L'ARCHIVIO DI OLTREILCARCERE

Dal 2007 al 2014 sono stati pubblicati più di 1300 documenti che hanno trattato argomenti riferiti al Servizio Sociale della Giustizia, agli Uffici per l'Esecuzione Penale Esterna, al Sistema dell'Esecuzione Penale Esterna attraverso solidarietaasmilano.blocspot.com

venerdì 30 maggio 2008

Giustizia: "manca la certezza della pena", i commenti politici

Ansa, 30 maggio 2008

Veltroni (Pd): bene Manganelli, serve effettività pena

"Il capo della Polizia Manganelli ha perfettamente e ripete quello che ho detto per tutta la campagna elettorale: il vero problema italiano è l’effettività della pena, chi è responsabile di fatti di violenza deve scontare la pena". Il segretario del Pd, Walter Veltroni, condivide in pieno le affermazioni del capo della Polizia, che ha svolto stamattina un’audizione al Senato. "Manganelli - evidenzia Veltroni - parla della fatica di fare gli arresti. La certezza della pena è centrale come garanzia di sicurezza, altro che ronde, ed è anche ciò che motiva il sacrificio delle forze dell’ordine".

Donadi (Idv): capo Polizia ha ragione, mancano i mezzi

"Il capo della Polizia ha tutte le ragioni per dire che in Italia non ci sono mezzi sufficienti per contrastare l’immigrazione criminale, noi lo abbiamo sempre detto ed è anche per questa ragione che la nostra proposta prevede di rimandare a casa gli immigrati che delinquono anziché tenerli in carcere a spese dello Stato". È il commento di Massimo Donadi, capogruppo alla Camera per l’Idv, sull’ammissione di non avere strumenti adeguati fatta dal capo della Polizia Antonio Manganelli davanti alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato.

Casson (Pd): il Decreto si sta dimostrando inapplicabile

"L’intervento del capo della Polizia Antonio Manganelli nel corso della sua audizione al Senato è stato istituzionalmente corretto e rispettoso, ma ha dato alcune indicazioni numeriche e valutazioni di fatto che demoliscono l’efficacia e l’effettività del decreto del governo. Il problema è che questo provvedimento contiene delle norme vuote, delle norme manifesto che non danno alla Polizia gli strumenti necessari per intervenire in modo adeguato.

Almeno due gli aspetti fondamentali che mancano al decreto: la mancata individuazione delle risorse da destinare alle forze dell’ordine e il non affrontare il tema centrale dei rapporti e dei contatti con gli Stati esteri dai quali arrivano i clandestini in Italia. Il fatto poi che non si conosca ancora il testo del disegno di legge del governo sulla sicurezza, annunciato a gran voce ma mai presentato in Parlamento, rende impossibile una valutazione complessiva sulla realizzabilità di quanto previsto dal decreto. È infine sicuramente condivisibile l’allarme lanciato da Manganelli sulla certezza della pena in Italia. Tema sul quale, va ribadito, questo decreto non interviene in alcun modo". Lo sostiene Felice Casson, capogruppo Pd commissione Giustizia del Senato.

Bertolini (Pdl): confermata la bontà delle misure per la sicurezza

"Il capo della Polizia conferma che il Governo Berlusconi ha imboccato la strada giusta nella lotta contro l’immigrazione clandestina". Lo ha affermato Isabella Bertolini, deputato del Pdl, che ha osservato: "Manganelli, in audizione oggi al Senato, denuncia che gli immigrati irregolari in Italia sono autori del 30% dei reati, con picchi del 70% nel Nord-Est, che l’incertezza della pena impedisce una risposta efficace dello Stato, che i Cpt sono pochi, che il sistema legale degli ingressi è facilmente aggirabile.

Nel pacchetto sicurezza approvato dal Governo Berlusconi sono contenute risposte efficaci a questi problemi: più Cpt, prolungamento del tempo di permanenza nei centri di identificazione, espulsioni più facili, previsione del reato di immigrazione clandestina, misure per migliorare la certezza della pena, restrizioni per i ricongiungimenti familiari. Unitamente a questi provvedimenti assolutamente necessari, dopo due anni di tagli operati dal Governo Prodi, occorre tornare ad aumentare la dotazione di mezzi e uomini a disposizione delle forze dell’ordine. Il Paese ci chiede fermezza e noi del Pdl siamo intenzionati a tener fede alle promesse elettorali".

Associazione Prefettizi: le parole di Manganelli sono raggelanti

"Raggelano le dichiarazioni rese dal Capo della Polizia - Direttore Generale della Pubblica Sicurezza, prefetto Antonio Manganelli, alle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato della Repubblica". È quanto si legge in una nota dell’Associazione prefettizi. Secondo l’associazione "Manganelli ha ragione nell’individuare nell’incertezza della pena la causa della vanificazione dell’azione di contrasto condotta da polizia e magistratura".

Tuttavia vi sono anche altri fattori da considerare. Fra questi "quello della cesura che può realizzarsi tra azione di prevenzione e azione di repressione, in quanto le autorità responsabili della prima sono diverse da quelle titolari della seconda (e reciprocamente autonome) e, negli ambiti di rispettiva competenza, possono ritrovarsi a perseguire obiettivi differenti, con grave dispersione di già scarse risorse e mortificazione dell’attività complessiva".

Per questo, secondo il sindacato del personale della carriera prefettizia "occorre ragionare se non sia il caso di ricondurre sotto un unico soggetto la responsabilità complessiva, anche e forse soprattutto politica e sottoposta al giudizio dei cittadini, della sicurezza. Andrebbe verificata cioè la possibilità che alle autorità preposte alla sicurezza venga affidata sia l’attività di prevenzione, sia quella conseguente scaturente dalla commissione di reati".

In questo modo "verrebbe a sottrarsi all’autorità giudiziaria il coordinamento delle indagini, ma alla stessa resterebbe riservata la funzione essenziale, propria di ogni Stato autenticamente democratico, di vigilanza e di controllo sulla legalità dell’azione delle forze di polizia, in tale funzione compresa la piena titolarità dei poteri di adozione (o di autorizzazione all’adozione) di provvedimenti che incidano sui diritti costituzionalmente garantiti dei cittadini".

Associazione nazionale forense: con processo a clandestini si rischia paralisi

"Siamo d’accordo con il capo della Polizia Manganelli quando dice che in Italia vige l’assoluta incertezza della pena. Questo è vero anche per il contrasto all’immigrazione clandestina: non servono nuovi reati o riformulazioni di reati esistenti, serve qualcuno che garantisca l’esecuzione delle espulsioni. Ad esempio un reparto di polizia specializzato con il compito di accompagnare alla frontiera i clandestini". È quanto si legge in una nota dell’Associazione nazionale forense che commenta le dichiarazioni rese dal capo della Polizia Antonio Manganelli alle commissioni Affari istituzionali e Giustizia del Senato che hanno iniziato l’esame del dl sicurezza.

"Il decreto varato nei giorni scorsi dal governo, ancora una volta, interviene in via d’urgenza sulle norme sostanziali (e il metodo non va bene) e non si preoccupa di garantire in modo efficace l’espulsione dello straniero autore di reati - prosegue la nota -. Valutiamo positivamente le norme di coordinamento della polizia giudiziaria anche se la soluzione migliore sarebbe quella di creare un reparto di polizia specializzata sull’immigrazione clandestina con il compito specifico di gestire e garantire l’espulsione degli stranieri condannati. Essenziale, come ha anche sottolineato Manganelli, rafforzare gli accordi internazionali. Ci risulta, purtroppo, che il ministero degli Esteri non abbia alcuna struttura dedicata ad affrontare la questione".

"Preoccupa molto, invece - sottolinea l’associazione -, l’introduzione, immediata e diretta, dei processi per il mancato rispetto dell’ordine del giudice di espulsione. Rischia di paralizzare l’intera macchina giudiziaria, dai Tribunali (notoriamente già ingolfati, in questo momento sono letteralmente bloccati dallo sciopero dei trascrittori) alle carceri (notoriamente sovraffollate). Sui nuovi poteri in materia di misure preventive conferiti ai Procuratori della Repubblica, dobbiamo ribadire che i magistrati in Italia sono pochi e se gli si affidano sempre nuove competenze è assolutamente necessario aumentarne il numero avviando nuovi concorsi". "Infine - si conclude -, sulle norme relative alla guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti a giudizio dell’Anf si è scelto di valorizzare l’aspetto punitivo e repressivo dello Stato senza alcun intervento a favore delle persone offese dal reato".

