando le occasioni di visibilità e favorendo quel lavoro di sinergia tra il CASG, Ordini regionali e nazionale assistenti sociali, associazioni del volontariato, sindacati e parte del mondo politico. Tutti assieme siamo riusciti a bloccare se pur temporaneamente un progetto che sappiamo potrebbe significativamente e negativamente modificare la natura dei nostri uffici.
Tale pericolo non è affatto scongiurato, soprattutto nella situazione attuale, anche perché i vertici del DAP non perdono occasione per ribadire la volontà di dar corso a quel progetto tutte le volte che emergono le gravi problematiche che riguardano la polizia penitenziaria. Quasi ad usarlo come uno specchietto per allodole, ben sapendo che altri sono i problemi e ben più complicate le soluzioni.

La situazione del settore penitenziario permane complessa e preoccupante perché permangono in vigore leggi che influenzano pesantemente le condizioni di vita dei soggetti detenuti, da tempo in molti (casg, magistrati, mondo del volontariato..) auspicavamo fossero modificate se non del tutto abrogate e molto probabilmente con il nuovo corso politico anzicchè migliorare la situazione potrebbe verosimilmente peggiorare.

Riteniamo comunque che le politiche di gestione del sistema giustizia in generale e delle esecuzioni delle pene in particolare, dovrà necessariamente confrontarsi con la necessità di governare il sovraffollamento carcerario che secondo facili previsioni raggiungerà presto i livelli di guardia pre indulto. Oggi c’è l’aggravante di non poter fare ricorso per molto tempo ad altri provvedimenti della stessa natura, quindi per quanto si dichiari di voler risolvere il problema soprattutto investendo in edilizia penitenziaria non può questa ragionevolmente da sola rappresentare una soluzione, almeno a breve termine, perché tutti conosciamo i tempi per la costruzione di nuove carceri.

Abbiamo potuto vedere nella trascorsa campagna elettorale che la politica sia di destra che di sinistra non si differenzia più di tanto in tema di sicurezza, le soluzioni prospettate sono molto simili e quindi riteniamo che chiunque governi debba necessariamente trovare soluzioni alternative e differenziate. Leggevo qualche giorno fa che anche negli Stati Uniti dove i livelli di carcerizzazione sono i più alti del mondo occidentale stanno ora ricorrendo alle libertà vigilate per le pene minori, perché il sistema non è più sostenibile dal punto di vista economico.

Le contraddizioni emergono in tutte le aree politiche, infatti già in passato con al governo la destra erano state prospettate riforme del codice penale che andassero nella direzione dell’aumento di misure alternative al carcere, anche se contemporaneamente si interveniva su fenomeni sociali quali l’immigrazione e l’uso delle droghe con leggi tese ad aumentare e incrementare la penalità.

Di conseguenza è necessario mantenersi attenti e vigili per capire gli orientamenti, gli spazi di discussione, le possibilità di comunicazione....

Nel convegno di Pescara avevamo cercato di riflettere sulla possibilità di modificare il nostro intervento all’interno di nuovi scenari e la costituzione delle commissioni per le riforme dei codici penale e di procedura penale (Pisapia e Riccio) ci avevano dato spunti per la nostra riflessione, tanto che avevamo elaborato un documento inviato direttamente al Presidente della Commissione, avv. Pisapia.
Non sappiamo se ci saranno nuove occasioni per riprendere quel dibattito, in ogni caso ci auguriamo che non si proceda come nel passato con l’archiviare le proposte formulate dalle diverse commissioni ricominciando sempre da capo.
Per quanto ci riguarda dobbiamo continuare quella riflessione per capire come possiamo modificare il nostro modo di operare e come possiamo rappresentare una risorsa per la giustizia.
L’intervento del servizio sociale nel settore minorile, avevamo già individuato a Pescara, può rappresentare un’utile traccia per l’intervento nel settore adulti e non è un caso se sia a destra sia a sinistra ci sono state ipotesi di introduzione della “messa alla prova” anche nel settore rivolto agli adulti.
Così come nella legge Fini-Giovanardi è stato introdotto il lavoro di pubblica utilità nella fase processuale.
Si tratta di continuare ad approfondire queste tematiche e cercare d’intervenire nel dibattito che eventualmente si aprirà su questi temi.

Volendo ipotizzare quale sarà la situazione dei nostri servizi nell'immediato futuro riteniamo che questo sarà caratterizzato da:

un aumento del nostro lavoro prevalentemente rivolto a soggetti detenuti, più che a soggetti in esecuzione penale esterna, e questo in carceri sempre più affollate di soggetti “difficili” e “marginali” soprattutto stranieri, con i quali sarà complicato effettuare programmi di reinserimento ed inclusione.