Marziale (Osservatorio Diritti dei Minori): sostegno a denunce capo Polizia

"Piena adesione e convinto sostegno alle dichiarazioni rese in commissione Affari Costituzionali e Giustizia del Senato dal prefetto Antonio Manganelli, capo della Polizia di Stato". A pronunciarsi è il sociologo Antonio Marziale, presidente dell’Osservatorio sui Diritti dei Minori, secondo il quale "dietro lo stato di indulto permanente di cui gode l’immigrazione clandestina si celano atroci forme di abuso nei confronti dell’infanzia, come la costrizione all’accattonaggio anche in tenera età". Per Marziale "è necessario che la società civile, impegnata a coadiuvare le istituzioni nel processo di tutela dei diritti fondamentali delle fasce più deboli, esprima a Manganelli la più ampia solidarietà per il coraggio dimostrato nello squarciare, con le sue dichiarazioni, il velo di ipocrisia innalzato da strumentalizzazioni politiche, che di fatto ostacolano la via a soluzioni rapide in fatto di sicurezza pubblica".

"Il dire del capo della Polizia - incalza il sociologo - è riscontrato quotidianamente da un’opinione pubblica esacerbata dal proliferare del crimine e dal perdonismo vigente nel nostro paese, che ha portato il segretario del Partito dei Rumeni in Italia a definirlo paradiso dell’impunibilità". Secondo il parere del presidente dell’Osservatorio "il ruolo super partes del capo della Polizia deve spronare le forze politiche rappresentate nell’arco costituzionale a sveltire i tempi di applicazione delle annunciate misure di contrasto al crimine". Per Marziale, infine "porre rimedio all’immigrazione clandestina significa impedire che l’Italia acquisti posizioni di preminenza nella classifica della tolleranza dell’abuso all’infanzia, verso le cui vette, favorita dalle condizioni denunciate da Manganelli, viaggia speditamente".

Giustizia: 196mila arresti nel 2007, ma solo 1 su 3 in carcere

redazione ristretti orizzonti


N.d.R. - All’articolo di Marco Ludovico ci sembra doveroso premettere una piccola nota, concedendo all’autore e al Sole 24 Ore il "beneficio del dubbio" di aver elaborato un ragionamento senza conoscere a fondo i meccanismi della Giustizia.

Nel 2007 le forze dell’ordine hanno arrestato oltre 196.000 persone, ma quelle che effettivamente sono state immatricolate in un Istituto di pena sono state 90.441… questo perché, evidentemente, per le restanti 106.000 circa non c’erano nemmeno gli estremi per richiedere la convalida dell’arresto al Gip! Tra le 90.441 persone entrate in un carcere 22.423 sono uscite entro 48 ore e tutti coloro che conoscono bene la giustizia e il carcere sanno che questo è potuto succedere solo perché il GIP (Giudice delle Indagini Preliminari) non ha convalidato l’arresto, ritenendo insussistenti o insufficienti le motivazioni per disporre la custodia cautelare in carcere. Concludendo, dei 196.000 arresti eseguiti nel 2007, soltanto 70.000 erano realmente motivati dalle disposizioni di legge vigenti (motivi cautelari o di esecuzione della pena).


Oltre 196.000 arresti nel 2007: solo uno su quattro in carcere più di 10 giorni

di Marco Ludovico

Il Sole 24 Ore, 30 maggio 2008

Carcere virtuale. Nel 2007 sono usciti dagli istituti di pena circa 85 mila detenuti. A guardare le statistiche aggiornate del Dap (il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria presso il ministero della Giustizia) sulla loro permanenza, si nota che sono rimasti in cella soltanto per uno o due giorni 22.423 persone, tra imputati e condannati. Per quelli che hanno scontato da tre fino a 10 giorni, il totale ammonta a 13.157. Se sommiamo anche i 7.146 carcerati rimasti fino a un mese dietro le sbarre, il totale complessivo supera le 42mila unità.

In sostanza, la metà degli 85 mila detenuti è rimasta in prigione per un periodo minimo, quasi simbolico. Se poi aggiungiamo chi, dopo essere stato arrestato, in carcere non ha messo mai piede, si arriva a un dato per cui in un solo caso su quattro si resta in carcere oltre 10 giorni.

Cifre, queste, che stridono con quelle dell’attività delle forze di Polizia. Perché gli ultimi dati del Viminale dicono che l’anno scorso le persone denunciate in stato di libertà sono state oltre 665mila, mentre quelle arrestate o fermate sono quasi 200 mila.

Un dato, quest’ultimo, che consolida la crescita continua degli anni precedenti. Davanti ad un andamento altalenante dei reati (che ha visto un incremento fino al primo semestre 2007 e una flessione a partire dal secondo), le statistiche sugli arresti sono a senso unico e dicono che Polizia di Stato, Arma dei Carabinieri e Guardia di Finanza oggi arrestano e fermano più criminali (presunti) di ieri: quasi il doppio in quattro anni, da 124 mila a 196 mila.

Forse invano, però. Perché, a incrociare i numeri del Dap con quelli del ministero dell’Interno, sembra che l’attività delle forze dell’ordine rischia di essere quella di svuotare il mare col secchiello. Da qui la denuncia contenuta nell’audizione di ieri al Senato del capo della Polizia, Antonio Manganelli.

La certezza (che non c’è) della pena è un tema oggi politicamente forte, che tuttavia è passato, senza risultati, per ogni agenda del ministro dell’Interno: per ultimi l’avevano rilanciato sia Giuliano Amato che Beppe Pisanu, predecessori di Roberto Maroni. Amato, in particolare, aveva varato un ddl ad hoc, rimasto però nei cassetti del Parlamento.

I dati attuali testimoniano un problema irrisolto. Nelle 85 mila uscite dell’anno scorso dalle carceri sono compresi anche 10mila detenuti che hanno avuto una pena da 12 fino a 18 mesi: nel 2007, quindi, erano già reclusi. Se li sottraiamo al totale, il risultato è che dal carcere sono entrati e usciti in un anno in 75mila, a fronte delle circa 200mila persone arrestate o fermate dalle forze di Polizia. In teoria, quindi, oltre 100mila incriminati - con un provvedimento del giudice o comunque convalidato dall’autorità giudiziaria - l’istituto di penitenza non l’hanno neanche visto.

I motivi sono molteplici. Intanto ci sono coloro che passano il periodo del fermo in una caserma dei carabinieri, per esempio, e poi sono messi in libertà dal giudice. Poi scattano altri meccanismi, come la sospensione della pena o le riduzioni per i benefici di legge: l’articolazione delle possibilità è molto frastagliata. Il risultato finale, comunque, è quello di una larga permanenza in carcere per la durata di un weekend: sia che si tratti di imputati (oltre il 30%) sia dei condannati (26%). Da tre a 10 giorni le cifre sono sempre alte: il 18,4% degli imputati, il 15% dei condannati. In percentuale, sono le quote più grandi.

Sul tema ieri il direttore del Dap, Giovanni Ferrara, in Parlamento ha sottolineato come ci sia oggi "l’inversione del rapporto storico tra detenuti in attesa di giudizio e detenuti definitivi: i primi rappresentano il 60% del totale, a conferma - fa notare Ferrara - che la lentezza dei processi incide in modo pesante sulle difficoltà di gestione del sistema". Gli istituti di pena, peraltro, restano insufficienti rispetto alla popolazione carceraria. Il direttore del Dap ha spiegato che "con l’indulto il numero dei detenuti era sceso dai 62mila del luglio 2006 a 38mila. Dopo venti mesi, siamo tornati a quota 54mila, già oltre il limite previsto dall’attuale sistema".

Il paradosso del pacchetto sicurezza, ora in discussione in Parlamento, è che il reato di immigrazione clandestina rischia di portare al tracollo dei penitenziari. Il Governo si è affrettato a precisare che la norma vale per i nuovi ingressi, da quando sarà in vigore il disegno di legge. Applicarla subito avrebbe significato una débacle.

Nel 2007, il 50% dei 90mila nuovi entrati nelle carceri italiane erano stranieri. Lo ha reso noto il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Ettore Ferrara, nella audizione davanti alle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato. "La percentuale di stranieri in carcere - ha spiegato - è in costante crescita. Agli inizi degli anni ‘90 era ancora attestata intorno al 15%, oggi rappresenta invece il 38%", con conseguenti, inevitabili "problemi di funzionamento".

"In particolare - ha aggiunto Ferrara -, circa 16.100 dei detenuti stranieri proviene da Paesi extracomunitari, il 72% da Marocco, Albania, Tunisia, Algeria, Nigeria, ex Jugoslavia e Senegal: i comunitari sono circa 3.800, e il 73% di questi ultimi (in termini assoluti, circa 2.400) romeni".

Infine, la proposta: "Ogni detenuto ci costa 200 euro al giorno, se proponessimo ai paesi d’origine dei clandestini un pagamento di 50 euro al giorno per ogni immigrato che viene riaccolto in patria, forse potremmo sollecitare una collaborazione nel contrasto alla clandestinità".


Giustizia/Carcere: più polizia, più carceri, più Cpt… ecco la "ricetta"!

di Enzo Mangini

Carta, 30 maggio 2008

Il capo della polizia Antonio Manganelli e il direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in audizione alla Commissione Riunita Affari Costituzionali e Giustizia del Senato presentano i loro dati, concentrati sul ruolo della "criminalità straniera".