Questo scenario modifica necessariamente il nostro modo di lavorare perché il target di utenza ci costringe ad interrogarci sul nostro tradizionale modo di lavorare e a trovare nuove modalità d’intervento e di collaborazione con i servizi della rete sociale presenti dentro e fuori degl’istituti. Inoltre rende ancora più difficile il clima degl’istituti penitenziari perché, gli ormai tradizionali strumenti di governo del comportamento carcerario, introdotti dalla Riforma penitenziaria del 1975 prima e della Legge Gozzini poi, si rivelano del tutto inefficaci. Non è un caso che da più parti si rilevano episodi di violenza nei confronti degli operatori del trattamento e un generalizzato restringimento degli spazi di operatività di questi ultimi da parte degli addetti alla sicurezza.

Un altro argomento con cui saremo costretti a confrontarci è l’organizzazione del DAP e degli UEPE, così come sono stati definiti a seguito dell’applicazione della legge Meduri. Deve ancora essere definito il regolamento degli UEPE come previsto dall’art. 3 della Meduri e non sappiamo che fine farà la proposta della sperimentazione dell’utilizzo della Polizia penitenziaria negli UEPE. Tutti speriamo che la grave situazione che si sta creando all’interno degl’istituti sconsigli chiunque a sostenere di distogliere ancora altro personale dai compiti istituzionali, per prevedere un ampliamento delle funzioni della polizia penitenziaria all’esterno del carcere, peggiorando le condizioni di coloro che sono costretti a rimanere all’interno. Ma dubitiamo che questa semplice constatazione verrà fatta da chi di dovere.
Numerosi interventi fatti nel dibattito sull’utilizzo della polizia penitenziaria negli UEPE e non solo da parte degli assistenti sociali, “impegnati a difendere il proprio territorio”, già paventavano questo rischio e denunciavano questa decisione di portare la pol. Pen negli UEPE come un diversivo o un “contentino” per distogliere dai problemi reali che attanagliano questi operatori.

Le morti per suicidio che si stanno susseguendo all’interno del corpo della Pol. Penitenziaria, sintomo di un disagio che non può essere né ignorato né sottovalutato, lascia sgomenti anche noi assistenti sociali, consapevoli da sempre che il carcere fa male e non solo a chi vi è ristretto…..

Forse a breve sarà portata a compimento la riorganizzazione del DAP e si arriverà alla tanto agognata assegnazione dei posti di dirigenza, sempre che il nuovo corso politico non blocchi nuovamente il lungo e complesso iter per la sua definizione e speriamo che sia in dirittura di arrivo, perché non è possibile vivere ancora a lungo in questa fase d’incertezza.

Questo processo sta mettendo in evidenza come gli effetti della legge Meduri, siano nefasti per l’esecuzione penale esterna, tanto che gli stessi dirigenti ne stanno oggi temendo le conseguenze e si chiedono come ridurne gli effetti, naturalmente, dopo aver intascato il consistente gruzzolo che ne è derivato.
· A fronte, infatti, di un numero elevatissimo di dirigenti della carriera dei direttori penitenziari, solo uno sparuto gruppo di ex direttori di servizio sociale ha beneficiato del passaggio agevolato alla dirigenza, un numero certamente inferiore alle esigenze reali, tanto che diverse sedi dell’esecuzione penale esterna sia a livello regionale sia a livello locale rischiano o di restare vuote o di essere assegnate ad altre professionalità.
· Gli UEPE sono ormai terra di conquista di chiunque, tranne che degli assistenti sociali che li hanno abitati per oltre un trentennio. Nulla infatti è previsto per coloro che lavorano e dirigono attualmente gli UEPE senza essere dirigenti e senza avere nessuna possibilità per diventarlo.
· Le funzioni dirigenziali sono così importanti che gli uffici EPE che non sono sedi dirigenziali, semplicemente non vengono più menzionati pur avendo sedi, risorse strumentali e umane oltre ad un cospicuo carico di soggetti in esecuzione penale.

Un altro grave problema è che ci sono ben quattro diversi riferimenti contrattuali per il personale, infatti: oltre alla Polizia Penitenziaria che ha sempre avuto un contratto di lavoro di natura pubblica con la cosiddetta legge Meduri e il conseguente decreto D.L. n. 63 del 15.02.2006 anche per la dirigenza penitenziaria è prevista la ricollocazione nell’alveo del rapporto di lavoro di diritto pubblico. Recentemente sono stati inoltre nominati dirigenti con contratto privatistico, riferiti ai profili di educatore, mentre la maggioranza del personale educativo e di servizio sociale rimane inquadrato nel Comparto Ministeri. Per non parlare del personale sanitario, infermieristico ed esperti in psicologia in ruolo che stanno per transitare al servizio sanitario nazionale, mentre rimane del tutto indefinita la sorte degli esperti ex art. 80, che sono la maggioranza e che hanno visto un decurtamento consistente delle ore messe a loro disposizione.
Appare superfluo considerare che il governo di questa diversità è oltremodo complessa oltre che disfunzionale al buon andamento dell’Organizzazione. Situazione questa particolarmente rilevante nell’esecuzione penale esterna, alla quale siamo direttamente interessati, ad esempio ben 21 assistenti sociali ricoprono, senza alcun riconoscimento economico (che giustifichi il rischio e le responsabilità ricoperte, del tutto simili a quelle dei colleghi che occupano sedi dirigenziali), gli incarichi di direttore reggente degli UEPE.
Non molto diversa è la situazione dell’area educativa, con la quale siamo accomunati da una condizione di marginalità destinata ad aumentare sempre di più.

Nei 13 anni di attività CASG ci siamo sempre interrogati sui cambiamenti che sono man mano intervenuti nel corso degli anni e sugli scenari che si sono delineati alla luce delle scelte legislative e politiche. Non sempre siamo stati ascoltati, capiti e sostenuti, anzi siamo stati accusati spesso di fare facili allarmismi. In questo periodo abbiamo però potuto dimostrare che si può modificare l’ordine delle cose purché lo si voglia. E qui qualcuno ci ha ascoltato o semplicemente siamo riusciti ad entrare nella discussione in modo non marginale.

Quindi poiché Il governo che a breve si insedierà dovrà necessariamente sciogliere i nodi rimasti irrisolti sia sotto l'aspetto legislativo sia sotto l'aspetto organizzativo degli uffici, nell’attesa che ciò si compia e per non rischiare di intervenire sempre quando le cose sono già state decise, è necessario farsi sentire. Occorre prendere in considerazione anche i non trascurabili e non secondari aspetti contrattuali e quelli legati allo specifico della professione e vista la nostra costante attenzione ai temi di politica più generale, non temiamo di apparire corporativi e centrati troppo sulle nostre problematiche se in considerazione che:
- le risorse…si sono ulteriormente ridotte.
- in due anni non si è riusciti a concludere la fase riorganizzativa del DAP con la definizione delle funzioni dirigenziali e quindi tutto il sistema vive ancora oggi nella più completa incertezza.
- assistiamo ad un sistema del tutto sperequato con la presenza di attribuzioni e competenze uniche sotto il profilo normativo dei vari uffici e contemporaneamente con un diverso inquadramento contrattuale di chi vi opera.

Facciamo doverosamente alcune domande alle OO.SS. oggi qui intervenute e cioè:

Ø non sarebbe opportuno che per gli assistenti sociali che ricoprono l'incarico di direttore reggente negli UEPE siano anche previsti adeguati trattamenti economici ?
Ø non sarebbe opportuno prevedere anche per gli assistenti sociali possibilità di carriera?
Ø gli incarichi di Capo Area, responsabili di Sede di Servizio, di referenti/coordinatori di zona…non dovrebbero avere anche un riconoscimento economico?

Quello che emerge dall’attuale realtà è:
· una netta frattura a livello contrattuale tra gli operatori dei servizi e chi li dirige;
· la necessità di individuare risposte adeguate a quanto sopra esposto all’interno del contratto integrativo di Ministero;
· la necessità di prevedere l'accesso alla funzione dirigenziale anche da parte degli operatori che acquisiscono professionalità ed esperienza all’interno degli uffici.
· La necessità di salvaguardare la specificità di servizio sociale per le direzioni degli uffici di esecuzione penale esterna a livello locale, regionale e dipartimentale.

Ora ci attendono alcune scadenze durante le quali dobbiamo cercare di far sentire anche la nostra voce e su questo è indispensabile il supporto dell’Ordine Nazionale e delle OO.SS. che ci vogliono rappresentare:
chiedere di non coprire i posti vacanti con dirigenti di altre professionalità
bandire i concorsi per la copertura dei posti dei dirigente presso gli UEPE con la riserva di posti per gl’interni
approvare un contratto integrativo che valorizzi le professionalità spese e riconosca le responsabilità che gli operatori sono chiamati ad assumersi per lo svolgimento del loro lavoro.
valutare la possibilità/opportunità di essere inseriti nell’area dei professionisti dipendenti.

Il CASG continuerà a seguire l’evoluzione degli eventi, partecipando attivamente come ha sempre fatto sollecitando istituzioni, organizzazioni professionali e sindacali ad intervenire in tutte le occasioni e i luoghi dove si prendono decisioni su tutti questi temi da quelli più generali a quelli più strettamente professionali.

Si chiede ai colleghi di dare forza e sostegno al Coordinamento attraverso una partecipazione attiva che metta in comune le competenze e le sensibilità di ciascuno per far emergere proposte e iniziative.

Si chiede ai soggetti del mondo associativo e del volontariato di sostenere gli operatori del trattamento e gli assistenti sociali in particolare, perché rappresentativi di quell’area del sistema penitenziario che ha a cuore, come loro, una pena non solo più umana ma anche utile.

Apro il dibattito ed invito sia i colleghi sia gl’intervenuti a prospettare il loro punto di vista sui temi che ho semplicemente accennato e aprire ad una discussione ma soprattutto ad idee e proposte per continuare una battaglia comune e possibilmente vincente.