È stata una mattinata intensa alla Commissione Riunita Affari Costituzionali e Giustizia del Senato. La prima da quando si è insediato il nuovo parlamento. I senatori hanno ascoltato le audizioni di Antonio Manganelli, da quasi un anno successore di Gianni De Gennaro al vertice della polizia, e di Ettore Ferrara, direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, che gestisce tutte le prigioni italiane. L’analisi della situazione dei due alti funzionari pubblici è quasi la stessa e si concentra soprattutto sul ruolo dei migranti.

Manganelli ha detto che "è opportuno aumentare il numero dei Centri di Permanenza Temporanea [Cpt]", perché, secondo il capo della polizia, il numero di espulsioni effettivamente eseguite nel 2007 [circa 2.400] è dovuto al fatto che i posti nei Cpt sono pochi. Il capo della polizia ha detto che lo scorso anno sono stati notificati 10.500 provvedimenti di espulsione, ma nella stragrande maggioranza dei casi non hanno seguito, perché senza i Cpt i provvedimenti vengono semplicemente ignorati.

Un’analisi che farà molto contento il ministro dell’interno Roberto Maroni che qualche giorno fa ha proposto una sorta di "federalismo" della sicurezza, con la costruzione di un Cpt in ogni regione. I Cpt in funzione oggi sono dieci, e quindi Maroni prevede di raddoppiarli, anche usando caserme dismesse.

Di questo starebbe già parlando con il ministro della difesa Ignazio La Russa. Manganelli ha anche criticato l’applicazione delle norme sulle richieste di asilo politico. Non perché, come ha segnalato più volte l’Ue e come ha ricordato nel nuovo rapporto Amnesty International, l’Italia manchi di una legge ad hoc sui rifugiati, ma perché, secondo il capo della polizia "bisogna scongiurare un uso strumentale di queste richieste".

Il fatto è, ha spiegato Manganelli, che nei centri per i richiedenti asilo, i Cara, "si può uscire di giorno per rientrare di sera, e quindi qualcuno non rientra affatto". Non una parola, stando ai resoconti delle agenzie di stampa, sul fatto che le procedure per il riconoscimento dello status di rifugiato politico arrivano a durare anche più di un anno, durante il quale le persone vivono in un limbo giuridico, esposte allo sfruttamento e senza la possibilità di cercarsi un lavoro.

Manganelli ha proseguito la sua audizione alla commissione affari costituzionali attaccando "l’indulto quotidiano" che avverrebbe in Italia a causa della "mancanza vergognosa di certezza della pena". Colpa, secondo il capo della polizia, delle leggi che rendono molto difficile perseguire i reati, che al 30 per cento sono commessi da stranieri. La risposta, quindi, sono più Cpt e procedure più certe e più snelle per le espulsioni.

Dopo Manganelli è toccato a Ettore Ferrara, direttore del Dap. Anche il suo intervento si è concentrato sull’ "allarmante" ritmo di crescita della popolazione carceraria e in particolare dei detenuti stranieri, che oggi sono 20.123 su un totale di 53.700 reclusi. I dati forniti da Ferrara indicano che il 70 per cento dei detenuti stranieri proviene da otto paesi: Romania, Albania, Marocco, Algeria, Nigeria ed ex Jugoslavia. Secondo Ferrara, l’effetto dell’indulto si già esaurito da tempo e ci si sta rapidamente avvicinando alla soglia dei 62 mila detenuti [a fronte di una capienza teorica di 43 mila] che nel luglio del 2006 convinse il parlamento ad approvare l’indulto.

Ferrara, al contrario, chiede che siano costruite nuove carceri, anche perché di quelle esistenti solo il 20 per cento è stato costruito negli ultimi cento anni e un 20 per cento addirittura prima del 1600. Il 50 per cento dei 94 mila nuovi entrati nel 2007 è rimasto in cella meno di un mese. Il che rimanda alla questione principale: la metà dei detenuti italiani non è condannata in via definitiva ma in attesa giudizio, percentuale che sale fino a due terzi nel caso di detenuti stranieri. Ma questo nessuno dei senatori della Commissione lo ha chiesto.

giovedì 29 maggio 2008

Giustizia/Carcere: la "certezza della pena" e il collasso delle regole civili

di Sandro Margara (Presidente Fondazione Michelucci)- Fuoriluogo, 25 maggio 2008

Da Beccaria a Rudolph Giuliani, il tramonto della giustizia e il trionfo del mito securitario. Un capitolo di Punire i poveri di Loïc Wacquant è dedicato ai "Miti culturali del pensiero unico securitario". Sono pagine divertenti, di quel divertimento tragico che è il nostro pane quotidiano, che dimostrano la inconsistenza di quei miti e, quindi, di quella cultura e, quindi, di quel pensiero.

Tra quei miti la "tolleranza zero", che si è incarnata come luogo di rivelazione, nella New York di Rudolph Giuliani, che, secondo la vulgata, avrebbe debellato la criminalità in poco tempo. È falso: la diminuzione della criminalità era cominciata prima che arrivasse Giuliani, si è attuata anche là dove sono state praticate politiche opposte, dieci anni prima a New York era stata fatta la stessa politica e l’alta criminalità di quegli anni non era affatto diminuita. Altre erano state le cause della diminuzione della criminalità degli anni ‘90 e Wacquant le espone nel dettaglio. La politica di Giuliani aveva solo prodotto, a costi elevatissimi, più polizia, più discriminazione e conflitto (per le aree della povertà ovviamente).

Il mito culturale della "tolleranza zero" si inserisce in un altro: quello della "finestra rotta", secondo cui sono i piccoli gesti di disordine, come una finestra rotta in una casa, che portano al manifestarsi della criminalità più grave: e allora perseguire come reati, con "tolleranza zero", la miriade di condotte disordinate conseguenti al degrado degli ambienti di vita, serve ad evitare il peggio. Nessuna ricerca empirica ha mai dimostrato questo: si tratta di una favola costruita da un politologo ultraconservatore e da un poliziotto, entrambi con il pallino sociologico, raccontata in una rivista a grande tiratura e non in uno studio scientifico. Il risultato è che la favola è divenuta l’incubo di barboni, mendicanti, lavavetri e simili di tutto il mondo.

Il richiamo alla certezza della pena è nato, sempre in ambiente Usa, nella dottrina giuridica, ma, via via che produceva danni e galera, è diventato anch’esso un mito culturale del pensiero unico securitario. Beccarla parlava di "pena certa", ma lo faceva in un tempo in cui mancavano le regole per definire le pene, la loro durata e le modalità di esecuzione e aggiungeva che come dovevano essere certe, le pene dovevano anche essere miti.

Negli ultimi decenni del ‘900, si è imposta, in vari sistemi penali, una severa critica alla larga discrezionalità dei giudici nella determinazione e durata concreta delle pene. Negli Stati Uniti, in precedenza, era stato lo stesso giudice della condanna che dava una pena indicativa (da un minimo a un massimo), che i responsabili delle carceri definivano, poi, in concreto secondo la risposta dei detenuti agli interventi riabilitativi.

Per le nuove teorie, il giudice doveva condannare, invece, ad una pena determinata, osservando un rigoroso prontuario corrispondente ai reati commessi. Dentro la nicchia del discorso degli esperti, poteva prosperare, così, il discorso securitario e, a rimorchio, le scelte politiche, ormai in auge nel corso degli anni ‘70: si considerava l’intervento riabilitativo in carcere come privo di efficacia e produttore soltanto di un deprecabile lassismo e si rilegittimava in pieno il carcere.

Se ne era detto tutto il male possibile e, invece, ora il carcere diventava la pena affidabile, l’unica che metteva fuori corso il nemico sociale. La pena doveva essere certa: e così i detenuti da 204.000 nel 1973 sono arrivati a 2.300.000 nel 2005, più di dieci volte tanto, e crescono ancora. Strada facendo, si è arrivati ad enunciare la regola che, al terzo reato, anche se poco grave, la carcerazione diventa perpetua: tre sbagli e sei fuori, ovvero dentro, in carcere. Pena certa, dunque, ma, dimenticando Beccaria, anche sproporzionata e sempre più estesa inoltre a condotte piuttosto indicative di precarietà di vita, che criminali.

Da noi, la pesantezza delle pene del codice Rocco, ha determinato una serie di interventi del periodo democratico, che ha portato una forte discrezionalità del giudice della condanna. Inoltre l’Ordinamento penitenziario ha previsto modifiche della pena inflitta e delle modalità esecutive della stessa: alla rigidità della pena inflitta in sentenza è stata sostituita la flessibilità, coperta costituzionalmente dalla sentenza 204/74 della Corte Costituzionale, riconfermata poi da varie sentenze successive.

Ad ogni tentativo di nuovo Codice penale, si cerca di ridurre la discrezionalità dei giudici, sia di quelli del processo, che di quelli di sorveglianza durante l’esecuzione, convinti che debbano recuperarsi criteri più certi nella determinazione della pena e della sua durata. Con una notevole indifferenza alla proporzionalità della pena rispetto ai fatti, volendo avere più certezza della pena, si pensa a previsioni penali sempre più numerose, sempre più detentive, sempre più severe: come negli Usa, questo è successo ovunque.

La promozione a mito culturale della certezza della pena fa sì che questa venga invocata in modo frequente e approssimativo, imponendola anche come obbligo per la custodia cautelare dei giudicabili, contro il principio costituzionale secondo cui nessuno può essere considerato colpevole prima della condanna definitiva.

È contestata anche la flessibilità della pena durante la esecuzione e invocata, contro le affermazioni della Corte Costituzionale, la riduzione delle misure alternative, necessarie in relazione alla finalità rieducativa/riabilitativa/risocializzante che la pena deve avere ai sensi dell’art. 27 della Costituzione. E si ricordi che ripetute ricerche confermano che le misure alternative alla detenzione riducono la recidiva tre/quattro volte più efficacemente della pena eseguita in carcere (dopo sette anni dalla conclusione della misura alternativa, la recidiva è inferiore al 20%; dopo lo stesso tempo dalla conclusione della pena in carcere, la recidiva è quasi al 70%).

Dobbiamo sottostare ai miti culturali del pensiero unico securitario, tolleranza zero, finestre rotte e certezza della pena? Intanto, chiariamo che quei miti nascondono l’inconsistenza delle ragioni o, meglio, la presenza di cattive ragioni. Mettiamo in fila i punti salienti della situazione.

Primo: le politiche securitarie e carcerarie sono diventate, come dimostrato nelle recenti elezioni, la questione centrale della politica generale, che pure di cose a cui pensare ne avrebbe tante altre.

Secondo: il carcere cresce a dismisura e si riempie di stranieri, di tossici, di soggetti psichiatrici e socialmente abbandonati, non della criminalità più grave che gode di notevole disattenzione politica.

Terzo: a un carcere pesante corrisponde uno stato leggero, anche per la necessità di spostare risorse sui sempre più estesi e costosi interventi polizieschi e carcerari: ci perdono gli interventi sociali, sostituiti dal carcere come "non risposta" ai problemi che si pongono.

Quarto: se è la percezione dell’insicurezza che conta, notiamo, intanto, che essa subisce continui rilanci: fra i media e le grida politiche e legislative, quella percezione è entrata in una spirale di crescita inarrestabile, che è inevitabilmente arrivata anche ai pogrom.

Quinto: ma se si continua a guardare solo alla percezione, i problemi reali non verranno mai affrontati e così puntualmente accade: repressione, carcere, espulsioni rilanciano le pulsioni antisociali e trasudano razzismo da ogni parte, ma peggiorano soltanto la situazione rendendo più gravi ed acuti i conflitti.

Sesto: gli allontanamenti, gli sgomberi e le ruspe che sono l’immagine brutale ed efficace di questa politica, non suscitano reazioni, ma, invece, sempre più spesso, applausi: come dicevano le vecchie canzoni, pietà l’è morta e dietro la morte della pietà c’è il considerare l’altro come non-persona, c’è la disumanizzazione, che si coglie come "cifra" del tutto.

Tento una sintesi, che non credo molto azzardata: dalla convinzione tatcheriana che non esistesse una cosa che si chiama società siamo arrivati alla fine del sociale, con i principi che lo hanno accompagnato: non è la fine della storia, ma il collasso delle regole che ci siamo dati. In questa fase, le comunità si ritrovano per fare fuori il diverso, ma superato questo momento, gli appartenenti a quelle comunità guarderanno negli occhi dei compagni e non ci troveranno alcuna buona intenzione. Nel nostro mondo, accanto all’inquinamento ambientale, esiste un inquinamento sociale, entrambi letali.

Giustizia: com’è cambiata la mia vita dopo 26 anni di carcere

di Aere Clara

www.ilsussidiario.net, 29 maggio 2009

Non rammento più chi diceva che "coloro che hanno ricordi precisi di un’esperienza probabilmente non l’hanno vissuta". È terribilmente vero. Così, quando mi è stato chiesto di esprimermi sul significato della rieducazione - risocializzazione all’interno del carcere, nel quale ho passato gli ultimi 26 anni della mia vita, ho avuto una specie di vuoto mentale. Sono andata in Internet e ho scaricato un quantitativo non indifferente di articoli sull’argomento. Come se io non l’avessi attraversato. Poi ho preso atto che l’esperienza della rieducazione - risocializzazione è dentro la mia pelle. Non c’è teoria. È tutta vita vissuta e come tale passibile di ricostruzione del tutto frammentaria e soggettiva. Provo tuttavia a raccontarla come testimonianza.

Sono entrata in carcere nell’82, per reati legati alla lotta armata. Ho trascorso i primi 5 anni nel carcere speciale di Voghera dove l’art. 90 dell’ordinamento penitenziario aveva sospeso (come oggi il 41 bis) qualsiasi trattamento rieducativo. Vigeva solo la punizione: 23 ore su 24 da sole in cella (eravamo 100 donne in questa struttura), 1 ora di aria al giorno con le persone che la Direzione sceglieva, la riduzione al minimo di capi di vestiario (un cambio, una maglietta, un jeans, un cappotto), un solo libro, posta passata al vaglio della censura, colloqui con i vetri.

Il ricordo che mi è rimasto è il medico, come figura che raccoglieva il nostro disagio e la nostra solitudine; il cappellano, Don Giuseppe, che interrompeva con la messa le interminabili ore di isolamento; ed il metodo che usavamo per sentirci: ci si chinava sul bidè e ci si parlava nel buco dello scarico. Ricordo anche che, un giorno, il dentista andò allarmato dal Direttore per comunicargli che il quantitativo di anestetico necessario per sedarci era il doppio di quello comunemente usato, il che equivaleva a dire che il nostro stress, rispetto alla media, aveva raggiunto una soglia preoccupante...

Per contro, questo durissimo regime carcerario rafforzava in noi la convinzione dell’esattezza della nostra analisi, trovandoci di fronte ad un esempio tanto violento quanto il nostro. Il modello di intervento nella realtà, da noi usato non veniva per nulla scalfito da questo modo di "fare" e di "essere", incapace di mostrarci un’alternativa.

Poi fu la volta del carcere di Opera che copre i miei restanti 21 anni. Qui, pur rimanendo ancora vigente un regime di "sorveglianza speciale", venne ripristinato l’ordinamento penitenziario. Ci fu concesso di gestire la biblioteca, di partecipare a corsi, di accedere alla commissione mensa che controllava la qualità del cibo che ci veniva cucinato, venne ripristinata la corrispondenza tra carcere e carcere dando nuovamente voce agli affetti da cui si era stati strappati al momento dell’arresto ed i colloqui ritornarono ad essere senza vetri dando la possibilità alle mani di stringersi... dunque una punizione attenuata che però non andava a modificarne il cuore: l’attenzione a noi, come esseri umani, era del tutto inesistente.

Tant’è che non dimenticherò mai una gentilezza che ricevetti in quel periodo. So che, per chi non è abituato alla deprivazione totale, questo sembrerà una banalità ma credo ci si debba soffermare un attimo di più, perché il senso della rieducazione - risocializzazione sta qui.

Da tempo desideravo una cassetta che, a detta del carcere, non era in commercio: si trattava di Butch Cassidy. Lo volevo rivedere e regalare ad un’altra compagna per la quale quel film aveva un particolare valore affettivo. Pier Felice, il volontario a cui lo chiesi, fece l’impossibile per trovarlo e 2 giorni dopo era tra le mie mani. Io dissi poco o niente ma in quel momento ritornai ad essere una persona. Un essere umano non solo punito e mortificato, ma anche valorizzato nei suoi desideri. Lui mi stava restituendo con quell’atto un’identità e dunque una dignità.

Fu una piccola luce in quel grigio totale di giorni sempre uguali, di gesti uguali, di abitudini, di "invisibilità".

Poi, a seguito della richiesta di forme alternative alla carcerazione, previste dalla Legge Gozzini dopo aver raggiunto un certo numero di anni di pena (e per forme alternative si intende: permessi premio - possibilità di trascorrere qualche giorno a casa per riallacciare i fili dei propri affetti; art. 21- scontare la pena uscendo al mattino dal carcere, lavorare fuori, rientrare non appena finito l’orario; semilibertà - scontare la pena recandosi al lavoro ma, con la concessione oltre a questo di avere qualche ora per sé alla sera nonché al sabato e alla domenica), i riflettori si accesero sulla mia "personalità".

Raramente negli anni precedenti si era visto qualche educatore, psicologo, assistente sociale... eravamo un fascicolo lasciato lì ad occupare spazio in un armadio; tutto ad un tratto, venni convocata... tutti mi vollero vedere perché dovevano fare una relazione sul mio grado di rieducazione - risocializzazione: ma prima dov’ erano?

Prima dovevo solo essere contenuta, tutt’al più in po’ occupata per non farmi impazzire dalla noia, ma la mia individualità non importava a nessuno... me la coltivavo io... quando riuscivo... quando magari l’arrivo della posta mi risollevava un po’ l’animo. O magari quando avevo fatto un bel sogno... quasi reale.

Di tutto questo lavoro completamente mio, silenzioso ed imperfetto come ogni analisi fatta in solitudine ora mi veniva chiesto conto ed io sentivo che non solo ero stata lasciata lì per anni, senza che uno sguardo si posasse su di me, ma, ora che si posava per l’attimo previsto dalla Legge, aveva la presunzione di valutare un percorso umano, il mio, verso cui non aveva avuto nessun tipo di curiosità, nessuno slancio di interazione.

I riflettori non durarono molto. Il tempo di tradursi in una serie di valutazioni cartacee che entrarono a far parte di un fascicolo sul tavolo del Magistrato di Sorveglianza. Se andava bene mi veniva concesso il beneficio, diversamente venivo "rigettata" e tornavo un po’ più depressa alla vita di sempre basandomi sempre e solo sulle mie capacità di "far fronte a"...

Mi andò bene. Dopo 11 anni di carcere mi fu concesso di poter sostituire la detenzione "intra" muraria con quella "extra" muraria. Cominciai a lavorare nuovamente nella società e fu l’ennesima solitudine. Mi arrangiai nella vita pratica e trovai persone che mi aiutarono da questo punto di vista, ma la mia "inesistenza" come essere umano continuò. I controlli delle autorità competenti (polizia, carabinieri, polizia penitenziaria) sul posto di lavoro furono l’esemplificazione del "nessuno" che ero: fatte in divisa, nella completa incuranza della situazione, di per sé già così delicata e fragile nei rapporti con le altre persone poiché non tutti sapevano di me, della mia storia. Per l’équipe trattamentale (assistenti sociali, psicologi, educatori) continuai ad essere un fascicolo da aprirsi e chiudersi esclusivamente quando vi era qualche richiesta diversa di forma alternativa (per esempio dopo l’art 21 richiesi la semilibertà). Mai prese forma questa semplice domanda: "Scusi, ma Lei come sta?".

Sono stati questi ultimi anni ad aprire davanti e dentro di me i primi squarci di una vera risocializzazione. Come ultima tappa della mia carcerazione ho richiesto il beneficio della liberazione condizionale che prevede la scarcerazione e la libertà vigilata per 5 anni. Dopo di che la pena si dichiara estinta.

Stessa procedura di accensione dei riflettori delle altre volte ma con una variabile che ha prodotto il cambiamento: lo sguardo dell’Autorità si é posato su di me come persona in carne ed ossa non come fascicolo.

Ed il fine ultimo non è stato solo un giudizio, ma l’affiancarsi in un percorso di maturazione e conoscenza che mi ha resa più ricca e più consapevole.

È stato un esempio di Potere non autoreferenziale, che non si nutre di se stesso ma é responsabile dell’umanità dolente che gli é stata affidata e che considera nella sua complessità di vita non soltanto nell’episodio criminoso a cui la pena l’ha inchiodata.

Un esempio che costituisce un insegnamento per chi ha avuto un comportamento delittuoso, per chi, per i motivi più disparati, ad un certo punto della sua vita non ha più tenuto conto delle ragioni dell’Altro.

Si "ritorna" alla convivenza civile quando si condivide nuovamente uno stesso linguaggio. E per dirla con il Prof. Luciano Eusebi, Docente di Diritto Penale all’Università Cattolica di Milano: "la società civile fa davvero prevenzione nella misura in cui mantiene alto il consenso dei cittadini alla norma morale "Una prevenzione efficace e stabile non dipende dal timore, ma dal consenso".

Questa é la mia esperienza di risocializzazione che si é data nel suo vero e profondo significato quando ha incontrato una presenza viva e attenta che, non ha giustificato il reato, anzi, ma non mi ha identificata con esso. Mi ha dato cioè la possibilità di continuare a mettermi alla prova, pur nella coscienza di una responsabilità che accompagnerà il resto della la mia vita. Da una "assenza umana totale" sono tornata ad avere una "dignità di esistenza"... e tutto grazie ad uno sguardo.

Giustizia: cos’è la rieducazione, oltre le definizioni normative

di Guido Brambilla (Magistrato di Sorveglianza a Milano)

www.ilsussidiario.net, 29 maggio 2009

L’art. 27, 3° comma, della Costituzione recita che "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato". Già il noto giurista Carnelutti affermava in quei tempi che il processo penale avrebbe fallito il suo scopo se anche con l’irrogazione della giusta pena non si fosse raggiunto l’obiettivo del riabbraccio ultimo tra la società e il reo.

Tralascio - dandone per scontata la conoscenza - la citazione di tutti gli sviluppi legislativi e giurisprudenziali (in primis della Corte Costituzionale) che, dando concreta attuazione al predetto dettato fondativo, hanno contribuito nel corso degli anni all’individuazione degli strumenti concreti per corrispondere sempre più al bisogno di un recupero delle devianze.

Ma cosa si può intendere per "rieducazione", visto che né il legislatore, né la giurisprudenza, né gli operatori, offrono una definizione e soprattutto dei contenuti a questo concetto? A cosa deve essere rieducato il condannato, attraverso il lavoro, il trattamento (pur necessario), a quale modello di società? Si dice infatti che l’obiettivo è il reinserimento sociale. Ma anche questa espressione è ambigua e, nella concretezza dei problemi che solitamente incontra il detenuto una volta uscito dal carcere, spesso inefficace.

Vanno infatti sottolineati alcuni ordini di problemi rilevabili dal quotidiano: gli educatori che fanno parte delle equipe dei carceri sono pochissimi, e a volte impreparati ad affrontare complesse problematiche, bisogni diversissimi, in relazione a tipi di reato e di autore del tutto eterogenei. E come si fa poi ad impostare un trattamento mirante alla risocializzazione di un extracomunitario che proviene da una realtà sociale completamente diversa dalla nostra, con valori, cultura, religione diverse, con un diverso senso dello Stato e della società? (e i detenuti extracomunitari costituiscono ora una grossa fetta della popolazione carceraria). E per i detenuti malati, sia fisici che psichici?

Anche se il detenuto, attraverso il lavoro, riesce ad uscire dall’ozio che la vita detentiva impone (anche per lunghissimi anni) ed impara ad esprimersi nel lavoro, cosa accade poi, quando uscito, si ritrova all’interno di contesti devianti e, soprattutto non trova una rete di supporto che gli consenta di mettere a frutto quello che ha imparato nel carcere? Vi è difficoltà a trovare lavoro per i giovani liberi, figuriamoci per persone magari non più giovani con il marchio del certificato penale macchiato da reati. È facile il riproporsi in questi casi di atteggiamenti nuovamente espulsivi che ributtano il detenuto nel circuito della devianza.

Ma poi questa società contemporanea - a detta degli stessi detenuti - non è a sua volta spesso permeata da logiche di sfruttamento e di profitto, non propone essa stessa come unici obiettivi dell’uomo, la ricchezza, il benessere e il potere? È a questa società, a questi modelli che i detenuti devono essere rieducati?

Le dinamiche inter-relazionali fra i diversi operatori che si occupano di esecuzione penale (magistrati, assistenti sociali, psicologi, operatori penitenziari, educatori, ecc..), sono spesso scollegate tra loro, non perseguono degli orientamenti univoci e sono appesantite da un enorme eccesso di burocrazia.

Queste obiezioni rivelano che il problema della rieducazione (è per me però preferibile parlare di rapporto educativo) è più complesso o, meglio, più profondo, rispetto ai modelli scientifici, sociologici, criminologici, come sono attualmente spesso proposti. Nella mia pratica di magistrato ho potuto constatare che l’esperienza educativa può passare solo attraverso il rapporto tra un io e un tu: se non c’è innanzitutto un rapporto, non c’è presa di consapevolezza da parte del detenuto della propria identità, è congelato in una definizione criminologico-giuridica (sono un terrorista, un sex-offender, un tossico, ecc.) e quindi non viene disvelata fino in fondo la sua dignità di persona che è sempre più del reato che ha commesso.

L’educazione deve quindi fondarsi a mio parere su una nuova concezione antropologica-relazionale dell’uomo che ha come categoria essenziale quella dell’incontro personale tra un io e un tu capaci di apertura all’altro fino al livello delle domande ultime, della sua esperienza elementare (vale a dire di quel complesso di esigenze ed evidenze che identificano il cuore dell’uomo in tutte le culture).

Ma questo richiede il chiarimento di un presupposto fondamentale:

L’uomo (il detenuto, l’internato), qualunque uomo, è persona. Secondo la linea di pensiero che si è più consolidata nel personalismo tedesco, da Max Sheler, a Edith Stein, sino Romano Guardini, essere persona significa anzitutto auto appartenenza nel numerico: "Sono uno, sono solo uno, non posso essere raddoppiato. Essere persona significa ancora appartenenza nel qualitativo: sono costui; sono solo questa persona. Non posso essere imitato; di me non può essere fatto un "caso". (singolarità e irripetibilità). La persona è inoltre auto appartenenza in coscienza, libertà ed azione. Conoscere, decidere ed agire non sono per sé ancora persona; lo sono solo per il fatto che io mi appartengo nel sapere, nel decidere e nell’agire. La persona è infine auto appartenenza in interiorità e dignità. Interiorità significa che io, essendo persona, sono in me, presso di me, e, invero, esclusivamente. Significa che nessuno può "entrare", se non gli apro questa interiorità. Anzi da un certo punto in avanti non la posso ulteriormente aprire anche se volessi. Qui comincia l’intima solitudine, a cui solo Dio ha accesso (persona come mistero).

Nell’interiorità la persona è al nascosto e al sicuro. Tutto ciò che viene dall’esterno: osservazione, calcolo, violenza, analisi psicologica e suggestione, non arrivano qui dentro. L’aspetto per così dire "trascendente" di questa interiorità, è la dignità. La persona sta essenzialmente al di sopra del contesto naturale delle cose e del loro operare; è elevata. È tale da richiedere profondo rispetto. Appunto in ciò è sottratta ad ogni elemento di violenza, ad ogni calcolo, ad ogni classificazione usurpante. Ecco dunque, cos’è la persona.

Essere-uomo vuol dire essere-persona. Non lo è per il talento o perfino per la genialità. Anche il più semplice è persona. Il bambino, che non è ancora diventato padrone di se stesso e il minorato, che non lo diventerà mai, portano il carattere di persona, in modo sopito, latente. Ciò va detto di fronte ad ogni tentativo di equiparare la particolare qualità dell’elemento personale con il talento o con altre simili qualità. L’uomo non diventa persona neanche per un suo atteggiamento o convinzione di tipo etico-religioso.

Una tale concezione (v. Kierkegaard), scambia il carattere ontico della persona con il carattere etico-religioso della personalità affermata e compiuta, o quello assiologico della personalità piena di valore e ricca. Anche chi è immorale e irreligioso è persona. L’uomo è persona per essenza. Così essa resta ineliminabile. L’uomo può diventare indegno; può condurre una vita indegna di essa, la può reprimere affinché non si faccia valere. Allora egli sarà forse privo di valore e di salvezza: ma eliminare la persona non può. Tutti i tentativi di concepire la persona come puro dinamismo, come atto, in modo da farla scomparire se l’uomo non compie alcun atto, quando non pensa e non è attivo, o tutti i tentativi di collocare la persona in una sfera assiologia, nel valore e nella qualità, così da farla scomparire quando l’uomo perde valore; ebbene, tutte queste concezioni secondo le quali l’uomo può cessare di essere persona, sono necessariamente errate, La persona è qualità imperitura, volto indistruttibile; ineliminabile possibilità di dire "io" e "tu", di pronunciare la "parola" e di percepire la "parola"". (Cfr. Romano Guardini Persona e personalità. Ed. Morcelliana. Pgg. 29-34).

L’uomo è persona. Il detenuto è persona, irripetibile nella sua unicità, interiorità e personalità. Questo offre già un primo spunto per evidenziare come concetti quali "trattamento", "osservazione scientifica della personalità", siano espressivi di un approccio positivistico, riduttivo della persona. L’io non può essere solo "studiato" e neppure "benevolmente trattato", bensì amato, cioè affermato, valorizzato, rispettato, qualunque sia l’uso che egli ha fatto e fa del proprio io personalissimo.

Guardarlo come "caso" all’interno di un’ottica di mera osservazione bio-psicologica o comportamentale, influire su di lui attraverso "tecniche" pedagogiche, può tradursi, se è l’unica modalità relazionale, anche in una surrettizia forma di violenza. La persona non è definita dal reato che ha commesso e il reato non può quindi diventare mera categoria criminologica definitoria dell’individuo.

Questa dinamica riduttiva è già ineludibilmente presente nella fase processuale, dove tutta la vita di un gesto, tutto il corredo personalissimo di un’identità, tutto il malessere e l’istinto cattivo, la speranza e la rabbia di un momento o di anni, tutto un universo, vengono stretti dentro la fredda astrattezza di un’imputazione. L’io non c’è più, al suo posto un fatto estratto dalla persona, studiato, analizzato, compreso, anche con attenta competenza e saggezza, ma l’io non c’è più. Così è per la condanna. Molti detenuti la percepiscono come astrattamente giusta, perché retributiva di una cattiva azione, ma come ultimamente estranea, come se non fosse la "loro". È la conseguenza della mancanza di relazione tra un io e un tu. A volte quindi la doverosa imparzialità del giudice può tradursi in una gelida estraneità. La punizione deve "accadere" o svilupparsi dentro un rapporto umano, assicurato da una presenza che, mentre castiga, valorizza, riaccoglie. Perché la persona non appartiene allo Stato.

Per capire questo bisogna rifarsi alle esperienze elementari: un padre punisce il figlio per una cattiva azione, ma cos’è che provoca reale dolore nel figlio per lo sbaglio commesso? La permanenza del rapporto col padre. Il padre punisce ma c’è, non rompe il rapporto col figlio. Ciò rende possibile per il bambino passare dall’esperienza della colpa-dolore per lo sbaglio commesso (punizione), alla gioia del perdono assicurato dalla presenza del padre (io ci sono, sarò sempre con te, non me ne vado, tu sei mio figlio e con ciò riaffermo, dopo lo sbaglio, la totalità della tua identità).

Il carcere, nonostante la sua natura costrittiva e segregazionista, può essere un luogo dove può riemergere questa speranza. Con ciò non intendo affatto stigmatizzare tutte le validissime e positive iniziative trattamentali che si stanno sviluppando sempre più all’interno delle carceri: ne ho viste moltissime che hanno suscitato ammirazione, merito anche della genialità e dell’attenzione dei direttori e operatori delle carceri.

Intendo solo affermare che c’è un "prima", che deve attraversare tutte queste iniziative. Questo "prima" è nello sguardo, nel rapporto, nel dire "tu per me vali", anche se non aderisci al trattamento che ho predisposto per te. È questa restituzione dell’io ferito alla consapevolezza della sua dignità, che può far poi capire al detenuto il significato del lavoro, non solo un’eventuale opportunità per il futuro, ma espressione potente e creativa dell’io nell’oggi.

Se manca questo, infatti, il trattamento carcerario rischia di ridursi ad una logica dentro-fuori, cioè il trattamento, gli educatori, gli assistenti, gli psichiatri lavorano sul detenuto per un domani, per un possibile "fuori" (cosa giusta ma riduttiva). Infatti come vive il detenuto l’hic et nunc della privazione di libertà? Solo in funzione del riacquisto della libertà un domani? E che senso ha l’oggi?

In una simile logica è facile il diffondersi di atteggiamenti simulatori. Il detenuto che non incontra alcuna autentica proposta autorevole di vita nuova, tende a conformare sì il suo comportamento a ciò che gli è richiesto, ma in prospettiva di uscire, non perché è umanamente cambiato. E in questa logica prevalgono spesso i più forti. All’interno del carcere ci sono soggetti che non sanno simulare o sono fuori dalle "protezioni" dei più forti e per questo vengono esclusi da percorsi. E gli extracomunitari che spesso non hanno all’esterno riferimenti abitativi o lavorativi costituiscono una sacca ormai numericamente importante di esclusione dal processo di risocializzazione.

Secondo me, quindi, l’opera di risocializzazione, (meglio direi di comprensione di sé e del proprio esistere nel mondo), può solo cominciare da un rapporto significativo con un tu. Il rapporto con un tu che guardi al soggetto senza giudicarlo, senza congelarlo nel gesto criminoso, nel fatto che ha commesso, ma che, senza giustificare nulla (occorre dire pane al pane e vino al vino), guardi al detenuto come uomo degno di stima e che quindi ha una dignità prima di dimostrarsi di nuovo "utile " per la società, prima che abbia un lavoro, un’istruzione e sia quindi nei termini politicamente corretti per essere considerato "riabilitato".

Questo rapporto, poi, anche attraverso gli strumenti del lavoro (sempre positivi), e delle altre opportunità che vengono offerte, deve aiutare il detenuto a scoprire a chi appartiene, dentro una solidarietà, un’amicizia, che non viene meno anche dopo la scarcerazione.

Ed è per questo che lo Stato deve abbandonare una politica meramente "segregativa-assistenzialistica" del detenuto, lasciando al privato-sociale il compito di un intervento fattivo che non sia solo l’etica della pacca sulla spalla o dei vestiti smessi, ma di un’opera fatta di imprese che possano investire in modo costruttivo sui detenuti, attraverso una politica di detassazione, di sgravi fiscali che faciliti l’inclusione lavorativa del condannato a livelli di eccellenza e di autentica competitività sul mercato.

Così come lo Stato deve impegnarsi in una politica di sostegno delle famiglie (primo ambito di appartenenza del detenuto, cd. rete primaria), spesso doppiamente punite (per la carcerazione del congiunto e per la conseguente deprivazione del sostegno economico) e l’assistenza sociale sul territorio deve impegnarsi (invece che a meri colloqui periodici) a favorire forme di aggregazione sociale ( cd. reti secondarie) tra realtà famigliari in un tessuto connettivo sano che possa sostenerle anche nelle difficoltà e nei disagi di ordine morale e dei comportamenti interpersonali.

Giustizia: per l’affidamento non basta essere "buon detenuto"

Diritto&Giustizi@, 29 maggio 2009

Non basta essere un "buon detenuto" o non costituire un pericolo sociale. Nella valutazione dell’adesione alla fase rieducativa occorre considerare il distacco completo dall’esperienza deviante e la coscienza del danno arrecato (Tribunale di Sorveglianza di Bari, Ordinanza del 27 marzo 2008).

In tema di affidamento in prova al servizio sociale, quando il condannato non provenga da un’area di emarginazione socioeconomica ma abbia fruito di favorevoli opportunità ambientali e personali, vanno individuati corretti parametri di riferimento, al fine di valutare l’idoneità della misura alternativa richiesta

In tema di affidamento in prova al servizio sociale, nell’ipotesi in cui il condannato non provenga da un’area di emarginazione socioeconomica ma, al contrario, abbia fruito di favorevoli opportunità ambientali e personali, data la provenienza da un sano contesto socio-familiare, vanno individuati corretti parametri di riferimento, al fine di valutare l’idoneità della misura alternativa richiesta al suo "reinserimento sociale".

La prova della partecipazione all’opera di rieducazione non può essere desunta, pertanto, né dal mero comportamento di "buon detenuto" né dall’assenza di pericolosità sociale, intesa come rilevante probabilità che il condannato possa commettere altri reati, ma deve essere tratta da elementi specifici, sintomatici di un ravvedimento improntato alla revisione delle motivazioni che lo avevano indotto a scelte criminali ed al progressivo abbandono dei disvalori sui quali tali scelte si fondavano.

Il compimento di questa revisione critica - che parta ovviamente dal distacco completo dalla precedente esperienza deviante e si completi con la piena consapevolezza del disvalore sociale del fatto e dalla acquisita coscienza dell’enorme danno sociale arrecato - diventa quindi elemento essenziale (e differenziale rispetto ai normali casi di criminalità "disadattata"), nella valutazione delle devianze che non siano frutto di emarginazione e disadattamento.

Giustizia: Manganelli (capo polizia); pene sono troppo incerte


Dire, 29 maggio 2008

"La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina". È quanto dice il capo della polizia Antonio Manganelli nel corso dell’audizione davanti alle commissioni riunite Affari costituzionali e Giustizia del Senato in merito al decreto sicurezza. "Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini - aggiunge - ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata". Così, continua, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco ("i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento"), al Nord e in particolare nel Nord est "si toccano picchi del 60-70 per cento". La maggiora parte degli immigrati clandestini, sottolinea poi Manganelli, entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico.

"Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa - dice il capo della polizia - mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente". E conclude: "Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio". Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, "occorre quindi non solo il contrasto all’ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini".

"Il vero tema è la certezza della pena che tutti invochiamo. Ora quale normativa si debba usare non sta a me dirlo, ma che sia una situazione assolutamente vergognosa questo mi sento di dirlo", dice Manganelli. "Voglio richiamare l’attenzione su quello che è il vero indulto quotidiano e di cui tutti parliamo e su cui negli ultimi anni non si è fatto niente". E aggiunge: "In merito alla certezza della pena e di una giusta repressione, non parlo di giustizialismo, è meglio che ci sia una risposta al reato con una pena anche blanda, che non la promessa di castighi futuri. Questo è il vero tema.

E dentro le forze dell’ordine registro un consenso su questo. Devo anche dire che nei salotti televisivi anche improbabili criminologi si esprimono a favore di questo. Ora - ripete - quale normativa si debba usare non sta a me dirlo, ma che sia una situazione assolutamente vergognosa questo mi sento di dirlo". D’altra parte, spiega il Capo della polizia, "la certezza della pena oggi è il dato più incerto mentre è certa l’assoluta vanificazione degli sforzi della magistratura e della polizia. Una non risposta attraverso la pena la registriamo tutti i giorni e chi è stato arrestato ad esempio nell’ultimo trimestre vediamo che è stato fermato per lo stesso reato 4 o 5 volte".

Cpt: 60 giorni possono non essere sufficienti

I sessanta giorni di tempo di permanenza nei Cpt (come prevede attualmente l’ordinamento italiano) "possono non essere sufficienti se si vuole fare un lavoro rigoroso di identificazione ed espulsione dei clandestini con procedure e strutture adeguate". Addirittura "sono assolutamente insufficienti" nei casi in cui gli irregolari provengono da Paesi che non collaborano. È quanto dice il capo della Polizia, Antonio Manganelli, nel corso dell’audizione nelle commissioni Affari costituzionali e Giustizia del Senato sul decreto sicurezza. Manganelli ricorda che ci sono due "categorie di immigrati clandestini": quelli "facilmente identificabili perché provengono da Paesi con cui c’è collaborazione" e quelli "che non verranno identificati mai o che verranno identificati con tempi molto più lunghi dei 60 giorni perché non è possibile identificarli neanche nei paesi d’origine". Per il primo tipo di clandestini, sottolinea, "60 giorni abbiamo visto che sono sufficienti, per i secondi non è possibile quantificare il numero del tempo necessario al trattenimento dei Cpt".

Poi osserva che anche per i Paesi stranieri che collaborano "non è che l’ambasciatore del Paese ‘amicò ha la bacchetta magica per identificare persone che non si vogliono fare identificare". Inoltre, osserva il capo della polizia, se si aumenta il numero dei Cpt e quindi dei trattenuti "aumenterebbe anche il carico di lavoro per i consolati che non occupandosi certamente solo di identificazione avrebbero bisogno di più tempo". Quindi, conclude, visto che "c’è una direttiva europea che non ci dà la spada di Damocle dei 60 giorni che noi ci siamo dati, potrebbe essere un’opportunità" allungare i tempi del trattenimento. La norma sull’adeguamento dei Cpt è assolutamente opportuna se si vuole contrastare l’immigrazione clandestina".

Indispensabile adeguare il numero dei Cpt

"Un adeguamento attraverso una modulazione del numero dei Cpt è assolutamente opportuno se si vuole contrastare l’immigrazione clandestina. Se questo adeguamento non viene realizzato allora è inutile parlare di ciò di cui stiamo parlando. Se non si può allontanare il clandestino perdiamo solo tempo". Così il capo della Polizia Antonio Manganelli nel corso dell’audizione davanti alle Commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato sul decreto sicurezza. Insomma, per Manganelli, "il voler aprire la strada ad un vero contrasto dell’immigrazione clandestina, anche attraverso l’adeguamento numerico dei Cpt è indispensabile, anche se, ovviamente, ci vorranno tempo e risorse".

martedì 27 maggio 2008

Giustizia/Carcere: cosa fare perché la pena abbia un valore positivo…

Monica Cali (Magistrato di Sorveglianza di Torino)

www.ilsussidiario.net, 27 maggio 2008

Sono Magistrato di Sorveglianza da circa 13 anni ed ho seguito con interesse la coraggiosa indagine del sussidiario.net sul tema carceri. Uso l’espressione "coraggiosa" perché, dal complesso delle interviste e delle riflessioni sinora raccolte, emerge l’idea che ripartire dal carcere è possibile in certe e a certe condizioni e che la pena detentiva non è un male metafisico in sé.

Sono sempre stata di quest’avviso, anche se la mentalità comune, che purtroppo serpeggia anche tra gli addetti ai lavori, non la pensa così. Con tanti colleghi abbiamo lavorato e lavoriamo sempre perché tutto, ogni opportunità, possa diventare per i nostri ospiti un’occasione per desiderare un cambiamento e perché il carcere possa diventare una ipotesi positiva da cui ripartire pur tra mille difficoltà e drammi.

Si oscilla spesso tra una visione severamente giustizialista e una eccessivamente perdonista che confondono e lasciano disorientato sempre più l’uomo comune, che a buon diritto pretende giustizia e sicurezza e che si straccia le vesti per il sovraffollamento delle carceri, ma grida vendetta quando ai provvedimenti clemenziali seguono impietose statistiche sull’aumento del tasso di recidiva. È difficile in questo clima credere nella positività del carcere e della pena, che comunque venga eseguita si pensa non debba servire a nulla.

Vorrei poter dare anch’io il mio contributo all’indagine del Suo giornale, aggiungendo qualche riflessione su funzione e significato sostanziale della pena in sé, che può perdere la sua connotazione negativa se si sgombera il campo da alcuni equivoci di fondo su cui si basa, a mio avviso, certa ottica giustizialista o perdonista.

1) Si ritiene che l’attuale sistema penitenziario sia assolutamente insufficiente ed inadeguato a soddisfare il bisogno umano di giustizia. Lo stimolo educativo che esso propone avviene in condizioni così sfavorevoli (privazione della propria libertà, dei propri affetti) che appare utopico che ad esso possa corrispondere un percorso positivo da parte del detenuto.

2) Una sanzione penale che si concretizzi in una detenzione è inutile poiché - così si pensa - il carcere è spesso luogo dove i detenuti finiscono con l’aggravare la loro capacità delinquenziale.

3) Il sistema dei benefici penitenziari si basa su una osservazione trattamentale, che va richiesta dal detenuto ma che finisce con l’essere strumentale poiché il condannato la chiede a fini utilitaristici.

4) L’intervento educativo si basa su un obiettivo ambizioso ed irraggiungibile che è quello del trattamento individualizzato. Che pertanto andrebbe abbandonato.

5) Il trattamento penitenziario si basa su istituti quali il lavoro e l’istruzione, pieni di limiti, che spesso si risolvono in un mero riempimento di una giornata vuota e priva di prospettive.

6) Il sistema penitenziario è in crisi perché è la sanzione penale ad essere in crisi. Il clima multiculturale proprio della nostra epoca ha fatto venir meno la corrispondenza tra i valori tutelati dalla norma penale (che storicamente affonda le radici in una concezione giudaico cristiana) e quelli diffusi, con la conseguenza che chi si trova a patire una condanna per violazione di un principio non appartenente alla propria cultura non capisce a cosa e perché deve essere rieducato.

7) A questo sistema in crisi, poiché fondato su valori ormai non più comunemente condivisi, si dovrebbe sostituire un sistema di carattere risarcitorio riparatorio, l’unico che forse può perseguire obiettivi di serie e comprovata rieducazione.

Qui è proprio in discussione il senso e il significato della pena e quale sia la sua funzione. La mia esperienza quotidiana non mi consente di condividere il giudizio complessivo alla luce del quale l’ordinamento penitenziario fallisce sostanzialmente gli obiettivi primari della rieducazione e del reinserimento.

Si tratta di un problema più pratico che teorico, perché le risorse dedicate alla esecuzione penale ed alla utile espiazione della pena sono poche e inadeguate. Scarso è il personale penitenziario, amministrativo e di polizia. Gli stessi Uffici di Sorveglianza sono sguarniti dal punto di vista degli operatori e dei magistrati. A ciò si aggiunge spesso una povertà umana desolante, mentre di fronte a chi più ha sbagliato occorre che ci siano persone professionalmente capaci, credibili e portatrici di senso, che suscitino in chi incontrano speranza e desiderio di cambiamento, offrendo vere opportunità.

Voglio a questo proposito ricordare una bellissima lettera (inviatami per conoscenza dalla collega dell’Ufficio di Sorveglianza di Pescara) che i detenuti del carcere di Lanciano hanno scritto per il Natale al giornale Il Centro, dicendo che nelle giornate detentive si ha bisogno più di ogni altra cosa di credere nell’operato di qualcuno che la speranza la concretizza in realtà, dando e chiedendo fiducia.

È vero che il carcere è spesso luogo dove i detenuti finiscono con l’aggravare la loro capacità delinquenziale, ma non bisogna dimenticare che l’articolo 27 della Costituzione recita "la pena tende alla rieducazione" significando che è nella libera scelta del condannato continuare a delinquere o cambiare rotta, desiderando un mutamento per sé e affidandosi al percorso rieducativo proposto in carcere.

Se nel carcere si registra una tendenza criminogenica dobbiamo metterci di fronte alle nostre responsabilità, facendoci portatori di una strada credibile e praticabile per il nostro ospite, senza però nulla togliere alla necessità di una sanzione penale.

È vero che spesso l’interesse all’osservazione trattamentale ed in generale al trattamento offerto all’interno degli istituti penitenziari è dettato da motivi utilitaristici ed è strumentale alla richiesta di benefici, ma non bisogna dimenticare che l’ingresso in carcere non determina in sé un desiderio di cambiare.

desiderio (proprio come accade per ognuno di noi) è frutto e solo frutto di un lavoro libero su di sé, che non scaturisce dalla quantità di tempo passato in carcere. È un viaggio dentro di sé che determina questo desiderio di cambiare, è questo guardarsi dentro (che al limite una situazione come quella carceraria può favorire), non il tempo più o meno lungo passato in cella. Non ritengo opportuno abbandonare il trattamento individualizzato perché si basa su istituti inutili. Sicuramente il trattamento deve essere migliorato, approfondito, rimpolpato, ma non è condivisibile il giudizio di chi ritiene che nell’istruzione e nel lavoro in carcere vi siano solo limiti.

In realtà, da quello che in questi anni abbiamo potuto vedere in Sicilia, in Abruzzo, in Piemonte, nel Veneto come altrove, il lavoro penitenziario è, sì, sempre scarso e riguarda poche persone, ma non è solo mezzo di assistenza indiretta, priva di valore educativo o - come spesso la mentalità comune lo definisce - un espediente per combattere la noia. Piuttosto, è il modo attraverso il quale il detenuto può provare ad impegnarsi di nuovo con la realtà, facendo fatica - ed accettando dunque di dover fare fatica - per procurarsi ciò di cui ha bisogno.

Parlando con quelli tra i detenuti che hanno fatto l’esperienza delle borse lavoro in carcere o che lavorano in articolo 21 o.p. o che hanno partecipato ai lavori volontari per il recupero del patrimonio ambientale, emerge come costoro guardino a queste esperienze come a momenti in cui hanno l’opportunità di sentirsi di nuovo utili e produttivi, di vedersi in azione e dunque di sperimentare una positività indispensabile per poter progettare un qualunque futuro.

È inaccettabile il giudizio di sfiducia sulla stessa funzione della sanzione penale, in quanto basata su un’etica cristiana ormai non più condivisa né condivisibile. Quando un uomo commette un crimine è perché non ha rispettato il suo rapporto corretto con la realtà e questo è vero per chiunque.

La norma costituzionale, lungi dal muoversi in un’ottica di mera pacificazione sociale, propone e chiede un lavoro su di sé, per recuperare innanzitutto il rispetto per se stessi, articolabile in due momenti: accettare davanti a sé che si è sbagliato, e conseguentemente disporsi ad un’espiazione che non sia vissuta come un’ingiustizia, ma come tempo nel quale recuperare quanto con il crimine si era rotto o incrinato, accettando delle opportunità valide per rendere più stabile il proprio percorso rieducativo.

La distinzione tra il bene ed il male e la possibilità di scegliere l’uno o l’altro è nel cuore di ogni uomo. L’articolo 27 della Costituzione propone un percorso vero per tutti coloro che hanno deciso di essere uomini sino in fondo e non bestie.

Non bisogna poi dimenticare che se il sistema sanzionatorio si priva di questo leit motiv di fondo, riducendo la propria pretesa e sostituendo al sistema della pena un sistema alternativo esclusivamente fondato sull’attività lavorativa risarcitoria e sulla cosiddetta giustizia ripartiva in generale, finisce davvero col privare il condannato della possibilità di impegnarsi per cambiare (tra l’altro non esonerando dal rischio di una recidiva). Se non si capisce perché si deve lavorare, cosa si deve risarcire perché il sistema non aiuta a capire se e perché si è sbagliato, davvero si finirebbe con l’infliggere pene alternative, ma ingiuste, perché comminate a prescindere dall’esistenza del bene, del male e dalla propria responsabilità e libertà.

Il nostro ordinamento penitenziario e la esecuzione della pena detentiva così come in esso viene prevista è forse ancora uno dei migliori modi possibili e rimane ancora il modo più adeguato (così come pensato dai nostri padri costituenti) per soddisfare il bisogno di giustizia dell’uomo nei termini che davvero esso richiede: desiderio di cambiamento e responsabilità, consentendo di partire, anzi di ripartire, proprio da dove si è sbagliato e salvaguardando la propria libertà.

Diversamente - ritenendo cioè che tutto ciò che è diverso o alternativo all’attuale sistema sia migliore - si fanno fuori le premesse di un percorso che non si capisce dove porti e il perché valga la pena intraprenderlo.